Prospettive assistenziali, n. 123, luglio-settembre 1998

 

 

 

richieste in merito agli ultradiciottenni in affidamento familiare

 

In seguito a varie iniziative assunte dall’ANFAA (1), il Comune di Torino ha approvato in data 6 marzo 1990 una delibera in cui, preso atto che in alcuni casi «l’autonomia non coincide con il raggiungimento della maggiore età» e che «la sospensione dell’intervento rischierebbe di non portare a totale compimento il progetto formulato dai servizi sul giovane» viene approvata «la possibilità di prosecuzione, in via eccezionale, degli interventi assistenziali in favore di giovani oltre il diciottesimo anno di età fino al raggiungimento dell’autonomia, comunque non oltre il ventunesimo anno».

L’esperienza ha, però, dimostrato che il limite dei ventun anni deve essere ulteriormente elevato. Al riguardo, pubblichiamo la lettera aperta inviata in data 31 marzo 1998 da un gruppo di famiglie affidatarie al Sindaco, alla Giunta e al Consiglio comunale di Torino, insieme ad alcune testimonianze delle stesse famiglie.

 

1. Lettera aperta del 31 marzo 1998

Siamo un gruppo di famiglie che hanno avuto o hanno in affidamento ragazzi che stanno per compiere o hanno già compiuto i diciotto anni. Alcune nostre storie sono descritte nelle pagine seguenti.

Nei mesi scorsi ci siamo incontrati per confrontare le esperienze, approfondire le problematiche emerse: dalla riflessione comune sono scaturite le richieste che sottoponiamo alla vostra attenzione e che riteniamo possano riguardare anche i minori che diventano maggiorenni in comunità o in istituto.

Richieste al Comune di Torino

1) Il Servizio sociale competente deve verificare, al compimento dei 17 anni del minore affidato, la sua situazione personale e famigliare allo scopo di delineare – sentiti lo stesso, gli affidatari, i parenti con cui ha avuto rapporti – un progetto specifico per la prosecuzione, se necessario, dell’affidamento dopo i 18 anni, secondo le modalità previste dalla delibera del Comune di Torino sugli ultra diciottenni. Al riguardo rileviamo che non tutti gli assistenti sociali conoscono questa delibera e, quando la conoscono, ne danno un’interpretazione sovente restrittiva, da utilizzare solo per casi ritenuti “eccezionali”. Sono invece eccezionali i casi di minori affidati che rientrano al compimento dei 18 anni nella loro famiglia o che sono già in grado di provvedere autonomamente al loro mantenimento.

2) Agli ultra diciottenni che restano nella famiglia affidataria, o per i quali sono individuate altre soluzioni, deve essere assicurata la possibilità di completamento, anche oltre il ventunesimo anno di età, del percorso scolastico (istituti professionali, scuole medie superiori, università) e il pagamento delle relative spese (tasse di iscrizione, libri, ecc.). Dovrebbe essere consentita anche la frequenza (e il relativo rimborso) di corsi e scuole private, preventivamente concertata con il Servizio sociale, quando rispondono a particolari esigenze.

3) Vanno previsti percorsi preferenziali per il loro accesso al lavoro, stabilendo precisi accordi al riguardo con l’Assessorato al lavoro.

4) Ai giovani con la certificazione di invalidità civile va garantita la frequenza ai corsi di formazione professionale e prelavorativa, in base alle loro possibilità, e l’accesso al collocamento obbligatorio (vedi al riguardo le richieste del CSA - Coor­dinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base relative in particolare agli handicappati intellettivi) e alle iniziative predisposte dal SIL - Servizio inserimento lavorativo dell’Assessorato al lavoro.

5) Per alcuni ragazzi può essere ancora necessario uno specifico sostegno psicologico: avendo compiuto i diciotto anni non vengono però più presi in carico dal Servizio di neuropsichiatria infantile e difficilmente subentra il Servizio di psichiatria adulti. Se non è possibile un sostegno psicologico per i ragazzi che ne hanno necessità da parte di operatori del servizio pubblico, dovrebbero essere preventivamente autorizzate e rimborsate dal Comune terapie presso centri o singoli professionisti privati.

