Prospettive assistenziali, n. 123, luglio-settembre 1998

 

 

sono un immorale: per i più deboli ho chiesto il rispetto delle leggi vigenti

FRANCESCO SANTANERA

 

Sono pentito. Riconosco di essere stato e di essere una persona immorale. Ho compiuto attentati gravissimi contro i valori fondamentali della famiglia e dello Stato. Sono, inoltre, uno spudorato difensore dei benestanti.

Veniamo ai fatti, e cioè alla confessione dei miei misfatti.

 

1. Una sentenza valida

Nel n. 2/1997 di Politiche sociali, rivista edita dalla Fondazione Zancan con la collaborazione della Caritas italiana, Nicoletta Volpin illustra correttamente la sentenza emessa dal Tribunale di Verona in data 14 marzo 1996, che aveva preso in esame la questione riguardante due coniugi anziani, colpiti da patologie croniche, ricoverati in una casa di riposo.

Le spese relative erano state sostenute dal Comune di Verona che aveva chiesto alla magistratura di condannare un figlio e tre nipoti al pagamento di una parte della retta.

Il Tribunale di Verona aveva respinto l’istanza sostenendo che «l’obbligo alimentare risponde a un dovere solidaristico ancora attuale nell’ambito familiare, ma soggetto al criterio della facoltà dell’avente diritto di valersi o meno del suo diritto nei confronti dei congiunti, diritto che per la sua connotazione personalistica non può essere oggetto di esercizio da parte di terzi» (1).

 

2. Il giudizio negativo di Filippo Lorenzi

Sul n. 3, 1998 di Politiche sociali esce un commento alla suddetta sentenza di Filippo Lorenzi che, fra l’altro, sostiene quanto segue:

a) «il dovere pubblico alla diagnosi e alle cure (in base alla legge n. 833 del 1978) di per sé non esonera né l’utente né i suoi familiari, in relazione alle loro possibilità, dal concorrere alle relative spese, con eventuale integrazione da parte dei Comuni per le persone o famiglie non abbienti. Né dal dettato costituzionale, né dalla successiva normativa si evince che i relativi oneri siano interamente a carico della finanza pubblica, che ha l’obbligo di “fare”, non quello di “sostenere interamente gli oneri”»;

b) «mi sembra opportuno che l’utente (nel caso, l’anziano non autosufficiente) venga distinto in relazione al tipo e alla durata del trattamento, deputando gli interventi acuti alla sanità e quelli cronici all’assistenza: distinzione che, di massima, appare funzionale (fatto salva l’integrazione tra assistenza sanitaria e sociale)»;

c) «ritengo frutto di un equivoco affermare che il servizio sanitario tenda a “scaricare i costi relativi alla cura dell’anziano sulla famiglia o sul sistema assistenziale”. Il principio di sussidiarietà impone di partire proprio dagli utenti e dai familiari, se essi ne hanno la possibilità. Per gli indigenti provvede il Comune. Non si comprende perché la collettività dovrebbe assumere il relativo onere anche per le persone o le famiglie abbienti, o escludere l’apporto (pur parziale) dell’utente e dei suoi familiari, salvo l’apporto dei Comuni. Questo è “attribuire”, non “scaricare”»;

d) «le Regioni hanno il compito di programmare gli interventi (per acuti, convalescenti, cronici, lungodegenti); ciò non significa affatto che esse debbano provvedervi in proprio, né tanto meno che il relativo onere in ogni caso debba ricadere sulla sanità».

 

3. La mia temeraria replica

Di fronte alle affermazioni del Lorenzi (2) mi sono permesso (fatto gravissimo e imperdonabile) di esporre (3) il pensiero del CSA e mio sulla questione dei contributi richiesti ai parenti degli assistiti maggiorenni osservando che «la legislazione vigente distingue tra sfera pubblica e sfera privata e attribuisce esclusivamente ai componenti di ciascuna famiglia la facoltà (non l’obbligo!) di richiedere gli alimenti agli appartenenti al suo stesso nucleo». Al riguardo, mi sono spinto a precisare che il primo comma dell’art. 438 del codice civile così si esprime: «Gli alimenti possono essere richiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento».

