Prospettive assistenziali, n. 127, luglio-settembre 1999

 

Editoriale

la riforma dell’assistenza all’esame della camera dei deputati: una proposta di legge gravemente immorale

 

 

 

Coloro che si occupano della promozione dei diritti della fascia più debole della popolazione sanno da sempre che l’asserita mancanza di mezzi economici è una delle false motivazioni addotte dalle autorità (Governo, Regioni, Comuni, Province, ASL, ecc.) per tentare di giustificare le paurose carenze dei servizi sanitari, abitativi, assistenziali e sociali in genere, indispensabili per le esigenze fondamentali di vita dei suddetti soggetti.

 

1. Sottratti ai poveri 37-50 mila miliardi

Il 5 luglio 1999 ha avuto inizio alla Camera dei deputati l’esame della legge quadro sull’assistenza che reca il titolo “Disposizioni per la realizzazio-
ne del sistema integrato di interventi e di servizi so­ciali”.

È assai allarmante, in primo luogo, che il testo in discussione preveda l’abrogazione (cfr. gli art. 10 e 30) delle vigenti disposizioni che destinano esclusivamente alle persone e ai nuclei familiari in condizioni di gravi difficoltà socio-economiche (minori in tutto o in parte privi del necessario sostegno da parte dei loro genitori, handicappati intellettivi con limitata o nulla autonomia, ecc.) i patrimoni immobiliari e mobiliari delle IPAB, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, stimati in 37 mila miliardi (cifra riportata nella relazione della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati) e i relativi redditi. Secondo la rivista IPABOGGI, n. 6, 1996, l’ammontare dei suddetti beni sarebbe, invece, di 50 mila miliardi.

Il testo in esame prevede all’art. 10 quanto segue: «Entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge il Governo è delegato ad emanare un decreto legislativo recante una nuova disciplina delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) di cui alla legge 17 luglio 1890, e successive modificazioni».

I criteri a cui dovrà attenersi il Governo riguardano in particolare:

– il cambiamento della natura giuridica delle IPAB senza alcuna ulteriore precisazione;

– la possibilità della trasformazione delle IPAB in associazioni o fondazioni di diritto privato;

– la separazione della gestione dei servizi da quella dei patrimoni;

– lo scioglimento delle IPAB inattive da almeno due anni.

Nulla è, invece, previsto in merito ai patrimoni immobiliari e mobiliari:

a) già assegnati a titolo assolutamente gratuito ad organizzazioni private a seguito della sconcertante sentenza n. 396 del 7 aprile 1988 della Corte costituzionale. Si tratta di un insieme cospicuo di beni, il cui importo, in via di larghissima approssimazione, può essere calcolato in 30-40 mila miliardi (1);

b) trasferiti negli anni scorsi ai Comuni a seguito dell’estinzione delle IPAB. La valutazione, anche in questo caso estremamente sommaria, è di 40-50 mila miliardi.

Per i suddetti patrimoni, e per quelli ancora oggi appartenenti alle IPAB, riteniamo che valgano le parole pronunciate da Mons. Giovanni Nervo al convegno di Torino del 12 dicembre 1989: «Il primo principio etico, equivale per i credenti ad un Comandamento di Dio: non rubare. I patrimoni delle IPAB sono stati donati da privati cittadini per i poveri. Prima che fossero donati erano di proprietà dei privati, dopo che sono stati donati, sono diventati proprietà dei poveri. Questo principio rimane, qualunque siano state le vicissitudini storiche e giuridiche» (2).

Concordiamo pienamente con le affermazioni di Mons. Nervo e riteniamo che il Parlamento dovrebbe approvare disposizioni di legge rivolte a conservare la destinazione alla fascia più bisognosa della popolazione dei patrimoni delle IPAB, comprese quelle trasferite ai Comuni o privatizzate (il cui valore complessivo è stimabile in 120-140 mila miliardi) ed i redditi relativi (3), sia perché è palesemente immorale rubare ai poveri, sia in considerazione delle enormi e pressanti esigenze insoddisfatte di strutture e di servizi per le centinaia di migliaia di persone in gravi difficoltà socio-economiche.

