Prospettive assistenziali, n. 117, gennaio-marzo 1997

 

 

UN PROGETTO DI SOLIDARIETÀ A DISTANZA IN BRASILE: UNA SPERANZA E UN'INDICAZIONE DI LAVORO

 

EMILIA DE RIENZO - CLAUDIA DE FIGUEIREDO

 

 

Siamo arrivate a Teofilo Otoni in Brasile il 9 lu­glio dell'altro anno. Andavamo a trovare Padre Giovanni e il gruppo con cui lavora da più di vent'anni.

Teofilo Otoni è una cittadina fondata dal nipo­te di un genovese nel 1852 e si trova nello Stato di Minas Gerais al centro di una vasta zona colli­nare, un tempo ricoperta di boschi e foreste in cui vivevano tribù di Indios. Fino a qualche anno fa la terra di questa zona non aveva valore com­merciale e coloro che la coltivavano non ne ave­vano il titolo di proprietà: era sufficiente e rico­nosciuto il diritto di "posse": la terra è di chi la disbosca e la lavora: i posseiros sono appunto i contadini che coltivano la terra in base a questo diritto.

Ma nel 1940 entrò in vigore la legge che ob­bligava a registrare al catasto le proprietà terrie­re: chi da dieci anni la lavorava poteva chieder­ne il titolo di proprietà, ma doveva pagare un to­pografo per tracciarne il disegno e un notaio per farla rubricare.

Molti contadini per analfabetismo, per l'isola­mento in cui vivevano, per mancanza di denaro non hanno fatto registrare le loro proprietà e an­che coloro che volevano farlo, erano sottoposti a pressioni, intimidazioni, distruzione di raccolti, minacce di morte, finché decisero di vendere il loro titolo per un prezzo irrisorio e se ne andaro­no. Pochi riuscirono a far valere i loro diritti per­ché la giustizia era lentissima e spesso conni­vente con i più potenti. Anche gli avvocati che assunsero la difesa dei posseiros e dei piccoli proprietari vennero minacciati di morte.

Le grandi proprietà vennero circondate con il filo spinato e in esse venne immesso il bestiame allo stato brado. Braccianti in questa situazione non ne servivano più. Gli ex contadini furono co­stretti a partire con la famiglia e andarono ad in­grossare le enormi "favelas" della città.

Teofilo Otoni, il capoluogo, nel 1950 aveva 36.000 abitanti mentre 100.000 abitavano nella campagna; nel 1980 le proporzioni si erano già rovesciate: solo più trentamila nelle campagne e centomila in città. Oggi Teofilo Otoni ha circa 150.000 abitanti.

La quasi totalità di queste persone è arrivata a Teofilo in condizioni di assoluta povertà, non vi ha trovato un lavoro perché la città è pratica­mente priva di industrie, non vi ha trovato casa perché l'edilizia non si sviluppa se non c'è chi può pagare un affitto o comprare.

Chi non emigra di nuovo deve adattarsi a vive­re di lavoretti e di espedienti. Settantamila per­sone vivono nelle favelas della città, in tutto 25. La casa viene costruita da loro stessi, con mat­toni di terra cruda, senza fondamenta, sui ripidi fianchi della collina. Si tratta in genere di un pic­colo vano che ospita l'intera famiglia. Chi non riesce a costruire o non trova da affittare cerca di farsi almeno una baracca con i materiali più vari reperiti nelle discariche. Luce ed acqua so­no state ottenute in alcune favelas solo recente­mente; le fognature, invece, non esistono.

Nel nucleo familiare a volte manca il marito, ma i bambini sono sempre tanti. Malattie fisiche e mentali, minori abbandonati, violenza e delin­quenza, prostituzione sono la "norma" in queste condizioni.

II destino di questa gente sembra ineluttabile. In attesa di incontrare padre Giovanni, Soares ci ha accompagnate a visitare una delle favelas. Soares è una ragazza molto giovane che lavora nella "casa do adolescente". È una ragazza mol­to dolce, piena di entusiasmo. Le chiedo: «Ti pia­ce il lavoro che fai?», «Moltissimo», risponde e i suoi occhi brillano. «Potermi occupare di questi bambini e di questa gente è una gran gioia».