6) Si possono anche verificare situazioni in cui, per motivi diversi, non è possibile o consigliabile la permanenza del ragazzo ultradiciottenne nella famiglia affidataria. In questi casi non è comunque pensabile “scaricarli” in pensioni o dormitori pubblici, senza provvedere al loro sostegno anche dal punto di vista economico (minimo vitale). Proponiamo per questi giovani – oltre agli interventi precedentemente prospettati – in base alle loro condizioni generali:

- la sperimentazione di “convivenze guidate”;

- la messa a disposizione di alloggi del patrimonio comunale (vedi assegnazione della Commissione emergenza abitativa);

- il sostegno economico nel caso di ricerca autonoma dell’alloggio (cauzione, arredo, ecc.).

Anche se hanno un lavoro (sovente precario, saltuario, in “nero”), questo non consente loro di far fronte da soli alle spese che una vita autonoma comporta (vitto, alloggio, ...).

Riteniamo che queste richieste dovrebbero essere recepite integrando la delibera sugli ultra diciottenni.

* * *

Cogliamo questa occasione, infine, per sottolineare, anche sulla base delle nostre esperienze, la fattibilità degli affidamenti a lungo termine (fino a oltre la maggiore età dell’affidato) a condizione però che venga esplicitata ai possibili affidatari, quando viene proposto loro l’affidamento, anche la sua prevedibile e realistica durata: gli operatori e i giudici non possono dare per scontata una disponibilità “incondizionata” all’accoglienza: i livelli di impegno e di coinvolgimento variano in relazione ad essa.

Presupposto fondamentale per la realizzazione di questi affidamenti è l’esistenza di un legame affettivo significativo, positivo tra il bambino o il ragazzo affidato e la sua famiglia d’origine (o, almeno, qualche componente di essa), legame che, attraverso l’affidamento, deve essere preservato e, se possibile, rafforzato.

Anche dal confronto con altri affidatari dei gruppi di sostegno del Comune sono emerse situazioni di minori per i quali sarebbe stato necessario procedere alla dichiarazione dello stato di adottabilità in quanto privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e/o parenti. Questi affidi, difficilmente gestibili, sono adozioni “mancate” e rappresentano una grave violazione dei diritti dei minori. L’affidamento e l’adozione – ci preme sottolinearlo – non sono interventi intercambiabili, hanno finalità diverse.

Possono comunque anche verificarsi situazioni di minori che, durante l’affidamento, vengono dichiarati adottabili. Per loro deve essere assicurata, per quanto possibile, la permanenza nella famiglia in cui sono vissuti per anni, puntando sull’adozione legittimante per sancire l’appartenenza vera e definitiva del minore nella famiglia adottiva. L’adozione «nei casi particolari» (ex art. 44 lettera c) non stabilisce un rapporto di filiazione, si limita a regolamentare quelli ereditari.

Sul piano propositivo vogliamo ancora segnalare che condividiamo le considerazioni e le proposte operative contenute nella relazione del Coordinamento “Dalla parte dei bambini” (2) sulle condizioni indispensabili per realizzare tempestivamente e correttamente gli affidi (necessità di una valutazione tempestiva delle situazioni familiari difficili per definire un progetto di intervento tempestivo e realistico: un adeguato sostegno delle famiglie d’origine, del minore affidato e degli affidatari, ecc.).

Su un punto pensiamo di dover insistere in particolare: la necessità – nell’interesse dei bambini e delle loro stesse famiglie – di intervenire presto e bene, superando la forte tentazione presente ancora in diversi operatori di “tamponare” le situazioni ricorrendo a gamme diverse di interventi (educativa territoriale, centri diurni, comunità, ecc.) prima di progettare l’affidamento che, contrariamente a quanto la legge n. 184/1983 prevede, viene realizzato sovente come ultimo tentativo.

Oltre ai costi economici – che comunque ci riguardano come cittadini – vogliamo sottolineare i costi umani e sociali dei ritardi e/o delle inadempienze delle Istituzioni (amministratori, giudici, operatori, ecc.), costi che sono tutti pagati, in prima persona, dagli assistiti.

Si corre così il rischio di perpetuare, di generazione in generazione, la permanenza nel settore assistenziale di questi utenti in una condizione di emarginazione e di dipendenza estremamente negative, privandoli di un diritto di “cittadinanza” attiva e partecipe nella nostra società.

Per molti delle ragazze e dei ragazzi da noi accolti l’affidamento ha consentito invece di raggiungere l’obiettivo estremamente importante di una vita autonoma e dignitosa.

