Prospettive assistenziali, n. 119, luglio-settembre 1997

 

 

LA DRAMMATICA ESPERIENZA DEL FIGLIO DI UNA ANZIANA MALATA CRONICA NON AUTOSUFFICIENTE

 

 

Da anni segnaliamo ai nostri lettori le devastanti (anche sul piano economico) conseguenze causate dalla violazione del diritto degli anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie, comprese - occor­rendo - quelle praticate presso ospedali e altre strutture sanitarie.

A1 riguardo riportiamo una drammatica esperien­za, precisando che, se le leggi vigenti venissero rispettate, le prestazioni occorrenti per la cura dei malati, cronici compresi, ed i relativi oneri economi­ci sarebbero interamente a carico del Servizio sani­tario nazionale, come è confermato, fra l'altro, dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 10150/1996, riportato sul n. 117 di Prospettive assistenziali.

 

 

II sottoscritto unico figlio della defunta A.R. qui di seguito racconta quanto accaduto dall'anno 1993 ad oggi a sé ed alla sua famiglia a causa della man­canza di idonei interventi da parte delle istituzioni.

A.R. viveva sola in Genova, Via Carnia n. 57/4 in un alloggio affittatole dall'Istituto Emanuele Brigno­Ce, mentre il figlio abita con la sua famiglia composta dalla moglie D.S. e dal figlio Paolo in un apparta­mento di 4 vani e 1/2 nel quartiere Valtorbella.

II suddetto alloggio è intestato ad A.R. in quanto trattasi di edilizia convenzionata ed era la sola ad avere i requisiti per l'acquisto, in quanto la moglie del figlio è intestataria dell'appartamento dei genito­ri che lo abitano gratuitamente.

Ciò premesso per debita informazione, si riprende il racconto: l'interessata ha dei problemi di salute e sovente delle sincopi causate da ipertensione e pes­sima circolazione a livello cerebrale; quindi il figlio decide di accoglierla in casa con sé, anche se manca lo spazio, proprio per poterla assistere al meglio e seguire la sua salute da vicino.

Prima di lasciare la sua residenza, il 30 luglio 1993, A.R. ha un ictus e resta per molto tempo priva di sensi, tanto è vero che si dubita di poterla riani­mare, tuttavia la corsa all'ospedale Celesia le salva la vita, ma lascia segni irreversibili sulla sua salute fisica e mentale.

Lì riceve le cure del caso (nella caduta si è spac­cata la fronte e procurata un trauma cranico), dopo­diché viene dimessa il 26 agosto 1993 in condizioni, pessime. È completamente allettata, non riconosce neppure i familiari ed ha continuo bisogno di terapie, accusa anche dolori ed ogni giorno siamo costretti a chiamare il medico.

Ci rendiamo ben presto conto che malgrado la nostra buona volontà, è impossibile gestire in fami­glia una simile situazione e ci rivolgiamo all'assi­stente sociale del CAD, Centro di assistenza domi­ciliare, di zona per un aiuto.

Ci richiede tutti i documenti necessari per la domanda di ricovero con convenzione comunale e la sottopone all'assessorato, ma la risposta è nega­tiva; superiamo di poco il tetto consentito e la domanda non può essere accolta; inoltre non ha neppure diritto all'assistenza domiciliare gratuita in quanto è inserita nel nostro nucleo familiare ed è compito nostro occuparcene.

Si può però richiedere l'assegno di accompagna­mento (è già stata riconosciuta invalida al 100%, senza alcun riscontro economico ovviamente) e la stessa assistente sociale inoltra la pratica.

La situazione si aggrava; il medico curante dirada le visite e ci consiglia di rivolgerci al CAD o a un isti­tuto privato. Rifiuta di farla ricoverare dicendoci che la tratterrebbero solo alcuni giorni per la fase acuta e poi la dimetterebbero subito temendo che possa diventare una lungodegente.

La situazione è drammatica e ritorniamo al CAD. Dopo alcuni giorni l'assistente sociale viene a visi­tarla a casa con una dottoressa e, eccezionalmente, si offre di pagarci una persona per due o tre notti alla settimana ad assisterla, proprio per permetterci di riposare almeno nelle ore notturne; però deve trat­tarsi di una persona di fiducia e si deve produrre un atto notorio.

Siamo in pieno agosto e non riusciamo a trovare neppure un parente disponibile, inoltre, pur apprez­zando questo aiuto, non risolve il problema, in quan­to, per poter fare spazio ad un'altra persona, dovremmo uscire di casa noi. E comunque questo aiuto eccezionale sarebbe stato valido solo sino all'erogazione dell'assegno di accompagnamento.