Abbiamo camminato per le strade fangose di quel quartiere così povero. Ho visto una miriade di bambini correre scalzi dietro ai loro aquiloni. Sembravano felici. Abbiamo guardato in su: nel cielo azzurro sembravano guizzare uccelli colo­rati di carta. Volavano in cielo sempre più in alto legati a fili invisibili manovrati da quegli stessi bambini: forse, chissà, mandavano in cielo i loro sogni, speravano che lassù qualcuno li avrebbe realizzati. Soares ci parlava man mano di ogni bambino che incontravamo, ce li presentava.

«I loro sogni - ci diceva - sono semplici, chie­dono di poter un giorno trovare un lavoro e di far star bene tutta la famiglia, qualcuno vuole diven­tare pompiere, qualcuno poliziotto. Non vogliono automobili, giocattoli costosi, computer o video­giochi: vogliono solo qualcosa che permetta a lo­ro e alla loro famiglia di vivere». I loro sogni sono semplici, ma le loro vite molto sofferte. Soares ci parla di Juliana, una bambina che non ha un pa­dre, la mamma lavora e lei deve andare ad aiu­tare una sorella più grande affetta da paralisi in­fantile che ha due figli che non riesce a gestire da sola. Altri tre bambini hanno una mamma che beve e li picchia. La mamma ha 25 anni e ha già due nipoti. Altri quattro bambini hanno perso papà e nonno, la mamma se n'è andata e sono rimasti con la nonna di 79 anni malata che prov­vede a loro come può con la pensione del non­no e i ragazzi finiscono col vivere sulla strada... «Dietro a questi bambini - continua Soares - ci sono tante storie tristi, a volte drammatiche ma alcuni, se seguiti, ce l'hanno fatta, altri ci stanno provando... Noi lavoriamo per aiutarli a costruirsi una vita dignitosa, perché non finiscano nella strada, ma nello stesso tempo non siano costretti a vivere in un istituto che non è certo un posto adatto ai bambini. Cerchiamo, dove è possibile, di sostenere le famiglie. Molte madri ci stanno seguendo, sono molto più le donne a risollevarsi, con gli uomini è difficile».

lo rimango a guardare quei bambini che cor­rono per le strade, li sento ridere, le loro voci ri­suonano nelle mie orecchie come un canto con­tinuo di allegria; la stessa gioia io non la sento nelle strade delle nostre città.

I bambini, mentre cammino, mi circondano, mi chiedono una fotografia, si mettono in posa: io gliela scatto. La fila dietro di me si fa sempre più lunga: mi portano i loro fratellini, i loro cuginetti, i loro amici: tutti vogliono una foto, io li acconten­to.

Non posso credere che proprio loro possano avere un destino tristemente segnato. Non pos­so credere, non voglio credere che molti di loro, quando saranno solo un pochino più grandi po­trebbero finire a vivere sulla strada. Ma cosa serve tornare a casa se non c'è da mangiare, da genitori che la disoccupazione e la miseria han­no distrutto come persone?

Sulla strada c'è "il gruppo dei coetanei" che li accoglie e che diventa la loro famiglia. Sulla strada credono di trovare la "libertà". Una libertà che pagano a caro prezzo, dormendo sotto i ponti, soffrendo la fame. Tra le ragazze alcune vengono stuprate da uomini che vivono anch'essi ai margini della società.

C'è Tiziana che, nell'anno che è vissuta come volontaria in Brasile, si è occupata di loro, ha cercato di capirli, di aiutarli. È lei che ci racconta alcune delle loro storie e lei che ci porta a cono­scerli. Li troviamo che dormono sotto un ponte, su materassi vecchi, nell'umido della notte. Dalle coperte vengono fuori ragazze e ragazzi col vol­to assonnato e stanco. Una di loro è incinta.

Questi sono i bambini che gli squadroni della morte ammazzano senza pietà. La polizia fa nei loro confronti azioni intimidatorie, li prende alla mattina e li tiene in prigione fino alla sera. Alcuni ragazzi che abbiamo incontrato ci hanno rac­contato che in quei giorni li avevano presi, messi nudi, spruzzati con una gomma, lasciati per ter­ra al bagnato fino alla sera in un locale buio con una latta dove potevano fare i loro bisogni. Mar­co, il giorno prima della festa della mamma, è stato portato in un posto isolato, è stato imbava­gliato, gli hanno legato le braccia, poi lo hanno picchiato col manganello soprattutto ai reni. Due poliziotti hanno stuprato una bambina di 12 anni e una di 15 anni. Storie di vita quotidiana.