 

2. Testimonianza dei coniugi G.M. e R.S.

Siamo un insegnante e un impiegato tecnico, abbiamo una figlia e due ragazzi in affidamento familiare che ormai sono adulti, uno ha 23 anni e l’altra 20. Questa è la nostra seconda esperienza di affidamento, durante la prima abbiamo accolto per sei mesi due fratellini di 5 e 6 anni che al termine dell’affidamento sono tornati a vivere con la propria madre. La seconda esperienza di affido, attuale, è iniziata con il ricovero ospedaliero della madre a causa dell’incapacità del padre a gestire i figli in assenza della moglie. Dopo una rapida conoscenza avvenuta con due incontri, i bambini sono venuti a vivere da noi: avevano 7 e 4 anni. Avevano un fratello di 11 anni che il servizio sociale ha deciso, inspiegabilmente di lasciare a casa con il genitore. Con la morte della mamma i ragazzi non sono più rientrati nella loro famiglia.

Da subito il padre ha assunto un atteggiamento di delega a noi e ai servizi sociali, anche grazie al fatto che si era instaurato un rapporto di fiducia; quindi abbiamo costantemente “lavorato” per costruire e mantenere un rapporto tra i ragazzi e la loro famiglia d’origine. Siamo convinti che questo sia servito ai ragazzi e abbia loro permesso di superare il lungo periodo di malattia e la successiva morte del padre avvenuta nel 1996.

Il rapporto con noi e la nostra figlia, nata dopo il loro arrivo, è molto forte; i momenti di difficoltà sono stati diversi. Abbiamo dovuto affrontare la loro ambivalenza e le bugie raccontate non solo a noi ma soprattutto a loro stessi, quasi un bisogno di modificare la realtà per sopravvivere.

Il maggiore a 19 anni ha deciso di ritornare con il papà; questo periodo di grande sofferenza per tutti si è concluso con il suo ritorno nella nostra famiglia anche grazie alle pressioni del padre che si rendeva ben conto che i motivi che avevano generato l’affidamento, molti anni prima, non erano superati. Il ragazzo ha conseguito la maturità scientifica, ha successivamente svolto il servizio militare e attualmente lavora come impiegato. Ora sta cercando un appartamento in affitto per andare a vivere da solo, ma la difficoltà a trovare delle case con un canone d’affitto contenuto gli impedisce di realizzare questo suo sogno d’indipendenza. Dopo il raggiungimento della maggiore età è stato richiesto il prolungamento dell’affidamento per consentirgli di finire le scuole superiori.

La ragazza, diplomata in tecnica dei servizi alberghieri, è attualmente in cerca di lavoro, ed è tuttora in affidamento familiare.

 

3. L’esperienza dei signori C.A. e C.

Siamo un dirigente ed una logopedista, abbiamo tre figli di 14, 11 e 9 anni.

Abbiamo in affidamento un ragazzo di 17 anni che è con noi da circa tre anni e mezzo. Ha una storia travagliata, la madre è deceduta quando lui aveva 7 anni e mezzo e aveva chiesto che non venissero affidati al padre. Il padre è deceduto l’estate scorsa. I primi momenti sono stati buoni: era lui che aveva chiesto insistentemente una famiglia. I servizi sono stati molto presenti e collaborativi. Ha rapporti con alcuni zii regolamentati dal servizio sociale e con il fratello da poco maggiorenne.

L’inserimento è stato difficile poiché è venuto da noi già adolescente, a momenti vuole andarsene poi rimanda. È stato necessario essere come un elastico, avere capacità di tollerare cose che non accetteresti dai tuoi figli. Ha bisogno di ricostruirsi in una realtà, ci sono progressi ed evoluzioni, blocchi e ritorni indietro, fasi di miglioramento alternate a periodi di crollo.

Abbiamo dovuto fare i conti con modalità relazionali, comunicative e comportamentali diverse dalle nostre. All’inizio era un rapporto più basato su aspetti educativi, sulla definizione di regole, sul rendimento scolastico; con il passare del tempo e grazie all’aiuto dei servizi abbiamo cambiato atteggiamento e abbiamo posto più attenzione agli aspetti relazionali mettendo in secondo piano quelli educativi.

È stato produttivo: lui è cresciuto e migliorato anche quando si è reso conto che stare con noi non significava tradire la sua famiglia.

Ha recuperato sul piano scolastico e si sente maggiormente realizzato da quando ha preso un titolo di studio che ora sta perfezionando. Durante le vacanze e qualche week-end ultimamente lavora e questo gli consente di sentirsi più “grande” e autonomo.