In particolare, occorrerebbe che il Parlamento riconfermasse la norma fondamentale della legge 6972 del 1890, in base alla quale i patrimoni delle IPAB non potevano e non possono ancora oggi essere utilizzati per coprire le spese di gestione. Ad esempio, i negozi possono essere venduti per acquistare alloggi o titoli di Stato, ma non è ammesso che il ricavato delle vendite sia destinato al pagamento degli stipendi del personale.

 

2.    La Repubblica avrà almeno il coraggio espresso dalla Monarchia?

 

Dalla lettura del verbale della seduta della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati del 29 giugno 1999 emerge – fatto estremamente preoccupante – che ai Parlamentari non è stata fornita alcuna documentazione sulle IPAB.

Infatti, risulta che «il Ministro Livia Turco si riserva di trasmettere tempestivamente alla Commissione i dati risultanti dal censimento (delle IPAB, n.d.r.), discussi in un seminario pubblico con la partecipazione degli amministratori regionali e dei rappresentanti delle IPAB. Tale seminario ha riconosciuto l’attendibilità dei dati del censimento, che il Governo si impegna a perfezionare. Conferma i dati del rela­tore».

Ma se i dati sono attendibili, perché c’è bisogno di perfezionarli? Oppure si tratta di dati approssimativi e insufficienti, visto che il relatore si è limitato a dire che «le IPAB sono circa 4.200 e detengono un patrimonio di circa 37 mila miliardi. L’offerta di posti residenziali per anziani ammonta ad un terzo di quella complessiva del Paese: gli anziani assistiti sono, infatti, 67 mila, mentre gli addetti, di varia professionalità, sono circa 60 mila. Il 44 per cento delle entrate derivano dalla corresponsione delle tariffe per i servizi erogati e sono, quindi, di natura pubblica».

Sono, com’è evidente, elementi assolutamente inadeguati per la conoscenza della situazione reale delle IPAB, sia in merito alle attività svolte a favore degli anziani (nulla è precisato per quanto riguarda le caratteristiche degli utenti: autosufficienti, malati cronici, dementi senili, ecc.), sia circa le altre tipologie di assistiti di cui non è stato riferito alcunché. Nulla, inoltre, è stato precisato sulle alternative al ricovero di minori, anziani e handicappati, sulle caratteristiche dei patrimoni, sulle effettive possibilità di riconversione dei beni, sui rapporti delle IPAB con le Regioni, gli Enti locali e le ASL, ecc.

Ne deriva, a nostro avviso, la necessità che il problema della IPAB venga stralciato dal testo di legge in esame e venga nominata una Commissione di indagine, così come era stato fatto nel secolo scorso con il regio decreto 3 giugno 1880.

La nomina di una nuova Commissione consentirebbe non solo di accertare le eventuali (a nostro avviso sicure ed estese) illegalità esistenti nella gestione dei patrimoni delle IPAB ed ex IPAB (4), ma anche di conoscere per quali motivi il loro numero, individuato nel 1888 dalla Commissione reale in 21.816, si sia ridotto a 9.000 secondo quanto dichiarato dal Ministero dell’interno nel 1970 e attualmente raggiunga solo le 4.200 unità.

Sarebbe, inoltre, possibile individuare le misure da predisporre per garantire la destinazione alla fascia più debole della popolazione i patrimoni delle IPAB trasferite ai Comuni e quelli messi gratuitamente a disposizione dei privati.

 

3.    Negate le esigenze delle persone e dei nuclei familiari veramente bisognosi

 

La stragrande maggioranza degli individui trascorre tutta l’esistenza senza avere mai bisogno di ricorrere alle prestazioni dell’assistenza sociale. È, infatti, pienamente capace di soddisfare le proprie esigenze sia con le risorse personali e familiari, sia utilizzando i servizi messi a disposizione della società per la prevenzione e cura delle malattie, l’istruzione prescolastica, scolastica e superiore, la casa, il lavoro, i trasporti, la cultura e gli altri interventi di interesse generale.

Tuttavia non si può ignorare che vi è – e purtroppo vi sarà anche in futuro – una parte della popolazione (attualmente in via di larghissima approssimazione il 2-3% degli abitanti) che, a causa delle carenze del proprio nucleo familiare (minori del tutto o in parte privi dell’indispensabile protezione familiare) o a seguito di difficoltà personali (insufficienze intellettive o altri gravissimi handicap) o situazioni di disadattamento sociale (persone senza fissa dimora, ecc.) non sono capaci, pur utilizzando le risorse sociali (sanità, abitazione, istruzione, ecc.) di inserirsi autonomamente nella comunità.