Non abbiamo trovato nulla e la situazione è rima­sta invariata, mentre le istituzioni erano chiuse per ferie.

II 26 settembre 1993 la nostra congiunta ha una ricaduta; nuovamente si procura una ferita alla fron­te ed un trauma cranico.

La ricoveriamo d'urgenza al Celesia e qui il figlio viene sottoposto ad una serie di domande imbaraz­zanti e si polemizza sul fatto che ha nuovamente la testa rotta e nello stesso punto.

Dopo le prime cure e passati i primi due giorni, l'o­spedale la trasferisce al reparto di neurologia di Sestri Ponente per accertamenti. Lì ha una grave crisi di aritmia cardiaca; convocano il figlio dicendo che ci sono poche speranze per la sua vita, tuttavia la trasferiscono in terapia intensiva e dopo alcuni giorni si riprende fisicamente.

Ritorna al Celesia in cardiologia, sempre in terapia intensiva, e le sue condizioni fisiche migliorano, mentre peggiorano purtroppo quelle mentali.

II 14 ottobre 1993 il primario chiama il figlio per parlare della dimissione della madre, poiché distur­ba ed il suo problema è solo mentale. II figlio chiede se la possono trasferire temporaneamente in medicina sino alla guarigione completa, ma il primario risponde che non c'è posto. Impone al figlio di por­tarla a casa. L'infermiera per il cambio del catetere dovrà essere cercata e pagata dal figlio stesso.

Viene dimessa con il catetere in tasca, sulla sedia a rotelle poiché non è in grado di camminare e con l'ambulanza!

A questo punto non è proprio possibile riaccoglier­la in casa e per la prima volta prendiamo contatto con la casa di riposo "Pezzini Rosetta" dove viene immediatamente ricoverata e stacchiamo il primo assegno di lire 2.200.000.

Le sue condizioni migliorano, ma ha costante­mente bisogno di terapie, di assistenza ed ogni gior­no del controllo medico.

In breve diamo fondo al suo piccolo risparmio di lire 4.000.000 e pure ai nostri risparmi (circa 10 milioni accantonati come liquidazione quando la nuora ha lasciato l'impiego per dedicarsi al figlio).

L'assegno di accompagnamento tarda ad arrivare e tutti i mesi siamo costretti a pagare all'istituto pri­vato una retta di 2.200.000 più varie spese per un totale di circa L. 2.500.000, contro un'entrata globa­le di pari importo formata dallo stipendio del figlio e la pensione dell'ammalata (L. 900.000 mensili).

Tra mille difficoltà arriviamo sino al gennaio 1994, ma i soldi sono completamente finiti e richiediamo il primo prestito. Ci rivolgiamo all'AMT di cui il figlio è dipendente ed otteniamo un prestito di L. 8.000.000, che dobbiamo restituire per un importo mensile di lire 200.000.

Durante questo periodo, approfittando del fatto che la mamma è accudita in ricovero, ci muoviamo forsennatamente da un ufficio all'altro e da un'istitu­zione all'altra per cercare una soluzione al nostro problema, ma le risposte sono sempre negative; il problema è solo nostro e l'unica alternativa al rico­vero è tenerla in casa con una spesa che la famiglia non è assolutamente in grado di sostenere.

L'USL ci informa che c'è una possibilità di dimez­zare l'importo con la loro convenzione, a patto che la mamma sia ricoverata presso uno dei loro istituti convenzionati. Purtroppo però gli importi richiesti sono altissimi e persino pagando metà importo, superiamo nettamente la cifra che paghiamo al Pezzini. A fine febbraio portiamo la mamma in un ospizio dell'alta Valle Polcevera gestito dalle suore, ma ben presto ci chiamano dicendo di riprendercela poiché è gravemente invalida ed ha bisogno di una costante assistenza che loro non sono in grado di fornire.

La riportiamo all'istituto Pezzini, il quale per venir­ci un po' incontro, abbassa la retta mensile a L. 1.800.000, più le spese ovviamente.

In questo contesto tutto pesa economicamente; ogni settimana dobbiamo pure provvedere a rifargli il guardaroba di biancheria intima che regolarmente sparisce e inoltre c'è la restituzione del prestito: quindi arranchiamo con vere e proprie acrobazie sino a giugno e appena Paolo termina la scuola riproviamo a riprenderla in casa con noi.

Resta presso di noi per circa un mese, i problemi sono tanti, le difficoltà incredibili ed inoltre nessuno può darci una mano, né gratuitamente, né a paga­mento poiché è di nuovo periodo di vacanze.