Per quanto riguarda la nostra famiglia ci sono stati cambiamenti, nelle fasi di maggior problematicità ci siamo anche detti «se non ce la facciamo più può anche andare via», questa consapevolezza dell’estrema via d’uscita ha tranquillizzato e rilassato noi e i nostri figli. Abbiamo anche temuto per loro, eravamo preoccupati che il ragazzo potesse rappresentare un modello da imitare.

L’affidamento è per noi una sfida continua.

 

4. Un affido terminato per la mancanza di prospettive di sostegno

 

La nostra esperienza di affido inizia nel 1985 quando il Tribunale per i minorenni ci ha affidato S. di 7 anni e mezzo. S. era in un istituto già da due anni insieme con i suoi fratelli un po’ più grandi di lei, da quando, cioè, la sua situazione familiare già precaria è precipitata a causa di un lungo ricovero per problemi psichiatrici della mamma.

Anche il padre aveva problemi psichiatrici con episodi carcerari ricorrenti per cui la sua presenza in casa era molto discontinua. La sorella maggiore di S. faceva quello poteva per i genitori e per i fratelli nonostante le sue difficoltà.

Il decreto stabiliva la durata dell’affido in 3 anni e mezzo alla fine del ciclo elementare.

In questo periodo S. vedeva i genitori e i fratelli, nel frattempo accolti in una comunità alloggio, all’inizio una volta alla settimana, poi più di rado e questi incontri le provocavano notevole ansia e insicurezza per i messaggi contraddittori che le giungevano anche a causa della malattia dei genitori. Nel frattempo la sorella si è sposata e noi abbiamo avuto in adozione un bambino, V., di 4 anni e mezzo.

Dopo tre mesi dalla scadenza dell’affido e dopo un periodo di grave incertezza per l’indecisione dei servizi sociali nell’affrontare la richiesta della sorella di avere S. con sé, hanno prorogato di 3 anni l’affido.

In questo tempo S. ha sporadicamente fruito, come già nelle elementari, dell’aiuto di una psicologa della USL senza però trarne molto giovamento.

Noi abbiamo accolto a casa nostra la mamma di C. con seri problemi di salute. Alla fine della 3ª media il Tribunale ha decretato il proseguimento dell’affido fino alla maggiore età.

Dopo aver conseguito la qualifica di giardiniere alla scuola Ratti di Chieri e aver partecipato a corsi di qualificazione, S. ha avuto diverse esperienze lavorative tra cui una borsa-lavoro del Comune, esperienze che però si sono sempre concluse dopo breve termine per la sua difficoltà a mantenere le regole.

In questi anni S. ha partecipato a gruppi scout e parrocchiali ma, nonostante la sua grande comunicatività e la sua sensibilità, è emersa anche una incapacità di mantenere i rapporti con le persone per la difficoltà di comprendere la realtà, accettarla per quello che è e quindi adeguarsi.

Intanto la situazione dei genitori è peggiorata: i problemi psichiatrici sono aumentati: sono senza fissa dimora perché sfrattati per debiti; uno dei fratelli, che aveva abbandonato la comunità a 14 anni, è seguito dal Comune dopo aver avuto problemi con la giustizia.

A luglio 1995 arriviamo alla maggiore età, con la quale inizia il periodo più difficile del nostro cammino.

Da una parte la difficoltà di impostare la sua vita sul lavoro, sul corretto uso dei soldi (in pochi mesi ha speso molti milioni risparmiati), sul riconoscimento delle regole di convivenza nella nostra famiglia, e dall’altra un aggravarsi di tutti i problemi della nostra famiglia hanno portato progressivamente ad un deterioramento dei nostri rapporti.

Per lungo tempo abbiamo cercato di verificare con i servizi queste nostre difficoltà; abbiamo chiesto a S. di confrontarsi con una psicologa; siamo andati noi stessi da una psicologa per capire la nostra situazione.

Ma questa realtà unita ad una assoluta mancanza di prospettive e di sostegno da parte dell’esterno, ci hanno portato a chiedere a S. di cercare insieme un’altra soluzione di vita sempre con il nostro appoggio. Il distacco è avvenuto a giugno 1997 e i nostri rapporti sono freddissimi. La sua situazione è ora molto precaria perché dopo un soggiorno di 4 mesi in un pensionato per ragazze, di due mesi dalla sorella e di 3 mesi presso la famiglia del suo ragazzo, ora è fuori Torino con un lavoro che le dà vitto e alloggio, ma quanto durerà?

