Prospettive assistenziali, n. 121, gennaio-marzo 1998

 

 

IL PROGETTO UNIFICATO SUL COLLOCAMENTO OBBLIGATORIO AL LAVORO DEGLI HANDICAPPATI ED IL RISCHIO DI UNA CONTRORIFORMA

 

Il 31 luglio 1997 è stato licenziato dal Senato il disegno di legge di riforma della legge 482/1968 che, attualmente, è all’esame della Commissione Lavoro della Camera, relatore l’On. Carlo Stelluti.

Sembra che non vi siano più molti spazi per emendare significativamente (come in realtà si dovrebbe) il testo e, soprattutto, che manchi la voglia di approfondire il problema.

Dopo quasi trent’anni di convegni, seminari e proposte, si respira la volontà di andare avanti ad ogni costo, purché si rifaccia la “482”. Anche se sarà peggio?

La domanda non è pretestuosa. È evidente che il testo in discussione risente negativamente dei tanti compromessi fatti per rispondere a spinte di interessi contrastanti, al punto da registrare contraddizioni stridenti, come è il caso, ad esempio, degli articoli 1 e 10, sui quali ci soffermeremo più avanti, nella speranza che numerose organizzazioni e persone si attivino per evitare l'irreparabile.

Senza contare che, per tacitare gli animi degli invalidi “storici” (ciechi, sordi, invalidi del lavoro), tutte le loro tutele (e privilegi) restano inalterati, vanificando così il tentativo di introdurre un collocamento mirato sulle effettive capacità.

Infine, non si può che restare allibiti di fronte ad una così alta percentuale di esoneri, per cui molto poche saranno alla fine le imprese sottoposte agli obblighi di legge.

 

Confindustria e cooperative sociali contro gli handicappati?

 

Tuttavia l’aspetto che più ci preoccupa è il pesante clima politico e culturale, che sta aleggiando ormai da troppo tempo attorno a questa riforma.

Sempre più insistenti sono le notizie in merito a continue pressioni esercitate nei confronti dei parlamentari impegnati nell’esame del testo di legge, affinché accolgano le richieste della Confindustria – purtroppo, condivise da una consistente parte del Terzo Settore – di utilizzare la cooperazione sociale come l’unico luogo di lavoro per il collocamento delle persone handicappate.

In sintesi, torna lo spettro della richiesta anticipata dall’allora Presidente della Fondazione italiana per il volontariato, Pellegrino Capaldo, che nel n. 6, giugno 1995, della “Rivista del volontariato” chiedeva «una diversa disciplina delle categorie protette, che consenta alle imprese di scegliere tra l’assunzione diretta e l’affidamento di commesse ad un organismo produttivo che dia lavoro a quelle “categorie”» (1).

Pertanto le persone handicappate, comprese quelle in grado di esprimere una piena capacità lavorativa, a giudizio insindacabile delle imprese, dovrebbero lavorare solo presso “speciali organismi”, indicati chiaramente nelle cooperative sociali.

Purtroppo Pellegrino Capaldo ha fatto proseliti. Infatti, condiziona pesantemente il dibattito parlamentare anche la scelta emarginante dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione (UPLMO) di Treviso che, in data 17 settembre 1996, ha stipulato un’intesa con il Consorzio Cooperative sociali “Intesa”, l’Unindustria, l’Associazione nazionale costruttori edili ed affini, l’Associazione commercianti e i Sindacati CGIL, CISL, UIL, intesa che, interpretando in modo assolutamente distorto la legge 482/1968 sul collocamento obbligatorio, blocca in modo definitivo l’integrazione dei soggetti
handicappati nelle normali aziende pubbliche e private (2).

Oggi, la Confindustria vorrebbe semplicemente introdurre la formula applicata a Treviso, come regola nella nuova legge di riforma del collocamento al lavoro degli handicappati.

È un’ipotesi allucinante, contraria ad ogni rispetto delle persone handicappate coinvolte, alle quali viene negato il diritto alla libera scelta del posto di lavoro, anche quando, nonostante la minorazione, sono in grado di raggiungere elevati livelli di autonomia e di prestazione lavorativa.