In questi casi, o interviene adeguatamente il settore dell’assistenza sociale o le persone subiscono le deleterie conseguenze dell’emarginazione e dell’esclusione sociale, conseguenze che – com’è ovvio – si ripercuotono, spesso pesantemente sulla loro qualità della vita e, a volte, sulla stessa loro sopravvivenza, nonché sulla loro prole.

Ad esempio, è noto da oltre 50 anni sul piano scientifico che il bambino ricoverato in un istituto anche lussuoso, seguito amorevolmente da educatori specializzati, curato in modo validissimo dal Servizio sanitario nazionale, frequentante un eccellente asilo nido o una efficiente scuola materna o dell’obbligo, presenta quasi sempre profondi disturbi della personalità per il fatto di essere privo degli affetti di una normale famiglia. Per i 20 mila fanciulli che vivono nelle suddette condizioni, il miglioramento, anche notevole, delle politiche sociali riguardanti la sanità, l’inquinamento atmosferico, la casa, l’istruzione, la cultura, i trasporti, le istituzioni prescolastiche e scolastiche, ecc. non produce alcun effetto per il superamento della loro emarginazione.

È, invece, determinante per i suddetti minori e per i bambini che vivono in famiglie gravemente carenti sul piano educativo (genitori alcoolisti o tossicodipendenti o con gravi disturbi psichiatrici o con ragguardevoli limitazioni intellettive o con problemi relazionali di una certa entità, ecc.) che intervenga il settore assistenziale, non sostituendosi agli altri servizi (sanità, istruzione, ecc.) ma integrandone gli interventi in modo da fornire ad essi le prestazioni aggiuntive necessarie per la loro permanenza nella famiglia d’origine se possibile, o per il loro inserimento presso nuclei affidatari, o in famiglie adottive se privi totalmente delle indispensabili cure morali e materiali da parte dei loro genitori o dei parenti o, infine, se gli interventi precedenti non sono attuabili, presso comunità alloggio di 6-8 posti. Gli istituti di ricovero dovrebbero essere superati senza esclusione di sorta a causa della loro assoluta inidoneità a garantire ai minori condizioni di vita accettabili (5).

È ovvio per tutte le persone di buon senso che gli interventi assistenziali sopra indicati non devono avere nessun carattere di universalità, ma essere attuati esclusivamente nei confronti dei minori con famiglie gravemente carenti. D’altra parte, non si tratta di una questione marginale essendo i soggetti interessati non solo i 20 mila ricoverati in istituto, ma anche le decine di migliaia di ragazzi che vivono in condizioni di serio disagio familiare.

Le stesse considerazioni valgono per moltissimi altri soggetti. Ad esempio, terminata la scuola dell’obbligo, per le persone con handicap intellettivo, incapaci di svolgere qualsiasi attività lavorativa a causa della gravità delle loro condizioni e che continuano a vivere in famiglia, occorre predisporre specifici centri diurni (approssimativamente 1 ogni 30 mila abitanti), in modo da fornire ad essi le prestazioni occorrenti per sviluppare o almeno conservare la massima autonomia possibile e per assicurare ai genitori (a volte anche ultrasettantenni!) un sollievo di almeno 40 ore settimanali.

Al riguardo, occorre considerare, altresì, le esigenze specifiche dei genitori che accolgono a casa loro un figlio con gravi minorazioni, esigenze che richiedono, in particolare, prestazioni di sostegno psico-sociale, posti in comunità alloggio per le emergenze (ricovero in ospedale, gravi malattie, decesso, ecc.) e l’intervento occasionale o continuativo dei servizi assistenziali di aiuto domiciliare.

Altre prestazioni specifiche dell’assistenza concernono la creazione di strutture (in genere notturne) per le donne e gli uomini senza fissa dimora, di modo che abbiano un tetto in cui ripararsi e non muoiano, come a volte avviene, di stenti o di freddo. Ai suddetti soggetti occorre anche garantire il vitto, a meno che si ritenga eticamente corretto che possano morire di fame.