Noi pensiamo che sia necessaria una presa in carico da parte dei servizi per fornire a S. un aiuto a livello abitativo e lavorativo che le consenta di raggiungere una certa autonomia ferma restando la necessità di un accompagnamento psicologico.

Noi siamo molto provati dall’esito di questa esperienza e auspichiamo che per le altre persone come noi in difficoltà, vengano create delle condizioni di sostegno e di riferimento anche quando i ragazzi affidati abbiano superato la maggiore età.

 

5. Non possiamo abbandonare L. al suo destino

L. è stata inserita nella nostra famiglia nel giugno del 1985 dopo un brevissimo periodo di conoscenza reciproca. La bambina, nata il 6 aprile 1977, era stata allontanata dalla famiglia circa un paio di anni prima in quanto i suoi genitori non erano in grado di occuparsi dei loro 4 figli per problemi di alcolismo e instabilità psichica. L’allontanamento fu disposto dal Comune di Torino con consenso della famiglia d’origine che sperava di riuscire a stabilire la sua situazione senza doversi occupare dei bambini.

Tra l’83 e l’85 L. è vissuta in parte presso la Difesa del Fanciullo, in parte presso una prima famiglia affidataria che non appena si è resa conto delle difficoltà presentate da L. ha deciso (dopo 7/8 mesi) di “riportarla indietro”.

Al momento del nostro affido noi non avevano ancora figli biologici che, per scelta, abbiamo voluto in seguito.

Inizialmente L. aveva rapporti con la famiglia d’origine, una volta al mese, poi pian piano gli incontri si sono diradati per esplicita sua richiesta in quanto ogni qualvolta andava a casa rimaneva scossa per alcuni giorni successivi con ripercussioni negative sull’andamento scolastico e sui rapporti con noi.

I genitori biologici hanno sempre avuto con noi un buon rapporto anche se naturalmente all’inizio c’era da parte loro la fantasia che volessimo portare via la bambina per sempre.

Purtroppo man mano che gli incontri di L. con i suoi familiari si diradavano anche la famiglia andava sempre più sgretolandosi: una sorella era stata definitivamente adottata, i due fratelli più grandi entravano e uscivano dagli istituti, il papà se ne era andato di casa e la mamma era spesso in ospedale oppure presso centri per il recupero degli alcolisti.

Dopo la fine delle scuole medie L. decise che non le interessava più vedere i suoi parenti, che da quel momento si sono fatti vivi pochissime volte.

Dal punto di vista fisico la bambina aveva una serie di patologie (strabismo, scoliosi) che riuscimmo, con ottimi risultati, a risolvere. Dal punto di vista mentale oltre a grossi problemi di insicurezza e di inadeguatezza nelle relazioni affettive e sociali dovuti alla situazione pregressa, L. aveva difficoltà di logica, nelle capacità attentive e mnemoniche riconducibili anche alla gravidanza della mamma in quel periodo fortemente dipendente dall’alcol. Per questi motivi L. ha seguito una psicoterapia dal momento in cui è giunta presso di noi fino al termine della scuola media.

I risultati scolastici, nonostante i nostri sforzi e quelli degli insegnanti, sono stati sempre molto scarsi e labili nel tempo (ha ripetuto 2 classi elementari ed ha conseguito la licenza media per limiti di età).

Dopo la media ha frequentato per un anno un corso di formazione professionale per operatore tessile ma è stata respinta e non è stato più possibile riscriverla. L’anno successivo ha seguito un laboratorio professionale di quartiere per acconciatori con risultati molto scarsi. Nonostante ciò i Servizi sociali sono riusciti a farle assegnare una borsa di lavoro che avrebbe dovuto avere la durata di 9 mesi ma che è stata interrotta prima in quanto la ragazza non si è dimostrata all’altezza dei compiti assegnatile.

Da quel momento in avanti la collocazione di L. è sempre stata molto provvisoria e precaria: ha svolto qualche lavoretto saltuario; ha tentato, finora senza risultato, di prendere la patente. Attualmente sta svolgendo uno stage presso un centro commerciale legato ad un corso tenuto dall’ENAIP per addetti alla grande distribuzione.

