Prospettive assistenziali, n. 126, aprile-giugno 1999

 

 

perché sono costretto a scegliere l’eutanasia attiva quale male minore

francesco santanera

 

 

 

Nella lettera “Difendetemi se divento cronico non autosufficiente” (1) che ho indirizzato a mia moglie, alle figlie, ai parenti e agli amici, ho scritto: «Al disprezzo, alle ingiurie, all’abbandono terapeutico, preferisco, senza dubbio, la morte, anche procurata».

Questa mia scelta non è casuale e non é assunta in spregio alla vita, ma è la diretta conseguenza della situazione esistente nel nostro paese: trop­po spesso gli anziani e gli adulti cronici non autosufficienti subiscono maltrattamenti anche tremendi.

Ricordo, in particolare, le piaghe piene di larve di un anziano ricoverato in una casa di riposo di Bruino (Torino), le violenze anche sessuali (sodomia) inferte ai vecchi dagli aguzzini della casa di riposo di Mestre (2), aguzzini riassunti in servizio nonostante fossero stati condannati in sede penale con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione, la morte di un anziano ricoverato presso l’Istituto di riposo per la vecchiaia di Torino abbandonato a se stesso per tutta una fredda notte di febbraio nella fossa del cortile in cui era caduto (3), le dimissioni selvagge dall’Ospedale Molinette di Torino di S.N. di anni 94 e l’assoluzione dei responsabili da parte del Tribunale, con una sentenza impostata su affermazioni certamente false (4), e tutti gli altri numerosi e sconvolgenti episodi descritti nella stessa lettera e in altre pubblicazioni (5).

 

Una scelta obbligata

Non sono mai stato e non sono un fautore dell’eutanasia: mi è difficile accettare questo metodo in quanto temo fortemente che potrebbe venir usato anche contro la volontà delle persone incapaci di autodifendersi e prive di congiunti o altri soggetti che ne tutelino i diritti.

Infatti, da molti anni, invece di assicurare le necessarie cure ai malati cronici non autosufficienti, viene spesso praticata l’eutanasia da abbandono.

A parte l’autorevole presa di posizione del Cardinale Carlo Maria Martini (6), questa prassi continua ad essere attuata in moltissime strutture pubbliche e private.

Le denunce indirizzate dal CSA, Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base, a Ministri, Parlamentari, Assessori regionali e comunali, Direttori generali di USL e altre autorità sono finora rimaste senza alcun esito: non si è nemmeno riusciti ad ottenere il riconoscimento concreto che un ottantenne malato di cancro (o di altra grave infermità) è un malato che deve essere curato con le stesse modalità con cui il Servizio sanitario nazionale interviene nei confronti di un trentenne colpito dalla stessa malattia.

Ne deriva che, essendo attualmente praticata largamente l’eutanasia da abbandono, ci sono tutte le premesse perché domani venga attuata quella attiva anche nei confronti di persone che non hanno manifestato la loro adesione.

Ho, altresì, molte riserve per quanto riguarda l’eutanasia attiva e passiva praticata a persone che, pienamente capaci di intendere e di volere, hanno sottoscritto una specifica dichiarazione o hanno manifestato la loro volontà con altri mezzi, ma sempre in modo incontrovertibile, in quanto la messa in atto può essere disposta con metodi non corretti, soprattutto nei confronti di coloro che non sono in grado di autodifendersi ed i cui diritti non sono tutelati da congiunti o da altri soggetti.

 

Le sofferenze evitabili

È ovvio che nessuno dovrebbe soffrire quando, con un po’ di buona volontà, è possibile essere curati in modo adeguato. Oggi esistono i mezzi tecnici per alleviare il dolore. È anche possibile, senza alcuna spesa aggiuntiva per il Servizio sanitario nazionale, intervenire con umanità nei confronti del malato e dei suoi congiunti, approccio particolarmente valido nei rarissimi casi in cui non vi siano rimedi risolutivi contro il dolore.

Anche alla mancanza di preparazione professionale si può ovviare in tempi brevi e con costi limitati.

Spesso la sofferenza, purtroppo, è la diretta conseguenza del disinteresse delle istituzioni; in particolare è uno degli effetti derivanti dal rifiuto di considerare curabili anche le persone inguaribili.