Poi ci sono i disoccupati, in particolare quelli a reddito zero, gli adulti e gli anziani privi di mezzi economici (ricordiamo che la pensione sociale viene erogata solo agli ultrasessantacinquenni privi di mezzi economici e che l’importo mensile è attualmente di L. 630.000), le persone che vogliono uscire dalla schiavitù della prostituzione, i carcerati, i dimessi dal carcere ed i loro congiunti.

Si tratta, complessivamente, come abbiamo già rilevato di 1-1,5 milioni di persone che, se il testo all’esame di Montecitorio venisse approvato nella stesura attuale, rischiano di stare ancora peggio di adesso.

Infatti, se si escludono gli emolumenti economici a carattere continuativo (pensioni di invalidità, assegni sociale, ecc.), non è previsto, per i bambini senza genitori e per le altre centinaia di migliaia di persone in situazione di comprovato bisogno socio-economico, nessun diritto esigibile, nemmeno quelli riconosciuti nel secolo scorso dal regio decreto 6535 del 1889 e nel periodo fascista dalla legge 2838 del 1928 e dai regi decreti 773 del 1931 e 383 del 1934. Si trattava di provvedimenti, in parte ancora in vigore oggi, rivolti al ricovero delle persone in difficoltà, ma che consentivano e consentono ancora di intervenire con aiuti domiciliari; sono certamente superati, ma preferibili alle dichiarazioni altisonanti contenute nel testo in discussione, ma prive di qualsiasi risvolto concreto.

Ciò premesso, ribadiamo la necessità che vengano previsti interventi obbligatori e quindi esigibili per:

– le persone ed i nuclei familiari in temporanea difficoltà economiche a causa dei livelli da fame delle pensioni erogate ai più deboli (gli importi mensili di quella di invalidità è di L. 395.060, mentre per la pensione sociale l’importo è di L. 504.400, e quella dell’assegno sociale di L. 615.800 e la pensione minima INPS è di L. 709.500);

– i minori totalmente privi di famiglia (figli di ignoti, ecc.) o con genitori gravemente carenti sul piano educativo;

– le persone con handicap gravi, in particolare di natura intellettiva, che non sono in grado di procurarsi con il lavoro il necessario economico per vivere a causa delle loro condizioni psico-fisiche;

– gli adulti e gli anziani con limitata autonomia e con redditi insufficienti;

– le gestanti e madri nubili o coniugate con gravi problemi personali, alle quali va fornito il sostegno occorrente per il loro reinserimento sociale e per il riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati;

– i soggetti senza fissa dimora;

– coloro (donne e uomini) che vogliano uscire dalla schiavitù della prostituzione;

– i carcerati e gli ex carcerati al fine di promuovere il loro reinserimento sociale, ed i loro congiunti;

– i minori soggetti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria;

– le persone nei cui confronti è stata disposta l’interdizione o l’inabilitazione e la conseguente nomina di tutori e curatori.

 

4.    Le Autorità affermano che non ci sono le risorse economiche per i poveri, ma vogliono estendere i servizi sociali a tutti i cittadini

 

Demagogicamente il disegno di legge prevede (cfr. in particolare gli art. 1 e 2) che i servizi sociali possano essere forniti a tutti i cittadini, e cioè anche a coloro che già stanno bene o benissimo.

Mentre le Autorità (Governo, Regioni, Comuni, Pro­vince, ASL, ecc.) insistono continuamente sulla mancanza delle risorse economiche per soddisfare le esigenze vitali delle persone in effettive situazioni di bisogno e prive dei mezzi indispensabili per vivere (2-3% della popolazione, e cioè 1-1,5 milioni di soggetti), ci sarebbero i fondi occorrenti per istituire e gestire i servizi sociali per tutti i 57 milioni di abitanti.

Certo i servizi sociali per i benestanti rendono di più in termini di consumo sociale ed elettorale rispetto agli interventi forniti a coloro che vivono in malo modo e, soprattutto, a chi non è autosufficiente e non vota.

Ai benestanti si vuole, ad esempio, garantire il servizio di assistenza domiciliare (pulizia dell’alloggio, accompagnamenti, ecc.) a prezzi di favore. Il costo di queste prestazioni, infatti, per gli enti pubblici è di almeno 25 mila lire all’ora, per essere attuato in modo generalizzato dovrà essere concorrente con il costo in nero delle collaboratrici familiari (circa 10-15 mila orarie). Ne deriva che lo sviluppo di questo servizio, se servirà ad aumentare il peso elettorale della Giunta e, soprattutto, dell’Assessore, nello stesso tempo incrementerà il passivo dei Comuni singoli e associati (6). Quindi, nell’ambito dei servizi sociali saranno certamente confermati i soggiorni di vacanza, soprattutto di anziani, che consentono di prendere due piccioni (gli utenti e gli albergatori) con una fava, pagata dai contribuenti.