In tutti questi anni siamo stati seguiti dai Servizi sociali di Mirafiori sud, quartiere di residenza della famiglia d’origine, dalle varie assistenti sociali che si sono alternate fino al giorno in cui, all’incirca al compimento del 18° anno di età, ci è stato comunicato che i servizi avevano fatto tutto ciò che era stato possibile fare e che non avevano più nulla da proporci. Abbiamo tentato di chiedere aiuto anche all’assistente sociale del nostro quartiere (S. Donato) ed ai Servizi centrali nella persona della Sig.ra A., ma purtroppo nessuno è più stato in grado di darci una mano per proporci strade percorribili.

Ultimamente, oltre ai nostri problemi di rapporto con L., sicuramente dovuti ad una sua crisi adolescenziale tardiva, ci siamo sentiti alquanto abbandonati. Innanzitutto il piccolo sussidio economico del Comune è cessato da più di un anno oltre a quelle piccole ma concrete agevolazioni quali esenzione del ticket, contributo alle spese dentistiche ecc. che sono venuti meno al compimento della maggiore età seppure L. non sia minimamente in grado di far fronte anche alle sue piccole spese.

Ma la preoccupazione più grossa che stiamo vivendo è la seguente: che ne sarà del futuro di L.? Ovviamente essendoci un legame affettivo costituitosi in tutto questo periodo non è possibile l’idea di abbandonarla al suo destino; nello stesso tempo ci chiediamo: se lei non riuscirà ad essere autonoma e quindi a trovare un lavoro stabile ed a prendersi cura di se stessa, si porterà avanti un affidamento sine die (nel vero senso della parola!)?

C’è qualche remota possibilità che il Comune di Torino che ha disposto ben 13 anni fa quest’affidamento riesca a darci una mano per dare un minimo di speranza a L.? Ce lo auguriamo caldamente!

 

6. A. è ancora lontano dall’autonomia

Nel prossimo giugno saranno trascorsi quindici anni della nostra esperienza d’affidamento, e sicuramente non riusciremo ad immaginarci come famiglia senza A. Non sono stati anni facili; ma potendo tornare indietro, ripeteremmo sicuramente la stessa esperienza, cercando di essere, con A., più amorevoli e meno impazienti.

All’epoca, urgendo affidare lui e una delle sorelle, l’assistente sociale ci aveva ipotizzato un periodo di 2-3 mesi estivi e noi, ingenui ed inesperti, abbiamo creduto e accettato di accogliere A. nonostante uno dei nostri due figli porti il medesimo nome. Alla fine di tale periodo l’assistente sociale c’informò che, per i bambini, il Tribunale per i minorenni aveva disposto un affidamento di due anni. Noi, da quel momento, con l’aiuto dei nostri figli, abbiamo deciso di proseguire la nostra vita con lui.

Col passare del tempo era però divenuto complicato farsi sentire da due bambini che vivono nella stessa casa e condividono il nome. Abbiamo perciò proposto ad A. di accettare un diminutivo da usare solo in famiglia. Se da un lato questo provvedimento ha migliorato la comunicazione quotidiana, dall’altro ha sicuramente creato in lui dei problemi di identità.

Il periodo della scuola elementare è stato molto positivo per A. in quanto ha avuto ottimi insegnanti, molto attenti al suo sviluppo evolutivo sia nel campo didattico sia in quello sociale. In questo lasso di tempo però sarebbe stato utile avere un sostegno psicologico che coinvolgesse tutta la famiglia, in particolare i nostri figli biologici che, se opportunamente aiutati, avrebbero avuto più strumenti per migliorare i loro rapporti con A., evitando dannosi conflitti nati per motivi di gelosia specialmente tra i due omonimi, più giovani e vicini d’età.

L’esperienza della scuola media è stata meno proficua. Anche se a parole gli insegnanti si dichiaravano disponibili ad affrontare l’educazione di A. con un approccio più attento alle sue esigenze, di fatto la tradizione di selettività dell’istituto non ha creato le condizioni per un suo anche parziale successo scolastico.

Nei due anni di scuola frequentati, A. ha capito di non avere attitudine allo studio, perciò ha deciso che era inutile insistere. Ha frequentato in seguito uno dei corsi gestiti dalla Circoscrizione e qui ci sembra abbia trovato la sua strada. È stato assunto come apprendista idraulico dalla ditta artigianale presso la quale aveva svolto uno stage, è riuscito a conseguire la patente di guida, importante per il suo lavoro, e ha svolto il servizio militare.