Il dolore più intenso e meno accettato dal malato e dai suoi congiunti è quello derivante dall’indifferenza degli operatori o, peggio ancora, dal loro rifiuto di fornire le cure necessarie.

La dignità di ciascuno di noi è offesa anche quando per incuria degli altri il proprio corpo muore a poco a poco: le piaghe da decubito sono quasi sempre la prova inconfutabile di una violenza che si esprime silenziosamente e che, di conseguenza, è molto difficile da combattere. Quasi sempre non uccide nemmeno con rapidità, ma sadicamente colpisce chi non è in grado di difendersi.

Come non credo sia lecito dover sopportare dolori che potrebbero essere eliminati o ridotti, così ritengo assolutamente insopportabile dover subire gli insulti del personale (7) o l’assurda accusa dei primari secondo cui, se io fossi ricoverato in ospedale perché anziano malato cronico non autosufficiente, ruberei un posto letto a un giovane.

È incredibile, ma purtroppo vero, che a certi amministratori e a taluni medici non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che i posti letto devono essere programmati tenendo conto delle esigenze di tutti i malati (8) e non disconoscendo che gli anziani sofferenti a causa di malattie invalidanti sono colpiti da fatti acuti in una misura di gran lunga superiore, sia in quantità che in intensità, rispetto alle altre persone.

 

La vera natura dell’eutanasia d’abbandono

Nella mia lettera “Difendetemi se divento cronico non autosufficiente”, a proposito dell’eutanasia da abbandono, ho scritto che «non viene praticata per aiutare chi sta molto male ricercando la soluzione migliore o quella che comporta minori conseguenze negative. Non si parte dal soggetto sofferente. Lo si considera invece un peso ingombrante, una cosa che occupa un posto letto che dovrebbe essere messo a disposizione di un malato “vero” e cioè quello che ha malattie interessanti per i medici (ad esempio, i trapianti) e la cui cura comporta per l’ospedale entrate economicamente superiori alle spese».

Affermavo, inoltre: «I malati e congiunti vengono lasciati soli proprio nel momento in cui è necessario il massimo impegno».

 

Le reazioni di alcuni esponenti cattolici

La mia denuncia della situazione esistente, che è una fotografia non truccata, ha scatenato le reazioni, secondo il mio parere assolutamente ingiustificate, di alcuni personaggi della Chiesa cattolica: Domenico Carena, uno dei più influenti dirigenti del Cottolengo e dell’UNEBA, Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale (9), Don Sergio Baravalle - Direttore della Caritas diocesana di Torino, Don Claudio Campa - Parroco e Umberto Stralla dell’Associazione medici cattolici (10).

Nessuno di loro ha confutato le mie affermazioni, nonostante che, nella presentazione della mia lettera, il Direttore de “La Voce del Popolo” avesse scritto che essa conteneva «parole pesanti come macigni, accuse esplicite al Servizio sanitario nazionale reo di violare le leggi vigenti, di non rispettare i diritti di coloro che hanno la “disgrazia” di essere anziani cronici non autosufficienti» (11).

Domenico Carena si è limitato a scrivere che «l’eutanasia d’abbandono di un non autosufficiente, quando fosse collegabile a disservizi socio-sanitari, sarebbe la peggiore delle accuse che possano colpire un Paese ad elevato benessere sociale» come se si trattasse di una ipotesi irrealistica. Ha aggiunto che «la sanitarizzazione dei servizi alla persona è la peggiore delle scelte politiche perpetrate ai danni dei cittadini più svantaggiati, non autosufficienti di qualsiasi età», senza spiegare per quali motivi non sostiene l’inidoneità degli interventi sanitari praticati negli ospedali e nelle case di cura ai benestanti affetti dalle stesse patologie (neoplasie, demenza, ictus, ecc.).

I mass media infatti ci informano che le persone che contano (anziani, adulti e giovani), quando sono colpiti da gravi malattie non curabili a domicilio, vengono sempre ricoverate in strutture sanitarie e mai presso istituti di assistenza.

Stupefacente è poi l’affermazione di Fratel Carena, secondo cui «l’invenzione delle RSA (residenze sanitarie assistenziali) e delle RAF (residenze assistenziali flessibili) ha risolto il malanno della sanità, liberandola dai lungodegenti». A questo proposito, per quali motivi Fratel Carena finora non si è mai scagliato contro le case di cura private, comprese quelle di proprietà di enti cattolici, che ricoverano lungodegenti e percepiscono rette di 300-500 mila lire al giorno?