Nell’editoriale del n. 111, luglio-settembre 1995, di Prospettive assistenziali, abbiamo evidenziato anche i rischi che interessano le stesse cooperative e, per riflesso, ricadono ovviamente in modo negativo sugli handicappati.

Innanzitutto il peso contrattuale delle imprese è decisamente più forte di quello delle cooperative, per cui quest’ultime sarebbero permanentemente indotte ad accettare commesse a condizioni anche non remunerative. È quindi molto alto il pericolo che gli stipendi degli handicappati, assunti come soci-lavoratori, compresi quelli con piena capacità lavorativa, siano molto bassi e inferiori a quelli degli addetti in aziende che svolgono la stessa attività. Già oggi accade che ai soci-lavoratori delle cooperative sociali non si applichino i contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato e autonomo.

Nessuno vuole negare il ruolo che la cooperazione sociale può svolgere nel campo della formazione delle persone con handicap e del loro inserimento lavorativo, soprattutto nei riguardi di coloro che, a causa delle loro condizioni intellettive o fisiche, possono esprimere una capacità lavorativa ridotta.

Ma perché la cooperazione possa davvero svolgere un positivo ruolo di impresa economica, e rispettare quindi le regole del mercato, tali inserimenti devono essere misurati, contenuti e calibrati in modo da assicurare la necessaria produttività.

Resta indiscusso, in ogni caso, che la cooperativa sociale va considerata come una delle tante possibilità di lavoro, che la società deve offrire alle persone handicappate in grado di lavorare. Guai se diventasse l’unica!

Vorremmo sapere che cosa pensano e fanno le cooperative sociali serie, i sindacati dei lavoratori, almeno quelli che si occupano anche degli handicappati disoccupati, le associazioni di tutela: perché nessuno interviene a difendere le esigenze ed i diritti dei soggetti handicappati?

 

I parlamentari fanno finta di non capire che non si può valutare la capacità lavorativa solo con la percentuale di invalidità

 

Come avevamo già detto nell’articolo “Una vera riforma del collocamento al lavoro degli handicappati è ancora lontana”, apparso sul n. 111, luglio-settembre 1995 di Prospettive assistenziali, «qualsiasi legge, per essere veramente rispondente alle esigenze dei soggetti a cui si rivolge, dovrebbe assumere come riferimento fondamentale la realtà delle cose. La nuova legge sul collocamento obbligatorio dovrebbe recepire – finalmente – che gli attuali criteri relativi alla percentuale di invalidità non sono utilizzabili per quanto concerne la capacità lavorativa. Per questo, senza attendere necessariamente che sia risolto il pur importante nodo dell’accertamento dell’invalidità, si può (e si deve, a nostro avviso) introdurre già ora un profondo cambiamento nella nuova legge affiancando alla percentuale di invalidità la valutazione della capacità lavorativa, che potrà essere piena, ridotta o nulla. Ci sono infatti gli handicappati con piena capacità lavorativa, quelli con rendimento limitato (capacità lavorativa ridotta) e, infine, coloro che, a causa della gravità delle loro condizioni psico-fisiche, non sono assolutamente in grado di svolgere alcuna attività lavorativa proficua (capacità lavorativa nulla)».

Ciò premesso, nel suddetto articolo veniva precisato quanto segue: «Si stabilirebbe così, finalmente, che:

1) il collocamento al lavoro riguarda (ed è chiesto) solo per gli handicappati in grado di assicurare una resa produttiva, anche se a volte ridotta;

2) vi sono persone handicappate che non potranno mai essere avviate al lavoro, che hanno però diritto (oggi non sancito) ad ottenere servizi diurni assistenziali».

Tale chiarezza non è presente nel testo in esame alla Camera, che annaspa tra tentativi di innovazione e mantenimento dello status quo.