Infine ha una nuova sincope, il medico dice che l'ammalata è disidratata, sarebbe necessario farle delle flebo, ma proprio non vuole ricoverarla in ospe­dale e siamo costretti a riportarla al Pezzini.

In breve tempo si rende necessario un nuovo pre­stito. Ritorniamo all'AMT che ci copcede un secon­do prestito di L. 8.000.000 che, conguagliato al pre­cedente si trasforma in una restituzione di lire 280.000 mensili.

Sollecitiamo l'assegno di accompagnamento e cerchiamo pure altri ricoveri fuori città; setacciamo il basso Piemonte, ma le condizioni sono anche peg­giori: rette da 3 milioni al mese, o strutture solo per autosufficienti, oppure non hanno posti e rifiutano persino la domanda.

Ci rivolgiamo pure ad alcuni legali per un parere sulla situazione sia dell'ammalata che nostra, ma le risposte sono tutte uguali: «Pagate, dovete pagare, fateveli prestare!». Ci fanno i conti in tasca e ci con­sigliano di pagare l'ospizio e le tasse, tralasciando completamente il fatto che pure noi dobbiamo vive­re.

Nessuna considerazione per nostro figlio che è un minore ed è costretto a vivere di rinunce mentre noi dobbiamo pagare cifre astronomiche per la nonna. Arriviamo a fatica sino alla fine del 1994 e si rende necessario un nuovo prestito, questa volta ci rivol­giamo al Banco di Roma.

Chiediamo 10 milioni, ne vengono concessi 9.600.000 con una restituzione mensile di lire 250.000 sino al 1999.

Accumuliamo così un debito di L. 530.000 al mese più la retta mensile del ricovero: il nostro disavanzo totale è di circa 1.800.000 al mese.

Ritorniamo al CAD, contattiamo pure lo sportello del consumatore e viene inviato un sollecito alla Prefettura.

Ci rivolgiamo pure al "Tribunale per il diritto del­l'ammalato": rispondono che una volta fuori dalla struttura ospedaliera non è più possibile intervenire in alcun modo.

AI limite della sopravvivenza arriviamo sino al 28 maggio 1995 e dopo ripetuti solleciti, finalmente riti­riamo l'assegno di accompagnamento per una cifra totale di L. 17.412.000.

Li utilizziamo subito per saldare i vecchi debiti (non certo quelli dell'AMT e del Banco di Roma) e precisamente: arretrati di amministrazione, I'ICI, il 740, le bollette arretrate e SIP, il mutuo e le spese di alcuni mesi del ricovero.

Inoltre Paolo necessita di cure dentistiche ed orto­dontiche e di alcune indagini mediche che eravamo stati costretti a rimandare ed in banca resta ben pre­sto la metà dell'importo arretrati. II rimanente resta accantonato per pagare la differenza dei mesi futu­ri.

Questo è un aiuto economico, però c'è sempre da tenere presente che sia pensione che accompagna­mento vengono erogati ogni bimestre, mentre l'isti­tuto va pagato in anticipo all'inizio di ogni mese e per noi, fatti i debiti conteggi, dobbiamo vivere in tre con appena un milione al mese.

Siamo al dicembre 1995; il Pezzini ci telefona, è urgente; la mamma è nuovamente ricaduta, era cia­notica e non si riprendeva più; le hanno praticato respirazione bocca a bocca e massaggio cardiaco anche sull'ambulanza e ora il medico dell'ospedale Gallino vuole vedere con urgenza un familiare.

Corriamo lì, al momento sembra avere superato la crisi, ma le sue condizioni generali peggiorano ulte­riormente.

Resta in ospedale nel reparto medicina per 10 giorni, dopodiché viene dimessa e riaccompagnata in ambulanza all'istituto dove le vengono praticate ancora delle flebo del costo di L. 75.000 cadauna, che ci verranno addebitate.

Curiosamente, quando il figlio si presenta per sal­dare l'ultima retta e chiede gli vengano defalcati i giorni di ricovero in ospedale, gli viene risposto che per contratto deve saldarli all'istituto comunque. Pertanto mentre la mamma era in ospedale, noi pagavamo la retta all'istituto privato.

Sono i primi giorni del 1996 e noi abbiamo pro­sciugato tutti i soldi.

La mamma è gravemente peggiorata e non è pen­sabile di riportarla a casa.

Pensiamo così di mettere in vendita la casa dove abitiamo, con la promessa che appena abbiamo i soldi saldiamo il debito.