Da quanto sopra descritto ho anche dedotto in modo sconsiderato che «spetta alla persona interessata decidere se chiedere o meno gli alimenti, valutando se l’iniziativa può comportare conseguenze negative», e stoltamente ho aggiunto che «ad esempio, compete al nonno scegliere se richiedere al proprio figlio gli alimenti o non farlo per il timore di essere poi impedito a visitare la nipotina».

A causa dei disastri che ho provocato nella mia purtroppo lunga attività di volontariato a tempo pieno (36 anni), quando ho affrontato la questione dei nuclei familiari (e non solo – ahimè – delle famiglie costituite sul matrimonio), ho sempre fatto riferimento, fra l’altro, a quell’asino (la mia cultura mi consente a stento di andare oltre a questo animale) che, troppo oberato dalle cose caricate sul suo groppone, invece di andare avanti, era stramazzato al suolo e non si era più mosso.

Ahi! Ahi! Ho anche creduto di operare a favore dei diritti dei più deboli e, sciaguratamente, non ho mai pensato ai vantaggi enormi del volontariato della sofferenza.

Dunque, bisogna attribuire nuovi carichi ai nuclei familiari in omaggio ai “valori perenni” da me mai conosciuti e occorre pretendere che i suoi componenti non solo paghino in base al criterio della progressività (art. 53 della Costituzione) le tasse, comprese quelle riguardanti la tutela della salute, ma anche che «se ne hanno la possibilità», come scrive il Lorenzi, sopportino tutte le spese relative alle prestazioni sanitarie fornite ai componenti del nucleo stesso.

Devo ammettere la mia pigrizia mentale! Non avevo mai pensato che si potessero raddoppiare i versamenti allo Stato da parte delle stesse persone per le medesime prestazioni. Anzi, adesso che rifletto, il pagamento potrebbe essere anche triplicato, tenuto conto dei contributi assicurativi versati dagli stessi soggetti come lavoratori dipendenti.

Fatte le debite ammende per essermi lasciato trascinare ancora una volta nelle mie sconsiderate divagazioni sulla giustizia umana e sociale, devo anche confessare che nella mia spericolata replica all’articolo di Filippo Lorenzi ho fatto il possibile per menare zizzania fra il livello centrale e periferico delle istituzioni e, in piena crisi di raziocinio, ho scelto quello più lontano dai cittadini per osservare provocatoriamente che «le provvidenze sono erogate dallo Stato alle persone singole e ai coniugi in difficoltà (assegno e pensione sociale, integrazione al minimo delle pensioni Inps, pensioni per gli invalidi civili, i ciechi ed i sordomuti) senza tenere in alcuna considerazione la situazione economica dei parenti tenuti agli alimenti».

Nonostante che il mio riferimento sia provocatorio (il Ministro Bassanini mai mi perdonerà di aver criticato gli organi decentrati della Repubblica italiana), Filippo Lorenzi non mi rivolge nessuna accusa al che mi viene il sospetto – arma mai trascurata dagli immorali – che il mio fustigatore sia un potente funzionario, forse promotore di delibere dirette a costringere le famiglie degli anziani malati cronici non autosufficienti a sottoscrivere il pagamento di contributi economici (magari molto salati) per il ricovero dei loro congiunti nelle (illegali) strutture dell’assistenza/beneficenza.

Pertanto, nella mia risposta al Lorenzi, dopo aver scelto una strada in folle discesa, non mi fermo più ed ho anche l’ardire di scrivere che «purtroppo sono ancora numerosi gli enti pubblici (Regioni, Comuni, Province, Usl, Comunità montane, ecc.) che pretendono contributi economici dai parenti di assistiti maggiorenni».