Tra poco compirà 21 anni, ma è ancora lontano da un’autonomia sia psicologica sia economica e abbiamo anche la sensazione che il servizio sociale di zona, che sta vivendo molte difficoltà, si sia quasi dimenticato o abbia poca volontà di farsi carico della nostra situazione.

 

7. È indispensabile che le istituzioni sostengano anche le adozioni di ex affidati

Nell’ambito della più ampia tematica delle risposte per gli “ultra diciottenni”, intendiamo portare a conoscenza la nostra storia familiare per meglio valutare la conclusione degli affidamenti stessi. Il 26/2/77 abbiamo avuto nostro figlio D. Il 10/11/78 abbiamo accolto nella nostra famiglia R. di anni 7 (nata l’11/10/71). Per circa 10 anni siamo stati seguiti con regolarità dal Servizio di neuropsichiatria infantile del nostro quartiere, dott.ssa F.; R. ha poi proseguito il sostegno per circa 3 anni con la dott.ssa L. del Servizio di neuropsichiatria adulti, mentre noi abbiamo continuato con la dott.ssa F.

L’affidamento di R. da subito non si è presentato “facile” sia per le problematiche che presentava la bambina (con diagnosi che ci riserviamo eventualmente di precisare a voce), sia per la situazione e i problemi della sua famiglia e lo dimostra il fatto che, oltre agli aiuti di cui sopra, ci siamo attivati nella ricerca di ulteriori sostegni.

Tuttavia, a causa di gravi problemi avvenuti nella famiglia d’origine, abbiamo risposto positivamente alla richiesta delle istituzioni di adottare R. (decreto di adozione del 23/5/87) per meglio sviluppare le sue capacità; ha così portato a termine la scuola di maestra d’asilo dell’istituto M. di Torino ed ha in seguito conseguito la qualifica di operatore addetto ai servizi di assistenza domiciliare e delle strutture tutelari. Oggi possiamo affermare che R. lavora da più di 4 anni presso una struttura per anziani e da circa 3 anni ha avviato la sua autonomia vivendo per conto suo.

A partire dal 2/1/85 abbiamo accolto in affidamento C. di anni 5 (nata il 6/2/79); il suo inserimento è stato relativamente facile (si è subito manifestata una forte gelosia con D.), ma con la sua famiglia d’origine solo dopo 4 anni abbiamo riscontrato segnali di fiducia; tuttavia ancora oggi possiamo affermare che i rapporti sono improntati sulla correttezza e fiducia reciproca.

C. sta frequentando l’ultimo anno di liceo linguistico europeo presso la scuola M. e comunque intende perfezionare i suoi studi all’università. Dato il suo forte desiderio di appartenenza e la sua chiara identificazione nella nostra famiglia, C. ha maturato la scelta di essere adottata che si è concretizzata con il decreto del 15/1/98 quando lei ormai aveva superato il diciottesimo anno di età. Anche per lei abbiamo dato la nostra disponibilità all’adozione sia per rispondere a dei suoi bisogni che riteniamo irrinunciabili, sia per avere nella nostra famiglia “figli tutti uguali”.

Non nascondiamo che elaborare le adozioni non è stata una scelta immediata, ma abbiamo anche pensato che dare risposte rassicuranti, globali e definitive a dei minori sia un dovere preciso degli adulti, specialmente se si è già fatto un cammino in comune. Vorremmo ancora precisare che:

- abbiamo tuttora bisogno di sostegno e coltiviamo delle possibilità di confronto e ci attiviamo in modo autonomo;

- abbiamo sempre investito nella scuola con so­ste­gni individuali extrascolastici (per esempio R. è stata seguita per 7 anni tutti i pomeriggi).

Concludendo, alla luce di quanto detto riteniamo che sia indispensabile che le istituzioni continuino ad offrire alle famigli ex-affidatarie:

- un progetto ad hoc per ogni singola situazione;

- l’estensione della delibera degli ultra diciottenni;

- l’opportunità di poter continuare a utilizzare il servizio sociale;

- la possibilità di mantenere il sostegno psicologico o di attivare iniziative alternative (psicomotricità, musico-terapia, danza-terapia e canto).

Ci auguriamo che quanto sopra esposto possa valere anche per altre famiglie e che sia retroattivo.