II figlio lo propone al titolare dell'istituto Pezzini il quale accetta l'accordo verbale.

Ci rivolgiamo all'agenzia Principe cui diamo il mandato e iniziano le visite di numerose persone. Nel frattempo, un collega del figlio scrive una let­tera al sindaco Sansa attraverso il sindacato e lo stesso, dopo preziosi mesi di silenzio, risponde di rivolgersi al CAD di zona e di ripresentare la doman­da.

Si tenta anche con la sede del CAD di Via Bertani, ma la risposta è sempre la stessa: negativa.

Siamo ad aprile del 1996; l'istituto Pezzini invia una lettera dove annuncia un aumento netto di lire 1 milione mensile, il che equivale a portare la retta a 2.800.000, più le spese.

Non vorremmo accettare, ma è impossibile toglie­re la mamma dall'istituto altrimenti lo stesso avvia le pratiche legali. Inoltre, sfortunatamente, sia il figlio che il nipote necessitano di un ricovero in ospedale e la situazione dell'ammalata in casa sarebbe inso­stenibile.

Per fare una parentesi precisiamo che la mamma al momento ha una grossa ernia con sventramento per la quale il medico dell'istituto ogni giorno si ado­pera a farla rientrare manualmente: sottoporla ad un intervento, sarebbe fatale per lei.

La situazione è sempre più difficile: non riusciamo a vendere la casa (non è il momento, il mattone non conviene più); la mamma peggiora, i familiari sono in ospedale ed arriva una lettera dell'avvocato del Pezzini dove si minaccia il sequestro cautelativo dell'abitazione se non si paga.

Presi per la gola, ci rivolgiamo ad un'altra agenzia immobiliare: la "A.&C." di Rivarolo con l'accordo scritto che se la Principe vende l'immobile entro il 31 luglio '97 a loro nulla dobbiamo.

Lo stesso collega del sindacato si dà da fare e rie­sce ad intervenire nuovamente presso I'AMT perché venga aiutato il dipendente in gravi difficoltà. Si ottiene così un terzo prestito di 15.000.000 che com­porta una restituzione mensile di L. 350.000 sino al 2005.

Nel frattempo scriviamo al Presidente della Provincia Marta Vincenzi - è una mia ex compagna di scuola - per un aiuto. Solita risposta, rifate la domanda al CAD. Solita risposta del CAD: nega­tiva.

II 27 luglio 1996 si presenta una coppia disposta ad acquistare la casa ed il 7 agosto andiamo a fir­mare il contratto.

La proposta è particolare e le condizioni sono: tutti i soldi da un lato e chiavi e casa libera dall'altra, abbiamo tempo sino al 31 ottobre 1996. Prendere o lasciare.

Questo accordo non ci piace molto, ma non pos­siamo certo permetterci di rifiutarlo; e poi l'agente immobiliare ci consiglia di non lasciare scappare un'occasione che forse non si ripresenterà presto ed accettiamo.

Mio padre che abita l'alloggio di Fegino intestato a me, lo lascia a noi e va a vivere con una compagna; però l'appartamento è malandato, privo di riscalda­mento e ingombro di masserizie.

Con il prestito dell'AMT paghiamo due mesi al Pezzini e tutte le spese extra dei sei mesi prece­denti. Incominciamo i lavori di ristrutturazione del­l'appartamento di Fegino per poterlo abitare.

Per correttezza andiamo a rescindere il contratto con l'altra agenzia immobiliare la quale, inaspettata­mente, reclama un milione per le spese sostenute. Siamo costretti a pagare poiché il famigerato con­tratto della Principe è datato 7 agosto 1996. Nel frat­tempo l'avvocato di Pezzini ci comunica che vuole essere presente al rogito per poter prendersi subito il dovuto del suo cliente.

Arriviamo così al momento del rogito e con una scusa il compratore rimanda l'appuntamento. Anche il secondo ed il terzo appuntamento vanno deserti.

Le scuse sono credibili al momento; la grossa cifra di cui dispone è vincolata e la banca tarda a fare l'assegno; è costretto a chiedere un prestito per darci un acconto, ecc. Siamo sempre più inquieti: da un lato il trasloco mezzo pronto, dall'altro i lavori che vanno avanti con le relative spese, l'istituto che aspetta il denaro, la mamma che dovrebbe trovare una sistemazione non così onerosa, l'avvocato che minaccia e il compratore che ci tiene sul filo del rasoio.

