Prospettive assistenziali, n. 123, luglio-settembre 1998

 

 

la cassazione ed i contributi richiesti ai parenti dei ricoverati

MASSIMO DOGLIOTTI

 

 

 

Con una motivazione assai lacunosa, la Corte di Cassazione affronta un argomento come quello del pagamento delle rette di ricovero e della (presunta) rivalsa nei confronti dei parenti “obbligati” (a che cosa e da chi?), che avrebbe meritato ben altro approfondimento.

Il caso è quello, assai frequente, del Comune che si rivolge ai parenti (nella specie, le figlie) di un ricoverato povero, ed ottiene l’ingiunzione di pagamento. Il giudice di primo grado accoglie le opposizioni dei parenti, sostenendo che il Comune aveva indebitamente intrapreso un’azione alimentare. La Corte d’appello riforma la sentenza, ritenendo che il Comune legittimamente abbia promosso l’azione di rivalsa, che troverebbe la propria fonte in una legge regionale del Piemonte, “mera specificazione” di leggi nazionali, come quella sulle IPAB (n. 6972 del 1890), sui ricoveri manicomiali (n. 36 del 1954) e sulle spese di spedalità (n. 1580 del 1931): la rivalsa – a parere della Corte di merito – non avrebbe natura alimentare, ma di diritto pubblico, «essendo il riferimento agli obbligati di cui all’art. 433 del codice civile rilevante solo per la loro individuazione».

La Suprema Corte, pur ridimensionando alcune delle affermazioni della Corte di merito, finisce per mantenere la sostanza della decisione impugnata. Si parte dalla considerazione – ed è constatazione del tutto ovvia – che l’ente locale ha corrisposto le rette di degenza all’istituto, «in precisa attuazione» della funzione socio assistenziale, in relazione alla legge n. 372 del 1975 e al DPR 616 del 1977, che ha trasferito agli enti locali tutte le funzioni amministrative statali nei servizi di assistenza e beneficenza (ivi compresa anche l’attività di erogazione di servizi a pagamento). Si diffonde poi la Cassazione in un’analisi della normativa regionale piemontese che, proprio su tale base, introdurrebbe il principio della concorrenza da parte degli utenti dei servizi sui relativi costi. Ma, con un salto logico, si giustifica, come fosse coerente con tale principio (e non lo è affatto), «l’azione di rivalsa» nei confronti dei soggetti obbligati. Ovviamente, nella legge 362 e nel DPR 616, non vi è il ben che minimo riferimento ad una possibilità di rivalsa nei confronti dei parenti dei ricoverati.

Del resto, si parla di una legge regionale, la n. 12 del 1988 (e meno male che la Cassazione se ne avvede!) che si vorrebbe... rendere retroattiva, così da disciplinare anche rapporti sorti e sostanzialmente conclusi prima della sua entrata in vigore. Non è affatto pacifico – come sembra ai giudici della Cassazione – che la suindicata legge regionale introduca una forma di rivalsa nei confronti dei parenti degli assistiti, a favore del Comune. Si afferma, come si diceva, che gli utenti sono chiamati a concorrere ai relativi costi e che gli enti onerati possono promuovere l’azione di... rivalsa nei confronti dei soggetti obbligati. Affermazione assai ambigua, che sembra riferirsi agli utenti più che ai soggetti tenuti agli alimenti (la norma parla di soggetti obbligati, e tali sono sicuramente gli utenti dei servizi: affermare che i soggetti obbligati siano quelli tenuti agli alimenti è, ancora una volta, un salto logico che la Cassazione non giustifica affermando del tutto apoditticamente che «secondo una lettura sistematica e testuale» dell’art. 32 della legge regionale n. 12 (che essa peraltro non esplicita) i soggetti obbligati non sono gli utenti. Ma perché dovrebbero essere i parenti tenuti agli alimenti? Se così fosse, si potrebbe ipotizzare una questione di legittimità costituzionale: la materia così delicata del rapporto tra utente e parenti tenuti agli alimenti – perché è di questo che si tratta – richiederebbe un intervento del legislatore nazionale, e non regionale.

Ma torniamo alla riconosciuta «irretroattività» della legge regionale del 1988. La Cassazione – e si deve evidenziare un ulteriore salto logico, assolutamente non motivato – afferma che comunque tale legge si inserisce «nel quadro di norme» che già prevedono una ripartizione degli oneri tra ente obbligato e utente nonché la rivalsa verso soggetti diversi. Si indicano... a sproposito la legge 6972 del 1890 (l’art. 78 prevede soltanto il recupero delle spese a carico del ricoverato risultato non indigente) e l’art. 1 della legge n. 1580 del 1931, che regola (o meglio regolava) la rivalsa delle spese (non di ricovero, come afferma la Cassazione) ma di spedalità. Tale disposizione – secondo la Suprema Corte – è ancora in vigore; ma la sentenza in esame non spende una parola per giustificare tale assunto, che appare estremamente rilevante ai fini della decisione. Si indicano, nella pronuncia, alcuni precedenti, tutti anteriori alla legge n. 833 del 1978, introduttiva del Servizio sanitario nazionale, tranne uno (Cass. n. 11209 del 1992), ma anche in tal caso... la Cassazione affermava la vigenza della norma senza minimamente giustificare tale affermazione (senza contare che, nella specie, il rapporto dedotto in giudizio – rivalsa nei confronti dei figli di un’anziana donna ricoverata – si era interamente svolto prima della legge n. 833). Si deve invece ribadire che tale normativa appare in netto contrasto con la logica e le caratteristiche del sistema sanitario nazionale, introdotto dalla riforma del 1978. Va, a tale proposito, ricordato che, secondo un’altra sentenza della Suprema Corte (Cass. n. 7989 del 1994), il recupero delle spese di spedalità era disciplinato dalla legge n. 1580 del 1931, anteriormente alla legge n. 833, ed oggi dall’art. 69 di questa legge (ma tale articolo, com’è noto, si limita a precisare che tra le entrate del Fondo sanitario nazionale si collocano anche i «recuperi a titolo di rivalsa», senza minimamente indicare chi siano i soggetti tenuti).