Preso dal vortice della stoltezza, ho rilevato, altresì, che nel richiedere i contributi dai parenti degli assistiti maggiorenni «l’ente pubblico non solo si arroga un diritto che non ha, ma pretende anche di determinare l’importo che dovrebbe essere versato dai congiunti, arrivando addirittura a sostituirsi al giudice». Al riguardo, ho la dabbenaggine di ricordare che «il 3° comma dell’art. 441 del codice civile stabilisce quanto segue: “Se gli obbligati non sono concordi sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli alimenti, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze”».

Ancora insoddisfatto ho aggiunto che «nel dare attuazione alle illegittime richieste degli enti pubblici di cui sopra (fatto che comporta per i cittadini ignari dei loro diritti l’esborso anche di parecchi milioni per il periodo di ricovero del loro congiunto), gli operatori richiedono informazioni sui congiunti degli assistiti, violando in tal modo le disposizioni della legge 31 dicembre 1996 n. 675, che vieta la richiesta, la conservazione e l’uso dei dati personali non indispensabili allo svolgimento delle attività della pubblica amministrazione, prevedendo anche sanzioni penali».

Ho quindi la sfacciataggine di citare le note del direttore generale del Ministero dell’interno del 27 dicembre 1993, prot. 12287/70 e del capo dell’Ufficio legislativo del dipartimento degli affari sociali alla presidenza del Consiglio dei Ministri del 15 aprile 1994, prot. Das (Dipartimento affari sociali) 4390/1/H/795, del 28 ottobre 1995, prot. Das/13811/1/H/795 e del 29 luglio 1997, prot. Das/247/UL/1/H/795, il parere fornito in data 18 settembre 1996, prot. 2667/1.3.16 dal direttore del servizio degli affari giuridici della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, la risposta fornita dall’asses­sore all’assistenza della Regione Piemonte in data 7 marzo 1996 ad una interrogazione, i provvedimenti assunti dal Coreco di Torino in data 13 dicembre 1995 n. 36002, 1 agosto 1996, n. 11004/96 bis e 31 luglio 1997 n. 9152/97 bis, nonché la già ricordata sentenza del Tribunale di Verona del 16 marzo 1996.

Ho concluso le mie elucubrazioni asserendo quanto segue: «Mentre è certamente illegale la richiesta di contributi ai parenti di assistiti maggiorenni da parte degli enti pubblici, non si comprende per quali motivi gli stessi enti pubblici non tengano conto non soltanto dei redditi, ma anche (anzi soprattutto) dei patrimoni immobiliari e mobiliari, posseduti dalle persone che richiedono assistenza o altri interventi (ad esempio la frequenza di asili nido e scuole materne, la partecipazione ai soggiorni per minori e per anziani). Rilevanti sono le somme versate dallo Stato senza tenere minimamente conto dei beni di proprietà dei beneficiari. I dati relativi al 1995 sono:

– lire 29 mila 163 miliardi per l’integrazione al minimo delle pensioni Inps;

– lire 3.482 miliardi per le pensioni e gli assegni sociali;

– lire 6.774 miliardi per le pensioni agli invalidi civili, escluse le indennità di accompagnamento;

– lire 1.724 miliardi per le pensioni ai ciechi e ai sordomuti» (4).

 

4. Le bacchettate di Filippo Lorenzi

Solo su un altro aspetto delle mie elucubrazioni, Filippo Lorenzi concorda: «Le prestazioni sociali devono essere commisurate non solo al reddito, ma anche al patrimonio».

Ma poi il mio Cerbero mi mena colpi terribili: mentre io miserello mi preoccupo di tutelare i «diritti degli assistiti (per meglio dire – precisa il Lorenzi – un “diritto” dei familiari benestanti di porre a carico dell’assistenza pubblica il mantenimento dei parenti anziani»), mi mette KO asserendo che i suoi argomenti, a differenza dei miei, sono fondati «sui valori perenni».