E non mancheranno altre iniziative elettoralmente molto vantaggiose: attività teatrali, di danza, di pittura, di rilassamento, corsi di lingue, atelier di vario tipo, turismo urbano ed extra urbano, ecc. (7).

Tutte queste azioni possono rientrare nell’ambito del testo di riforma dell’assistenza, in quanto non c’è nessuna distinzione fra le prestazioni rivolte alla fascia più debole della popolazione e quella per gli altri cittadini.

Al riguardo è assolutamente priva di risvolti concreti la previsione, contenuta nell’art. 22, di interventi che «costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto le forme di beni e servizi», in quanto i cittadini in situazione di bisogno non hanno alcuna possibilità di reclamo nel caso in cui ad essi non vengano fornite le prestazioni, comprese quelle indispensabili per vivere.

Allo scopo di tentare di salvare il salvabile il CSA, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, ha chiesto all’On. Diego Novelli, già Sindaco di Torino, che ha accettato, di presentare una serie di emendamenti, il primo dei quali, che ha lo scopo di garantire le prestazioni indifferibili alle persone e ai nuclei familiari in gravi situazioni di bisogno, stabilisce che «gli interventi e i servizi sociali si distinguano in obbligatori e facoltativi».

In questo modo sarebbe possibile garantire le risposte indispensabili alle persone ed ai nuclei familiari in reali condizioni di bisogno e privi di mezzi necessari per vivere.

Un altro emendamento presentato è così redatto: «Ai fini dell’effettivo riconoscimento del diritto alle prestazioni dei servizi sociali obbligatori, gli utenti, le organizzazioni di volontariato e le ONLUS iscritte negli appositi registri regionali, possono presentare ricorso al Sindaco del Comune di residenza o di domicilio del soggetto interessato, che è tenuto a comunicare le proprie decisioni al reclamante entro e non oltre 30 giorni.

«L’organismo preposto alla gestione degli interventi e dei servizi sociali deve dare attuazione alla decisione di cui sopra entro e non oltre 10 giorni della comunicazione.

«Gli utenti e le organizzazioni sopra elencate possono successivamente presentare ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria anche senza l’assistenza di un legale. La procedura è gratuita e prioritaria rispetto alle altre materie».

 

5.    La cura degli anziani malati cronici non autosufficienti deve essere garantita dal Servizio sanitario nazionale

 

Nel testo in esame è previsto, anche se in modo ambiguo (cfr. gli art. 15 e 27) (8), il trasferimento della competenza ad intervenire nei confronti degli anziani colpiti da malattie invalidanti (cancro, demenza, pluripatologie, ecc.) e da non autosufficienza dalla sanità (che deve attualmente curarli in base a leggi vigenti dal 1955) all’assistenza, con le seguenti conseguenze:

– passaggio dalla gratuità al pagamento da parte dei degenti di rette ammontanti anche a 140 mila lire al giorno (9);

– perdita del diritto esigibile alle cure sanitarie, ricoveri compresi, e trasferimento degli interventi alla discrezionalità dell’assistenza e quindi con l’inserimento nelle liste di attesa, anche di 2-3 anni, per il ricovero in case di riposo e altre strutture assistenziali (residenze protette, ecc.).

Ancora una volta chiediamo che, per evidenti motivi di giustizia sociale e per ovvie ragioni medico-infermieristiche, che la prevenzione, cura e riabilitazione dei vecchi colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza continuino ad essere attività svolte, come per tutti gli altri malati, dal Servizio sanitario nazionale, attuando le leggi vigenti e rispettando la destinazione dei contributi versati dai lavoratori allo Stato che si era impegnato con la legge 692/1955 di fornire gratuitamente e senza limiti di durata le cure sanitarie anche nei casi di patologie inguaribili.