Nel frattempo avevamo presentato comunque la domanda all'Istituto Brignole che è convenzionato

con l'USL (metà importo a carico dell'USL e metà a nostro carico): però la lista d'attesa è molto lunga. Per quanto riguarda la vendita, si scopre che l'ac­quirente è un pluri-protestato, un disonesto che vive di truffe e pure la sua compagna (non è la moglie) che ha firmato il contratto; ha l'abitudine di emettere assegni a vuoto, sono negativamente conosciuti nel mondo informatico delle banche e pure diffidati dal­l'emettere nuovi assegni.

Con l'agente immobiliare andiamo dall'avvocato del Pezzini portando la documentazione e chieden­do un consiglio, oltreché una proroga del sequestro.

Ci fa scrivere una lettera di richiesta danni che il mancato acquirente dovrebbe firmare, ma che natu­ralmente non firmerà, e ci promette di aspettare sino a fine gennaio 1997 per il sequestro.

In questo contesto veniamo contattati dal Brignole per il ricovero della mamma; si deve però pagare subito un deposito cauzionale di L. 1.890.000 più la retta di pari importo anticipata.

Noi non abbiamo più questa disponibilità, 'inoltre se togliamo la mamma dall'istituto Pezzini, questi dà il via all'azione legale; siamo costretti a temporizza­re e perdiamo così il prezioso posto in graduatoria.

Ci rivolgiamo a banche diverse, anche con l'aiuto dell'agente immobiliare, ma nessuno è disposto a prestarci più di 20 0 30 milioni (solo al Pezzini ne dobbiamo circa 30). Infine ci suggerisce di accende­re un'ipoteca sul mio alloggio di Fegino. Per stabili­re l'importo, è necessaria una perizia che costa Lire 475.000.

Siamo nuovamente costretti ad accettare, ma la cosa non ci piace, rischiamo di ritrovarci senza abi­tazione e di gonfiare ulteriormente i nostri debiti.

Questa ipoteca non conviene affatto e non ci resta che svenderlo, rimettendoci i soldi dei lavori fatti. Con la prima caparra di 20 milioni diamo subito un acconto alla casa di riposo; un po' servono per l'i­draulico ed il rimanente per le nostre spese arretra­te (bollette, amministrazione, mutuo ed altro).

Per chiudere definitivamente il debito con il Pezzini, riprendiamo la mamma in casa e ribussia­mo alle porte del CAD per un aiuto. L'assistente sociale nel frattempo aveva ripresentato domanda per noi, essendo venuto a conoscenza della gravità della situazione; aveva pure promesso, in via del tutto eccezionale, un aiuto massiccio a domicilio. Ma siamo prossimi alle festività natalizie e non tro­viamo nessuno sino dopo la prima metà di gennaio! L'ammalata è in uno stato pietoso, non si regge in piedi, la si deve sollevare e farle tutto e sta pure male, ma i medici non ci sono e le guardie mediche fanno quello che possono e ci consigliano di farla ricoverare.

Proviamo a rivolgerci alla Caritas e all'UDI e, pur trovando degli ascoltatori comprensibili, non scaturi­sce nulla. Ci viene fornito il numero telefonico di un centro di volontariato che dovrebbe operare in zona, ma quando lo contattiamo ci rispondono che le pre­stazioni vanno pagate o dal CAD o dal privato che ne fa richiesta.

Ritelefoniamo al Brignole, poiché dovremmo pure sbrigare tutti i passi per la questione della casa e le pratiche per l'ammalata e non possiamo neppure uscire di casa lasciandola sola.

Fortunatamente il Brignole accetta la domanda a suo tempo presentata e a fine gennaio 1997 la mamma viene ricoverata. Purtroppo il 17 marzo 1997 ha un blocco intestinale, viene portata all'o­spedale Galliera dove tentano un intervento dispe­rato, ma dopo una settimana muore.

Pochi giorni dopo arriva la risposta negativa del Comune, la sua domanda non può essere accolta. L'assistente sociale ci aveva già informato una settimana prima dicendo che la risposta si articola­va così: «l'anziana è titolare della pensione più l'ac­compagnamento, la differenza la può tranquillamen­te pagare il figlio» e quindi la richiesta viene respin­ta.

In conclusione, abbiamo sostenuto spese per rico­veri per un totale di Lire 91.710.000, richiesto presti­ti per 41.000.000 che diventano 56.000.000 con gli interessi. Inoltre abbiamo dovuto versare per la mancata vendita lire 24.635.000.

Sommando tutto abbiamo pagato (in parte stiamo ancora pagando) lire 172.345.000 contro una pen­sione + accompagnamento di lire 69.450.000. La differenza interamente a nostro carico è di L. 102.895.000.

 

 

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