Povero me. Mi ha smascherato. Sono rovinato. Il mio fustigatore è una roccia quando osserva che non vede alcuna utilità in quel che ho scritto poiché «l’opinione degli italiani è tanto immersa nella rivendicazione dei “diritti” (o presunti tali), e nella tutela dei garantiti, quanto insofferente dei “doveri” ed ancor più dell’obbligo morale di contrastare l’emarginazione e di mettersi dalla parte degli emarginati».

E poi giù un’altra randellata: «Volpin e Santanera rispecchiano un atteggiamento diffuso: non entrare nel merito degli imperativi morali, e di farlo su questa rivista, che dovrebbe sostenerli, a vantaggio dei più deboli».

Ma non basta! Mi preoccupo anche di «salvaguardare il quieto vivere dei benestanti».

Stramazzo per terra! Incomincio a pentirmi. È vero. Dal 1962, a tempo pieno mi sono occupato dei bambini benestanti ricoverati in istituto e ben 85 mila dal 1967 ad oggi sono andati ad accrescere la ricchezza delle famiglie adottive con gravissimi danni sociali ed economici per il nostro Paese. Mi sono anche dato da fare perché agli handicappati intellettivi (una categoria notoriamente facoltosa) venissero forniti i servizi necessari alla crescita del loro patrimonio materiale e morale. E poi – confesso anche questo – ho fatto tutto il possibile perché venissero sottratte alla bramosia dei parenti la diagnosi e la cura degli inguaribili e affinché gli oneri relativi venissero attribuiti al Servizio sanitario nazionale. Ecco quindi confermato anche il mio attentato alla sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini.

Ammetto, altresì, sperando soprattutto in un adeguato sconto della pena che mi verrà giustamente inflitta, di essere un complice (pentito) del gruppo di infami che hanno imparato dai libri giuridici che «il diritto è un interesse tutelato dalla legge».

Difendere i diritti dei più deboli è da sempre il mio comodo alibi (adesso smascherato) per consentire ai benestanti di accumulare ricchezze.

Fra le migliaia di casi, penso all’agiato rampollo di Genova, dipendente dell’AMT, figlio unico della signora A.R., che ha avuto la spudoratezza di lamentarsi perché per curare sua madre gravemente malata, e quindi avente diritto (prima del mio pentimento) a tutte le prestazioni gratuite, ha solamente sostenuto «spese per ricoveri per un totale di Lire 91.710.000, richiesto prestiti per 41 milioni che diventano 56 milioni con gli interessi» e che, per una vendita prevista per pagare le rette e non realizzata, ci ha rimesso altri 24 milioni (5).

Mi vengono alla mente altre migliaia di parenti che, per non danneggiare lo Stato (che ha introitato i contributi assicurativi dei loro congiunti!) hanno versato e versano anche 2-3 milioni al mese ai Comuni che non possono pretenderli in base alle leggi vigenti, ma che lo fanno per l’affermazione dei “valori perenni” enunciati da Filippo Lorenzi.

Rifletto anche su una famiglia di un Comune lombardo: lui un ricco operaio con uno stipendio di due milioni al mese, lei una parassita sempre malata, un figlio cerebropatico grave.

I genitori vogliono mandare in malora il Comune pretendendo la frequenza gratuita del loro figlio presso un centro diurno in alternativa al ricovero in istituto.

Il Comune, ispirandosi anche in questo caso ai “valori perenni” vuole che essi versino la somma di 380 mila lire al mese e li chiama in giudizio, instaurando in tal modo una iniziativa provvidenziale, poiché sono migliaia le famiglie di handicappati non autosufficienti che succhiano la linfa vitale degli Enti locali e delle USL, e si arricchiscono sotto tutti i profili continuando ad accogliere i loro congiunti anche di 40-50 anni.

