Prospettive assistenziali, n. 129, gennaio-marzo 2000

Affido familiare: un punto di accoglienza e di primo orientamento

ANgela evangelisti (*), rita bondioli (**)

 

A seguito di ogni campagna informativa sull’affido che periodicamente il Gruppo tecnico ha condotto, si ripresentava l’esigenza di strutturare un punto di prima accoglienza per le famiglie che rispondevano alle richieste di solidarietà e volevano approfondire le tematiche dell’affido.

Da una parte tali famiglie desiderano infatti, in tempi brevi, informazioni corrette sui bisogni dei bambini di cui, attraverso la stampa o altri canali divulgativi, si andava parlando, dall’altra il Servizio affido aveva l’esigenza che questo momento divenisse già un’opportunità di autoselezione nel senso di incentivare consapevolezza di sé, realismo circa le proprie capacità e disponibilità, presa di coscienza dei bisogni sottostanti ai desideri oblativi.

Nel gennaio 1998 abbiamo dunque aperto uno spazio informazione e orientamento presso il Centro per le famiglie, servizio già conosciuto nella città come punto di riferimento per le famiglie con figli minori, alle prese con i quotidiani problemi dell’accudimento e della cura.

La stessa organizzazione del Centro, oltre alla favorevole ubicazione nella città, rendevano tale spazio facilmente e immediatamente accessibile. Lo spazio è stato inizialmente aperto al sabato mattina dalle 10.00 alle ore 12.00: se tale orario rimane comunque il riferimento per le telefonate e l’organizzazione degli appuntamenti, gli incontri vengono fissati nell’intero arco della settimana per rispondere alle esigenze delle famiglie stesse.

La segreteria del Centro e gli altri operatori che rispondono alle famiglie danno informazioni sulle possibilità di orario e assicurano che verranno richiamati. Gestisce lo spazio un’assistente sociale in pensione che ha svolto, per tutti gli anni della sua carriera lavorativa, attività nell’area minori, occupandosi, fin da prima della legge 184/1983 di adozioni, affidi e famiglie multiproblematiche.

La scelta di un operatore con grande esperienza, oggi in un ruolo volontario, ha voluto sottolineare il carattere d’intervento integrato dell’affido e la necessità di collaborare tra pubblico e privato, tra volontariato e istituzione.

Il progetto si colloca come ponte tra la componente istituzionale, rappresentata dai servizi che dell’affido hanno titolarità, e la componente volontaria rappresentata in questo caso dal Centro per le famiglie quale agenzia al servizio delle famiglie stesse.

La collaborazione con il Centro per le famiglie è garantita dall’inserimento a pieno titolo dell’operatore volontario nell’équipe multidisciplinare che elabora e gestisce la progettazione.

Nel momento della pianificazione del lavoro la presenza dell’équipe assicura la possibilità di un ricco confronto sui bisogni delle famiglie e quindi sulla eventuale necessità di evoluzione del progetto stesso.

Diversi sono i punti che vengono affrontati nel corso dei colloqui. Le famiglie hanno solitamente rappresentazioni sufficientemente realistiche dell’affido: immaginano un bambino, sfortunato e infelice, solo, rispetto a un contesto familiare inesistente o inadeguato. Più ingenua è invece la rappresentazione dei bisogni di questi bambini, dei complessi vincoli che li tengono legati alla famiglia di origine, dell’ambivalenza che avranno per la famiglia affidataria, della “confusione” che la doppia appartenenza potrà produrre.

In questo senso, immaginano una famiglia di origine che rimane sullo sfondo sino a scomparire, lasciando libero il bambino di legarsi completamente a loro, di “guarire” le sue ferite, recuperare in fretta abilità misurabili in performance scolastiche, capace di sentire ed esprimere la riconoscenza che infine avrà per loro.

Per quanto riguarda la rappresentazione di sé, una prevalenza di famiglie si sentono molto aperte e sicure, capaci di affrontare e risolvere problemi anche molto forti. Famiglie quindi ricche di disponibilità ed entusiasmo che devono acquisire realismo rispetto alla gravità della sofferenza insita in queste storie di bambini e di famiglie che si separano, che devono maturare capacità di attesa, consapevolezza della lentezza dei cambiamenti profondi.

La sicurezza dei modelli di comportamento che li caratterizza rende a volte difficile la sopravvivenza delle speranze nella famiglia di origine, nelle sue possibilità di cambiare, nella presenza di valori positivi ed utili allo stesso minore pur all’interno di stili di vita fortemente critici.

Il lavoro dell’assistente sociale volontaria è quello di sollecitare riflessioni rispetto alla propria vita, alle proprie scelte, alla possibilità di confrontarsi con una diversità che viene, inizialmente, spesso, sentita come minacciosa. Solo se elaboreranno questa paura di essere “contaminati” dalle famiglie di origine, potranno accostarsi ai figli di queste famiglie con fiducia, speranza, rispetto.

Proseguiranno questo lavoro di confronto e di approfondimento l’assistente sociale e lo psicologo del Gruppo tecnico dell’affido nel consueto percorso istruttorio che condurrà alla Banca delle famiglie, in parte attraverso incontri collettivi, in parte attraverso colloqui individuali.

Una percentuale minore di famiglie, rappresentata da coppie o anche da single, di solito donne, arriva alla richiesta di affido come soluzione a problemi propri: ultima ratio per avere un figlio dopo aborti ripetuti, “strumento” contro il coniuge (per fargli rabbia) o per il coniuge (per trattenerlo o per coinvolgerlo) per soddisfare desideri di genitorialità non condivisi con il partner o rispetto a gravidanze che intimoriscono: soluzione, infine, a lutti inelaborati.