Inoltre, occorre tener conto che gli anziani malati cronici non autosufficienti (dementi senili, pazienti psichiatrici con limitata o nulla autonomia, ecc.) soffrono quasi in continuazione a causa della riacutizzazione e delle loro patologie. Ne deriva, pertanto, l’esigenza che, per evitare i frequenti deleteri trasferimenti in ospedale (il cui rifiuto a curarli è sempre più netto), le strutture di ricovero dei suddetti soggetti debbano avere una adeguata organizzazione medico-infermieristica.

In base alle leggi vigenti la cura dei vecchi colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza è senza limiti di durata e totalmente gratuita.

Tuttavia, con il trasferimento dei malati all’assistenza, viene richiesta la cosiddetta quota alberghiera che, come abbiamo già visto, supera i 4 milioni al mese per i ricoverati presso il Pio Albergo Trivulzio di Milano.

Allo scopo di regolamentare la materia, l’On. Novelli ha presentato il seguente emendamento:

«1. A decorrere dal 61° giorno di degenza presso le RSA gestite direttamente dal Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionate, il ricoverato è tenuto a versare una somma non superiore al 60% del proprio reddito pensionistico all’azienda sanitaria locale che ha disposto il ricovero. Il versamento deve essere effettuato con frequenza mensile.

«2. Entro e non oltre 180 giorni dalla data d’entrata in vigore della presente legge, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano emanano leggi per:

a) l’attuazione del 1° comma tenendo conto che al ricoverato deve essere garantita la disponibilità dell’intero reddito pensionistico o di una parte di esso al fine di poter provvedere alle proprie esigenze non soddisfatte dall’istituzione in cui è ricoverato, quali oneri verso terzi, vestiario, piccole spese personali e similari, ovvero alle necessità dei congiunti conviventi o comunque a proprio carico;

b) garantire ai ricoverati nelle RSA tutte le occorrenti prestazioni mediche, infermieristiche, riabilitative e alberghiere, comprese quelle inerenti l’indennità di accompagnamento.

«3. Alla scadenza di cui al comma 1 l’intero importo dell’indennità di accompagnamento degli utenti delle RSA è destinato all’azienda sanitaria locale che ne ha disposto il ricovero».

 

6.    Le possibili negative conseguenze dei decreti 109/1998 e 221/1999

 

Il decreto legislativo n. 109/1998 (Gazzetta ufficiale n. 90 del 18 aprile 1998) e il relativo regolamento emanato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 221/1999 (Gazzetta ufficiale n. 161 del 12 luglio 1999 (10), che hanno definito i criterri di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate, possono avere effetti molto negativi sulle condizioni finanziarie dei familiari, anche non conviventi, di assistiti.

È ancora incerto, a nostro avviso, il campo di applicazione dei suddetti decreti, anche se il Comune di Firenze aveva approvato una delibera in merito addirittura prima ancora che venisse emanato il regolamento attuativo (11).

In ogni caso, allo scopo di evitare che alle famiglie, già duramente provate dalla presenza di un congiunto privo di autonomia e quindi necessitante di assistenza, vengano chieste anche contribuzioni economiche da parte dei Comuni, l’On. Novelli ha presentato un emendamento, in cui è previsto che le Regioni devono definire i criteri per il concorso degli utenti al costo delle prestazioni «fermo restando che ai sensi e per gli effetti dell’art. 438 del codice civile, gli enti pubblici non possono pretendere contributi economici dai parenti, compresi quelli elencati nell’art. 433 c.c., di soggetti maggiorenni».

 

7.    La posizione autolesionista dei Sindacati CGIL, CISL e UIL

 

Come risulta evidente, il testo di riforma dell’assistenza presenta aspetti indiscutibilmente negativi per la fascia più debole della popolazione e quindi anche per gli aderenti ai Sindacati CGIL, CISL e UIL e, in primo luogo, per gli iscritti alla categoria dei pensionati.

Ciò nonostante i Sindacati, di cui ricordiamo il testo assai retrivo presentato con iniziativa popolare al Senato il 27 ottobre 1994 (12) e la ormai celebre affermazione di Sergio Cofferati, Segretario generale della CGIL, secondo cui «essere anziano cronico non è una malattia», appoggiano la stesura attualmente all’esame della Camera dei Deputati e ne sollecitano la rapida approvazione, arrivando al punto di chiedere al Governo nel convegno tenutosi a Bologna il 5 novembre 1998 di definire la “non autosufficienza”, ignorando con sommo disprezzo della realtà dei fatti che la quasi totalità degli anziani non autosufficienti è tale a causa di malattie in atto o di loro esiti.