Più penso a quello che ho fatto per l’accumulazione del denaro da parte di questi vampiri, più mi vergogno di me stesso: sono proprio un immorale.

* * *

Caro Lorenzi, aiutami a ritornare al più presto sulla retta via!

Chiedo anche un forte sostegno a Gino Faustini, che nello stesso numero di Politiche sociali, confonde l’abbandono degli anziani da parte dei familiari (fatto che è un grave reato, giustamente punito dalle leggi vigenti) con il rifiuto quotidiano da parte del Servizio sanitario nazionale di intervenire nei confronti dei vecchi malati inguaribili nelle stesse forme in cui provvede ai giovani ed agli adulti aventi le medesime patologie. Infatti, se non sono rincitrullito completamente, i parenti non hanno alcun obbligo di provvedere alla diagnosi, cura e riabilitazione dei loro congiunti malati.

Chiedo, quindi, a Faustini: «Il comportamento degli addetti ai servizi sanitari, quando scaricano un anziano malato, non è un reato gravissimo ed anche una violazione dei diritti fondamentali della persona?».

È troppo disonesto chiedere che i responsabili vengano perseguiti e, soprattutto, che la sanità curi anche le persone inguaribili?

 

 

(1) La sentenza è stata pubblicata su Famiglia e diritto con un commento estremamente favorevole di Anna Ansaldo; inoltre è stata riportata nel n. 2/1997 di Il diritto di famiglia e delle persone.

(2) Mi ero proposto di predisporre un secondo articolo in merito alle fantasiose asserzioni di Filippo Lorenzi concernenti:

– la sua proposta di attribuire «gli interventi acuti alla sanità e quelli cronici all’assistenza» con la conseguenza, fra l’altro, per i malati nello stesso tempo acuti e cronici di avere due diversi organi istituzionali a cui riferirsi;

– l’interpretazione data al principio di sussidiarietà in materia di cure sanitarie ai malati acuti, convalescenti, cronici e lungodegenti secondo cui le famiglie dei malati dovrebbero assumere le stesse funzioni svolte dal Servizio sanitario nazionale;

– l’obbligo del Servizio sanitario nazionale di predisporre gli interventi diagnostici, curativi e riabilitativi, ma non quello di sostenere i relativi oneri.

Fra l’altro, nessuna delle suddette prese di posizione del Lorenzi è suffragata da principi costituzionali o da norme di legge.

Tuttavia, viste le sue reazioni, mi sono pentito anche per il pericolo di ricevere dal Lorenzi altre randellate; ho quindi scelto di obbedirgli tacendo e rinunciando all’articolo.

(3) La mia replica è stata integralmente riportata sul n. 3/1998 di Politiche sociali.

(4) Al riguardo, presentavo il seguente esempio, a mio avviso estremamente significativo: «Un ex lavoratore ha acquisito nel 1995 il diritto alla pensione di vecchiaia di lire 250.000 mensili, avendo svolto per un lungo periodo un’attività imprenditoriale in proprio. È proprietario dell’alloggio in cui abita, il cui valore è stimato in 300 milioni. Poiché i redditi suoi e della moglie (esclusi quelli dell’abitazione) ammontano a lire 33 milioni annui, lo Stato lo considera una persona da assistere e ha versato nel 1997 l’intero importo della pensione minima. Il sussidio è stato dunque di lire 435.400 (685.400 – 250.000) per 13 mesi e cioè lire 5.660.200. Da notare che il suddetto contributo annuo statale di lire 5.660.200 è maggiore dell’assegno di invalidità corrisposto a coloro che sono totalmente privi di reddito e pertanto costretti a vivere con lire 390.600 al mese!».

(5) Cfr. “La drammatica esperienza del figlio di una anziana malata cronica non autosufficiente”, Prospettive assistenziali, n. 119, luglio-settembre 1997.

 

 

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