Don Sergio Baravalle glissa sulle questioni di fondo (eutanasia da abbandono, illegali trasferimenti dei vecchi malati dalla sanità all’assistenza) scrivendo che «la carenza dei servizi, l’abbandono terapeutico dei malati cronici non autosufficienti, l’indifferenza e l’insensibilità di molti costituiscono però solo un aspetto della riflessione, un primo livello al quale non bisogna fermarsi». E, difatti, non aggiunge nemmeno una parola, salvo dichiarare che «c’è una domanda che chiede risposta, ed è quella di come sopportare e capire la sofferenza “ingiustificata”. Una sofferenza – aggiunge il responsabile della Caritas – che comunque resta, anche se alla fine i colpevoli vengono trovati e finalmente colpiti».

Ma perché non avanza alcuna proposta per eliminare le sofferenze evitabili? Ovviamente, i reati vanno puniti, ma non è prioritaria la prevenzione del dolore e la rimozione delle cause che favoriscono o provocano dolore?

Don Baravalle, inoltre, afferma che la mia definizione dell’eutanasia da abbandono come omicidio sociale, avrebbe lo scopo di «attirare l’attenzione dei mass media ed eventualmente finire in tribunale per dare così ulteriore enfasi a tutta la questione», senza però tener conto che, per realizzare quanto da lui ipotizzato, prima dovrei morire: mi può spiegare come potrei presentarmi davanti a un magistrato dopo essere morto?

Don Claudio Campa riconosce che la mia lettera «è un’accusa forte sull’indifferenza e sul­l’abbandono terapeutico dei malati cronici nella nostra società», ma, come se la situazione at­tuale fosse immodificabile, non avanza alcuna proposta, limitandosi a condannare l’eutanasia attiva.

Anche Umberto Stralla ammette che la mia lettera «contiene indubbiamente una giusta denuncia della situazione attuale», ma aggiunge che «in certi casi è “semplicistica”», mentre «i toni provocatori sono talora eccessivi e fuori luogo». Al riguardo precisa che «se è indubbio il diritto per chiunque ad essere assistito fino all’ultimo senza sentirsi di peso e senza vergognarsene, è altresì vero che proprio per questo stesso diritto gli operatori sanitari, sovente soggetti a minacce ed a vere e proprie violenze, in difficoltà per la mancanza di strutture sufficienti, devono talora prendere delle decisioni che, viste secondo un’ottica limitata, possono essere criticate».

A parte «le minacce e le vere e proprie violenze» che, nei rarissimi casi in cui si verificano, sono deplorevoli episodi causati da singole persone, mai appoggiate da alcuna organizzazione di tutela dell’utenza, è comprensibile che qualora vi sia «la mancanza di strutture sufficienti» gli operatori debbano assumere decisioni che possono anche non essere condivise.

Ma l’aspetto gravissimo – sul quale il dottore Stralla sorvola – è che i danneggiati sono sempre e solo gli anziani cronici non autosufficienti e che finora mai sono state assunte prese di posizione reali (e non solo verbali) da parte degli Ordini dei medici (12), della Chiesa (se si esclude il citato messaggio dell’Arcivescovo di Milano) e da altre organizzazioni laiche o religiose per denunciare la mancanza di adeguate strutture del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionati.

 

Conclusioni

Pur continuando ad avere sull’eutanasia attiva le riserve che ho espresso, ritengo che questo intervento sia un male certamente molto meno grave dell’abbandono terapeutico, il quale a volte è anche praticato nei confronti del malato con espressioni di disprezzo da parte degli amministratori e, in certi casi, è accompagnato dagli insulti degli operatori.

Ribadisco, ancora una volta, che non ho mai fatto né intendo fare una scelta di morte di fronte alle sofferenze che potrebbero essere ridotte o annullate da adeguate prestazioni.

Spero vivamente di non dover cessare di vivere per abbandono terapeutico, come è successo recentemente a due coniugi ricoverati presso l’Opera Pia Lotteri di Torino, lui morto di sete e lei imbottita di psicofarmaci (13).