 

Conclusioni

Nell’intervista rilasciata a La Stampa il 1° agosto 1999, il Presidente della Camera dei Deputati, Luciano Violante, ha affermato quanto segue: «Il nuovo Welfare deve individuare alcuni diritti minimi, sicurezza, salute, il cui godimento non può essere legato alle condizioni economiche. Questi vanno garantiti a chi non ha i mezzi per farlo o a chi non li ha più. Il resto non c’entra».

Speriamo che la Camera dei Deputati faccia proprie le sopra riportate affermazioni del suo Pre­sidente.

 

 

(1) Il testo della sentenza 396/1988 è stato integralmente pubblicato sul n. 84, ottobre-dicembre 1988, di Prospettive assistenziali. Sull’argomento si vedano i seguenti articoli: Massimo Dogliotti, La riforma dell’assistenza... della Corte costituzionale, n. 84; La privatizzazione delle IPAB, ovvero i poveri ancora più poveri, n. 90; Giovanni Nervo, Principi etico-sociali sulla privatizzazione delle IPAB, n. 90; Massimo Dogliotti, Aspetti giuridici concernenti la privatizzazione delle IPAB, n. 90.

(2) Cfr. la nota precedente.

(3) Ricordiamo che, a seguito dell’intervento del CSA, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, e dei Sindacati CGIL, CISL e UIL, la legge della Regione Piemonte 9 marzo 1991 n. 10 stabilisce al 2° comma dell’art. 6 quanto segue: «Il patrimonio mobiliare ed immobiliare delle IPAB che abbiano conseguito il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato, i relativi redditi netti derivanti dalla sua gestione ed i proventi derivanti dalla sua alienazione o trasformazione sono destinati esclusivamente alle attività socio-assistenziali previste dallo Statuto». Non risulta che analoghe disposizioni siano state approvate da altre Regioni.

(4) La Commissione reale, dopo aver lavorato per ben 9 anni, aveva accertato «gli abusi troppo frequenti per i quali la legge non dava né una efficace prevenzione, né i mezzi di una giusta riparazione» e «le rendite colossali che si spendevano senza una vera pratica utilità per la popolazione sofferente». Cfr. Mario Tortello e Francesco Santanera, L’assistenza espropriata. I tentativi di salvataggio delle IPAB e la riforma dell’assistenza, Nuova Guaraldi Editrice, Firenze, 1982.

Sulla situazione attuale si vedano gli articoli pubblicati su Prospettive assistenziali: Gravi preoccupazioni per le IPAB privatizzate della Regione Campania, n. 110; Che cosa hanno fatto la Regione Lazio e il Comune di Roma per l’utilizzo dell’ingente patrimonio delle IPAB, n. 118; I patrimoni delle IPAB di Torino: un mistero poco chiaro, n. 121.

(5) Il superamento degli istituti di ricovero per minori non è previsto nel testo di legge di riforma dell’assistenza.

(6) In pratica, è quel che avviene già attualmente per i soggiorni di vacanza degli anziani attivi ai quali per motivi clientelari viene richiesto il pagamento di somme molto inferiori alle spese effettivamente sostenute dagli enti locali.

(7) Si tratta delle iniziative promosse dalla 4ª Circoscrizione del Comune di Torino proprio nell’ambito dell’estensione dei servizi assistenziali, ancorché molto carenti, a tutti i cittadini.

(8) La stessa ambiguità si riscontra nel decreto legislativo n. 229 del 19 giugno 1999, concernente la riorganizzazione del Servizio sanitario nazionale.

(9) La retta alberghiera attualmente praticata dal Pio Albergo Trivulzio di Milano è di 140 mila lire al dì.

(10) il decreto 221/1999 è integralmente pubblicato in questo numero insieme ad un documento del Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti.

(11) Cfr. Contributi economici imposti agli assistiti e ai loro congiunti: una delibera illecita e vessatoria del Comune di Firenze, Prospettive assistenziali, n. 124, ottobre-dicembre 1998.

(12) Il testo e il relativo commento sono pubblicati sul n. 109, gennaio-marzo 1995 di Prospettive assistenziali.

 

 

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