In questi casi l’assistente sociale volontaria, con un colloquio o due, cerca di orientare la persona o la famiglia a ricercare gli aiuti adeguati, pur con la necessaria delicatezza e il sostegno empatico più opportuni.

Nel corso dell’anno ’98, si sono presentate allo sportello circa 50 famiglie, di cui 20 hanno proseguito l’iter per l’affido, mentre una decina ha scelto di sperimentarsi in progetti di sostegno a famiglie con minori più “leggeri”, accompagnamenti a scuola, recupero scolastico, accudimento di minori durante brevi assenze dei genitori.

Gli altri hanno deciso, a seguito degli incontri, di sospendere la disponibilità per affrontare quei problemi personali che avrebbero potuto ostacolare la loro capacità di prendersi cura di altri in modo se­reno.

A fianco di questo lavoro di primo orientamento si è sviluppata un’attività di formazione con l’associazione per l’accoglienza temporanea dei bambini Saharawi finalizzata all’approfondimento dei problemi che tali famiglie avrebbero affrontato con l’ospitalità di questi bambini. I minori, di solito di età comprea tra i 9 e gli 11 anni, appartenenti alla popolazione rifugiatisi in terra algerina a seguito dei conflitti nel Sahara occidentale, vengono accolti per alcuni mesi, in genere nel periodo estivo, per motivi sanitari. Accordi con l’Azienda Policlinico e l’USL consentono loro di effettuare terapie adeguate alle patologie di cui sono affetti (morbo ciliaco, esiti di poliomielite, ecc.).

L’associazione cura il loro inserimento nelle famiglie, oltre che nei contesti di socializzazione che l’ente locale o le agenzie private organizzano sul territorio nel periodo estivo. Le famiglie ospitanti vengono preparate dall’associazione, cui fanno parte esse stesse, attraverso percorsi di formazione e autoselezione. Durante l’accoglienza i frequenti momenti di incontro consentono ai bambini di sentire la continuità con la cultura di provenienza e alle famiglie di avere, attraverso il confronto con i pari, un utile sostegno.

Il rispetto delle famiglie di origine, dei loro costumi e delle loro tradizioni viene costantemente riproposto, nelle relazioni che si costruiscono, al fine di realizzare esperienze positive.

All’interno di una più ampia collaborazione che si è sviluppata tra l’Ente provinciale, il servizio comunale per i minori e le associazioni che si occupano dell’ospitalità dei minori stranieri, l’associazione stessa ha richiesto la collaborazione al Gruppo affido, in preparazione dell’accoglienza che le famiglie avrebbero fatto nell’estate 1998. Si è optato per l’intervento dell’assistente sociale volontaria che ha condotto due incontri con le famiglie stesse. Ha partecipato agli incontri il coordinatore del Centro per le famiglie, con un ruolo di affiancamento e collaborazione nella conduzione.

Gli incontri sono stati estremamente interessanti: innanzitutto l’assistente sociale volontaria ha illustrato l’istituto dell’affido, le caratteristiche psicologiche della fase della latenza e quindi dei problemi legati alla separazione dal contesto di origine, all’incontro con una nuova cultura, ai rischi connessi al consumismo insito nel nostro modo di vivere.

Nel secondo incontro le famiglie si sono confrontate sull’esperienza dell’anno precedente, mostrando sensibilità, attenzione, consapevolezza e quindi grande capacità di accogliere bambini così diversi dai nostri. È emerso come questi minori fossero attratti non dalle cose ma dalle persone: non cercavano giochi, né TV, piuttosto cercavano di “trattenere” le relazioni costruite attraverso la richiesta di foto, la registrazione delle voci, di scritti...

I bambini Saharawi si mostravano molto legati alla cultura di profughi, che assegnava a ognuno di loro un ruolo sociale importante. Questi bambini, come in altre società premoderne, rischiavano l’esclusione a causa della loro patologia. I nuovi apprendimenti (un bambino, ad esempio, aveva imparato a suonare il flauto) acquisiti con l’aiuto della famiglia affidataria oltre ai benefici delle cure mediche, avevano reso possibile l’assunzione di un ruolo positivo, di “insegnanti”, nei confronti dei coetanei, che riscattava le menomazioni, che pur in misura minima, permanevano.

Per quanto riguarda le famiglie, ha colpito la “trigenerazionalità” di questa accoglienza: molte di loro avevano, nei loro ricordi d’infanzia, l’ospitalità di bambini che a seguito di eventi bellici erano rimasti soli, con cui avevano mantenuto rapporti fraterni, di cui parlavano, in quel contesto di gruppo, con commozione.

Sul piano amministrativo, in accordo con l’ente provinciale, cui fa capo il progetto di cooperazione internazionale entro cui prendono vita questi interventi, è stato aperto un provvedimento di affido familiare. Si è ritenuto infatti che ciò garantisse la necessaria tutela del minore e nello stesso tempo salvaguardasse la famiglia, che aveva, in tal modo, una chiara definizione del proprio ruolo, delle proprie responsabilità, dei propri diritti e doveri.

Come indicato dalla legge 184/1983 solo qualora l’intervento abbia superato i sei mesi ne è stata data notizia al Giudice tutelare che ne ha curato l’esecutività.

Fin dall’avvio dell’affido le famiglie hanno avuto il contributo economico, a titolo di rimborso spese e la copertura assicurativa. Le stesse fanno riferimento, inoltre, all’équipe psicosociale del territorio per la vigilanza e il sostegno dell’affido stesso.

Infine, in collaborazione con l’ARCI, si sta programmando un’attività di promozione che si svilupperà nei prossimi mesi.

L’associazione proporrà alle famiglie incontri sulle problematiche dei minori, cui l’assistente sociale volontaria parteciperà per svolgere, in questi contesti, analogo lavoro di informazione e orientamento sull’affido.

 

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