Ma se si dovesse considerare vigente la norma del 1931, non sarebbe comunque giustificabile l’interpretazione ingiustamente estensiva che dà la Cassazione delle spese di spedalità (e dunque delle spese di degenza in ospedale o in strutture differenti, ma sempre comunque collegate ad una prestazione sanitaria) fino a ricomprendervi spese socio-assistenziali che sarebbero, secondo la pronuncia, le uniche a presentare un “indubbio” (?) margine di applicabilità:  venuto meno il presupposto originario (spese di degenza in ospedale o strutture equiparate)... la legge vivrebbe ancora in virtù di un’applicazione a rapporti (quelli socio-assistenziali) cui il legislatore del 1931 non intendeva assolutamente riferirsi.

Senza contare che la legge del 1931 non potrebbe sottrarsi a dubbi di costituzionalità (tale profilo non è mai stato preso in esame dalla Consulta), indicando i parenti, tenuti agli alimenti, dei soggetti ricoverati: com’è noto, in materia alimentare il soggetto è tenuto a corrispondere una somma periodica, in quanto vi sia una pronuncia del giudice, che abbia valutato i presupposti dell’obbligazione (e dunque lo stato di bisogno dell’alimentando e le condizioni economiche del soggetto tenuto). Si attribuirebbe così un ingiustificato privilegio alla Pubblica amministrazione che potrebbe agire verso i parenti tenuti, senza considerare le loro condizioni economiche (e comunque senza necessità di un provvedimento giurisdizionale).

Emerge, dunque, da quanto si è osservato, la contraddittorietà del ragionamento della Suprema Corte e la quantità di profili e problemi che essa avrebbe comunque dovuto prendere in considerazione.

Va quindi precisato che, allo stato della nostra legislazione, una norma di rivalsa verso i parenti che legittimi una sostituzione processuale dell’assistito da parte degli enti erogatori, appare assolutamente inesistente. Al di là di quanto si è detto sulla legge n. 1580 del 1931, sembrano del tutto privi di fondamento anche gli altri tentativi di giustificare un potere di sostituzione processuale dell’ente erogatore: ove quest’ultimo chiamasse in giudizio il parente tenuto agli alimenti, la domanda non potrebbe che essere respinta. Non si potrebbe far riferimento all’art. 7 della legge n. 6872 del 1890, per cui spetta alla congregazione di carità (poi ECA, oggi Comune) la cura degli interessi dei poveri e la loro rappresentanza legale dinanzi all’autorità amministrativa e a quella giudiziaria: in realtà, tale norma è da intendersi come previsione di salvaguardia e protezione verso i “poveri” visti come collettività, e non nei confronti del singolo individuo. Non possono esservi eccezioni: o l’individuo è capace e allora agisce da sé, o è incapace, e allora agisce in sua vece il rappresentante legale, il tutore nominato dal giudice; altre possibilità non sono date. Né può richiamarsi l’art. 2041 del codice civile: l’azione di ingiustificato arricchimento, per cui chi senza giusta causa si è arricchito a danno di una altra persona, è tenuto ad indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Il riferimento è del tutto errato: non si potrebbe parlare di ingiustificato arricchimento per il parente tenuto agli alimenti finché questi non siano richiesti dal beneficiario. Ad analogo risultato conduce l’esame dell’art. 155 del testo unico della pubblica sicurezza. È vero che la norma prevede una possibilità di diffida, da parte dell’autorità, ai congiunti di un mendicante, inabile al lavoro e privo di mezzi, tenuti per legge agli alimenti, ma il rapporto si costituisce tra parente e povero direttamente, e non nei confronti dell’istituto di ricovero. Riprova di ciò è data dal contenuto del secondo comma della norma: decorso il termine della diffida, l’inabile al lavoro è ammesso di diritto al beneficio del gratuito patrocinio per promuovere il giudizio degli alimenti; ancora una volta non è prevista alcuna sostituzione processuale da parte dell’ente erogatore.

Nulla è perduto dunque se non purtroppo per i protagonisti (i soggetti “obbligati”) (sic!) di questa vicenda. Per il futuro la Cassazione, come si spera e si auspica, potrebbe (e dovrebbe) cambiare opinione.

 

 

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