Alcuni aspetti potenzialmente innovativi sono introdotti nell’art. 1, in particolare al punto 4, che prevede quanto segue: «L’accertamento delle condizioni di disabilità di cui al presente articolo, che danno diritto di accedere al sistema per l’inserimento lavorativo dei disabili, è effettuato dalle commissioni di cui all’articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, secondo i criteri indicati nell’atto di indirizzo e coordinamento emanato dal Presidente del Consiglio dei ministri entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Il predetto atto di indirizzo e coordinamento indica le integrazioni dei componenti delle commissioni medesime, al fine di una valutazione, oltre che delle residue capacità lavorative e delle abilità, anche degli strumenti e delle prestazioni da porre in essere ai fini del sostegno dell’autonomia della persona e delle sue possibilità di inserimento lavorativo. Con il medesimo atto vengono stabiliti i criteri e le modalità per l’effettuazione delle visite sanitarie di controllo della permanenza dello stato invalidante».

Purtroppo, all’art. 10, si abbandona totalmente il criterio della valutazione della capacità lavorativa e si mantiene come unico riferimento la percentuale di invalidità. Infatti, il punto 1 dell’art. 10 è così redatto: «Attraverso le convenzioni di cui all’articolo 9 gli organi competenti alla stipulazione delle convenzioni stesse possono concedere ai datori di lavoro privati, sulla base dei programmi presentati e nei limiti delle disponibilità del Fondo di cui al comma 4 del presente articolo:

a) la fiscalizzazione totale, per la durata massima di cinque anni, dei contributi previdenziali ed assistenziali relativi ad ogni lavoratore disabile che, assunto in base alla presente legge, abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79 per cento o minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni;

b) la fiscalizzazione nella misura del 50 per cento, per la durata massima di tre anni, dei contributi previdenziali ed assistenziali relativi ad ogni lavoratore disabile che, assunto in base alla presente legge, abbia una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67 per cento e il 79 per cento o minorazioni ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle citate nella lettera a)».

Se permane questa impostazione si verificheranno due gravi situazioni di ingiustizia:

1) molti “falsi invalidi”, con alte percentuali di invalidità, ma che mantengono pressoché intatta la loro autonomia e la loro capacità lavorativa, continueranno a godere delle agevolazioni previste, mentre gli handicappati veri resteranno disoccupati;

2) una consistente quota di handicappati intellettivi, con buone capacità lavorative, resterà esclusa dagli incentivi e, quindi, non troverà lavoro.

È noto che, nella prassi attuale, agli handicappati intellettivi avviabili al lavoro, proprio per favorirne l’assunzione, si attribuisce una percentuale di invalidità non elevata, in genere dal 46% al 60-65%.

Con quanto proposto dall’art. 10, questi soggetti non avrebbero diritto a nessuna incentivazione, pur essendo evidente a tutti, a causa delle loro difficoltà, la necessità di incentivare la loro collocazione presso le aziende.

Viceversa, sempre secondo l’art. 10, vengono riconosciuti incentivi consistenti (per ben cinque anni) non solo ai soggetti con menomazioni che non intaccano la loro capacità lavorativa, ma anche agli handicappati fisici-motori, ad esempio al paraplegico in carrozzina che, pur avendo il 100% di invalidità, può lavorare al pari di un suo collega, beninteso, purché sia inserito secondo il principio del collocamento mirato.

Non è possibile che i Parlamentari non abbiano compreso questo semplice ragionamento.

Ancora il 24 ottobre 1997, durante l’ennesimo seminario, promosso questa volta da CGIL-CISL-UIL, a Milano (3), al quale è intervenuto tra gli altri anche l’On. Carlo Stelluti (che, lo ricordiamo, è il relatore del testo in esame alla Camera), venivano illustrati i vantaggi per l’azienda, oltre che per il lavoratore, con il collocamento mirato, che si fonda principalmente sulla valutazione della capacità lavorativa per la ricerca del posto più idoneo di lavoro.

Lo stesso art. 1, peraltro, come abbiamo già visto, contiene in sé le indicazioni necessarie per far decollare questo nuovo sistema di avviamento al lavoro. Infatti viene previsto, oltre all’accertamento delle condizioni di disabilità, anche la valutazione delle residue capacità lavorative e delle abilità, per individuare gli strumenti da attivare al fine di mettere la persona handicappata nella condizione di poter svolgere al meglio la propria attività lavorativa.

Per quanto riguarda le disposizioni contenute nel testo già approvato dal Senato, temiamo che vi sia un disegno preciso per escludere definitivamente chi, pur avendo minori capacità, è comunque in grado di assicurare una resa produttiva certa e continuativa, anche se limitata allo svolgimento di mansioni semplici.