 

8. Un affidamento-enigma

Siamo due impiegati senza figli ed abbiamo in affidamento un ragazzo di 19 anni, con gravi problemi psicologici, che è con noi da quando aveva 7 anni.

Avevamo inoltrato la disponibilità all’affidamento agli uffici del Comune ed ai servizi sociali, senza avere risposte quando abbiamo saputo che la comunità dov’era il bambino insisteva da tempo perché fosse affidato ad una famiglia.

Quando abbiamo comunicato la nostra disponibilità ad accogliere quel bambino ci hanno detto che stavano proprio pensando a noi perché, visti i problemi che aveva, era preferibile una famiglia senza figli.

L’affidamento però non è iniziato subito, in quanto l’assistente sociale, che sostituiva quella che si era occupata fino ad allora del caso, intendeva aprire un procedimento di adottabilità; finita la sostituzione tutto è tornato sui binari precedenti.

Dopo una settimana “di prova” in montagna, è venuto a stare con noi e si è subito attaccato alla figura maschile prendendo a calci e pugni l’altra.

Già da subito sono emerse diversità di vedute tra noi e i servizi: la prima sulla scuola dove abbiamo dovuto insistere molto per far capire che il bambino iniziasse da capo il ciclo scolastico, inserito in una nuova classe nel nostro quartiere, piuttosto che continuare la seconda in una scuola sperimentale dove in prima non aveva ottenuto nessun risultato.

Il ragazzo effettuava una psicoterapia settimanale e tornava dai genitori ogni 15 giorni; noi incontravamo uno psicologo circa ogni mese; non riuscivamo però, se non dal poco che riusciva a comunicarci il ragazzo, a capire quale fosse la sua reale situazione e quindi aiutarlo di più.

L’intervento del tribunale per i minorenni, in seconda elementare, ci ha permesso di capire qualcosa in più, ma ha segnato il definitivo distacco del progetto fra noi, la famiglia, il tribunale stesso ed i servizi sociali. Il tribunale, infatti, ha stabilito la durata dell’affidamento fino al termine della scuola dell’obbligo (3ª media), mentre i servizi lavoravano per il rientro dopo la quinta elementare.

Il ragazzo si era inserito bene a scuola ed aveva compiuto notevoli progressi con l’insegnante d’appoggio che lavorava non solo con lui ma con un gruppetto di scolari o con tutta la classe; questa mancanza di chiarezza sul suo futuro ha provocato in lui un forte regresso in prossimità della scadenza.

Sapevamo tutti che la famiglia d’origine non era in grado di assistere ed avviare all’autonomia il ragazzo, ma alla fine della terza media il tribunale si è visto “deontologicamente costretto” (sono parole del giudice) sulla base delle relazioni dei servizi sociali a decretare il rientro del ragazzo in famiglia; non ha però chiuso l’affidamento ed ha stabilito che ogni 15 giorni doveva ritornare da noi.

Il rientro è stato drammatico; è durato meno di un anno, poi il ragazzo è tornato da noi ma ancora oggi ne porta le conseguenze.

Già prima del rientro in famiglia del ragazzo ci eravamo rivolti ad un centro privato e quando il ragazzo è tornato da noi ha iniziato lì le terapie.

Ottenuto il passaggio di competenze ai servizi sociali del nostro quartiere, siamo riusciti, nonostante sia stata trasferita solo la competenza e non l’enorme cartella riguardante il caso, a fare un progetto a lungo termine con proseguimento dell’affido almeno fino al ventunesimo anno di età.

I problemi però non sono risolti; continuano le pressioni, soprattutto economiche, dei genitori sul ragazzo; non diminuisce l’ansia e l’incertezza che lui ha verso il futuro; non sappiamo bene come tutelarlo e rassicurarlo.

Abbiamo iniziato tredici anni fa l’affidamento con una grossa convinzione anche ideologica; la fatica, le divergenze con i servizi sociali, i contrasti riscontrati anche all’interno di questi, ci hanno molto disilluso: l’affidamento è ora per noi un grosso enigma.

 

 

(1) Si veda anche l’articolo di Maria Grazia Breda “Gli enti locali non devono abbandonare i ragazzi in affidamento familiare che hanno raggiunto la maggiore età”, Prospettive assistenziali, n. 91, luglio-settembre 1990.

(2) La relazione è stata pubblicata nel n. 11/12 di CNCA Informazioni. Alcune copie sono disponibili presso l’ANFAA, Via Artisti 36, 10124 Torino.

 

 

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