 

 

 

(1) La lettera è stata pubblicata sul n. 5/1996 di “Difesa sociale”, rivista dell’Istituto italiano di medicina sociale.

(2) Si tratta di un’IPAB, istituzione pubblica di assistenza e beneficenza. Nonostante le sentenze della magistratura, né il consiglio di amministrazione, composto da persone designate da DC, PCI e PSI, né la Regione Veneto hanno provveduto al licenziamento del personale responsabile delle gravi violenze inferte ai vecchi ricoverati. Cfr. “Operatori di una casa di riposo sotto processo: la sentenza di Mestre”, Prospettive assistenziali, n. 64, ottobre-dicembre 1983.

(3) Cfr. “Ancora sentenze di condanna di operatori assistenziali”, Ibidem, n. 67, luglio-settembre 1984.

(4) Cfr. “Sentenza penale nei confronti di due operatori dell’Ospedale Molinette di Torino per le dimissioni selvagge di un anziano”, Ibidem, n. 68 e “Assolti i due operatori dell’Ospedale Molinette di Torino condannati in prima istanza”, Ibidem, n. 85.

(5) Cfr. i volumi di F. Santanera e M.G. Breda, Vecchi da morire (1987) e Per non morire d’abbandono (1990) editi da Rosenberg & Sellier e Anziani malati cronici: i diritti negati  (1994), pubblicato dall’UTET Libreria.

(6) Cfr. il messaggio inviato dall’Arcivescovo di Milano agli organizzatori ed ai partecipanti del convegno “Anziani attivi e anziani malati cronici nell’Europa del 2000: orientamenti culturali ed esperienze a confronto” svoltosi a Milano il 24 e 25 ottobre 1996, in cui, dopo aver affermato che dagli ospedali «sono purtroppo decine di migliaia gli anziani cronici non autosufficienti dimessi, anche in modo selvaggio» si augura che «nel dibattito in corso sul tema dell’eutanasia (attiva o passiva) si faccia il possibile affinché nel frattempo le persone non più in grado di esprimere la loro voce non subiscano nei fatti un’eutanasia da abbandono da parte di chi, in nome della razionalità delle risorse, vorrebbe negare le prestazioni sanitarie cui hanno diritto come tutti i malati, secondo quanto è previsto dalle leggi sanitarie in vigore nel nostro Paese».

(7) Nell’articolo pubblicato su “La Stampa” del 5 ottobre 1996, Ferdinando Camon riferisce che, in base ad una sentenza pronunciata a Reggio Emilia, le infermiere che «hanno ripetutamente insultato un paziente (...) vanno assolte in pieno, perché la paziente si trovava in coma e non era dunque in grado di percepire l’offesa».

(8) L’articolo 29 della legge 132/1968, ancora in vigore, impone alle Regioni di programmare i posti letto degli ospedali tenendo conto delle esigenze dei malati «acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti». Attualmente il fabbisogno di posti letto per i cronici potrebbe e dovrebbe essere calcolato tenendo anche conto delle disponibilità esistenti presso le RSA, residenze sanitarie assistenziali.

(9) Si tratta della più forte organizzazione esistente nel nostro Paese per quanto riguarda le attività di assistenza sociale. Raggruppa e coordina la stragrande maggioranza degli enti privati e delle IPAB.

(10) I loro interventi sono stati riportati su “La Voce del Popolo”, settimanale della Diocesi di Torino, del 14 e 21 settembre, del 5 ottobre e del 30 novembre 1997. La mia risposta è stata integralmente pubblicata dal suddetto giornale il 28 dicembre 1997. Il mensile dell’UNEBA, “Nuove Proposte”, che sul n. 12, dicembre 1997, aveva riprodotto l’intervento di Domenico Carena apparso su “La Voce del Popolo”, finora non ha pubblicato, nonostante ripetuti solleciti, la mia replica.

(11) Cfr. “La Voce del Popolo” del 14 settembre 1997.

(12) L’intesa sottoscritta il 14 maggio 1996 dall’Ordine dei medici di Torino e dal CSA - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti non ha prodotto finora alcun risultato positivo per gli anziani cronici non autosufficienti.

(13) Cfr. “La Repubblica” dell’8 novembre 1997.

 

 

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