Bisogna fare presto e correre ai ripari affinché siano introdotti i correttivi necessari per armonizzare gli articoli 1 e 10 del testo di legge e per impedire che siano esclusi dalla possibilità di incentivi (e quindi in pratica dal collocamento al lavoro) gli handicappati con una limitata autonomia e quindi ridotta capacità lavorativa.

 

Proposta di modifica

Pertanto, proponiamo che il punto 1 dell’art. 10 venga riformulato come segue (4): «1. Attraverso le convenzioni di cui all’articolo 9, gli organi competenti alla stipulazione delle convenzioni stesse possono concedere ai datori di lavoro privati, sulla base dei programmi presentati e nei limiti delle disponibilità del Fondo di cui al comma 4 del presente articolo:

a) la fiscalizzazione totale, per la durata massima di cinque anni dei contributi previdenziali ed assistenziali, relativi a:

1) portatori di handicap intellettivo o psichico con capacità lavorative accertate dalla commissione di cui all’art. 1, comma 4, della presente legge;

2) disabili fisici e sensoriali con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% accertata dalla commissione di cui all’art. 1, comma 4, della presente legge; o minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978 n. 915 e successive modificazioni;

b) la fiscalizzazione nella misura del 50 per cento, per la durata massima di tre anni, dei contributi previdenziali ed assistenziali relativi ad ogni lavoratore disabile che, assunto in base alla presente legge abbia una riduzione della capacità lavorativa accertata dalla commissione di cui al punto 4 dell’art. 1 della presente legge, compresa tra il 67% e il 79% o minorazioni ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle citate nella lettera a);

 

È necessaria una tutela aggiuntiva per gli handicappati intellettivi e psichici

 

Nel testo di riforma della legge 482/1968, è previsto l’obbligo per le aziende con più di 25 dipendenti di assumere lavoratori handicappati in misura del 7% sul totale dei propri addetti.

Insistiamo nel chiedere che il 2% di questa quota sia riservato agli handicappati intellettivi e alle persone con minorazioni psichiche.

Ciò, al solo scopo di assicurare realmente la loro collocazione al lavoro che, oltre a non essere mai stata “protetta” con la legge 482/1968, è stata limitata anche da altri provvedimenti. Ricordiamo, ad esempio, la circolare del Ministro del lavoro De Michelis del 1985, che li aveva esclusi dal collocamento obbligatorio, prevedendo per gli handicappati “psichici” una lista speciale a parte.

Solo con la sentenza n. 50/1990 della Corte costituzionale è stato possibile riportarli nelle liste del collocamento obbligatorio.

Tuttavia, nuovamente ad opera di una circolare del Ministro del lavoro di allora, On. Carlo Donat-Cattin (5), è stata azzerata l’anzianità che avevano maturato nelle liste speciali e, in pratica, gli handicappati intellettivi e le persone con problemi psichiatrici, inseribili al lavoro, non hanno più avuto alcuna speranza di essere avviati alle aziende tramite la chiamata del collocamento.

Infatti, i soli avviamenti realizzati sono frutto di progetti di lavoro predisposti dai servizi degli enti locali, ma numericamente non in grado di soddisfare la domanda di lavoro delle centinaia di soggetti iscritti da molti anni nelle liste del collocamento obbligatorio.

 

 

 

(1) Cfr. l’editoriale del n. 111, luglio-settembre 1995 di Prospettive assistenziali “La Fondazione italiana per il volontariato non vuole che handicappati e svantaggiati lavorino nelle normali aziende”.

(2) Cfr. “Fuori gli handicappati dalle normali aziende di Treviso”, ibidem, n. 116, ottobre-dicembre 1996.

(3) Cfr. M. Lupi, “Disabili ed inserimento lavorativo: dall’obbligo alle pari opportunità”, in Il Subvedente, n. 4, dicembre 1997.

(4) In carattere normale sono riportate le parti che a nostro avviso dovrebbero essere inserite.

(5) Circolare n. 468/M92, prot. n. 3832 del 28 marzo 1990 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, Direzione generale per l’impiego, Div. III, Roma.

 

 

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