Non fa strano quindi che quando li saluti e dici loro «A domani», ti rispondano: «Domani? non so neanche se ci sarò ancora domani; forse sarò morto sulla strada». La vita per loro è vivere gior­no per giorno, senza progetti, senza futuro. Fan­no gli sbruffoni, i grandi e i loro occhi sono duri quando non ti conoscono e ti guardano con dif­fidenza. Ma, quando capiscono che vorresti aiu­tarli, fare qualcosa per loro, l'aria aggressiva, che li accompagna nelle loro scorribande, li ab­bandona e lascia il posto agli occhi del bambino che è disperato e non spera più che possa suc­cedere qualcosa di buono per lui. Padre Giovan­ni e il suo gruppo lavorano proprio per impedire che i bambini possano finire in quel modo. «Se arrivano a questi livelli - ci dice - purtroppo re­sta molto poco da fare per loro, almeno è molto, molto più difficile».

Incontriamo Padre Giovanni, Fernanda e Flo­riano, una coppia che vive lì da un anno. Ci dan­no ospitalità e subito ci troviamo come in fami­glia. Si sta bene con loro. La loro operosità fa bene all'anima. Qualcuno crede ancora che si possa, che si debba fare qualcosa.

Padre Giovanni ci dice che qualcosa c'è sem­pre da fare, ma la cosa che è più importante è la prevenzione. E quei bambini che correvano lun­go le strade dietro ai loro aquiloni sono gli stessi per cui lottano Padre Giovanni ed il suo gruppo. Sono un piccolo, forse insignificante gruppo in proporzione alla grandezza del problema in Bra­sile come in altre parti del mondo. Ma possono diventare una bandiera dietro cui lavorare per testimoniare coi fatti che "inevitabile" è una pa­rola comoda dietro cui coprirsi per mantenere i propri privilegi.

Mentre stiamo scrivendo abbiamo davanti a noi le fotografie di quel giorno. Gli sguardi, i sor­risi di quei bambini mi fanno tornare a quei gior­ni passati lì con nostalgia. Non sono numeri, so­no volti, bambini, persone; come non fare qual­cosa per loro? Cosa hanno di diverso dai nostri bambini, dai nostri figli? E allora perché?

Oggi ci sembra impossibile credere che una volta la schiavitù esistesse e fosse accettata. Come possiamo allora tranquillamente accetta­re che i tre quarti della popolazione viva in con­dizioni di estrema miseria e che molti muoiano di fame o di malattie? Come riusciamo tranquil­lamente a sopportare che dei bambini e degli adulti vivano nel lusso più sfrenato e altri nella miseria più terribile? Quanto ancora dovrà passare? Quanti bambini morranno aspettando quel giorno? Se questo pensiero diventerà in­sopportabile per le nostre coscienze, se non riusciremo più a smettere di pensare a tutti quei bambini che muoiono di fame, che non hanno casa, a cui non possiamo promettere un futuro, forse allora la parola giustizia acquisterà final­mente un significato e si trasformerà in atti con­creti. Forse potremo vivere in un mondo dove come dice Canetti: «Ognuno, ma proprio ognu­no, è il centro del mondo, e il mondo è prezioso poiché è pieno di tali centri. Questo è il senso della parola uomo: ognuno in centro a fianco di innumerevoli altri i quali lo sono quanto lui» (1).

È utopia credere di poter combattere un feno­meno di portata così grande? non lo sappiamo; sappiamo solo che qualcuno lo sta facendo, ci sta provando. «Il nostro programma - ci dice Pa­dre Giovanni, quando lo incontriamo - è lavora­re concretamente con questa gente, agire, fare qualcosa, ma nello stesso tempo non lasciare in pace chi gestisce il potere. E allora insistiamo, tormentiamo, rivendichiamo, non permettiamo nel nostro piccolo che il discorso cada... C'è la Costituzione che a proposito dei bambini in Bra­sile parla chiaro e lo statuto "de crianga e adole­scente". Noi lavoriamo perché sia rispettata nei fatti, perché le parole si traducano in atti concre­ti».

Padre Giovanni da anni lotta contro I’impossi­bile. «Mi sembra di essere sempre in bilico - ci dice - oggi potremmo vincere o essere definiti­vamente sconfitti». Quello che è chiaro è che lui non vuole mollare.

In questi anni, infatti, con i suoi collaboratori ha creato attività che forse non avrebbe mai im­maginato di realizzare. Ha messo in piedi una struttura ed un progetto di intervento sui minori utilizzando aiuti internazionali, molti italiani, di persone che hanno condiviso e sostenuto l'ini­ziativa. Nello stesso tempo si è battuto, perché lo Stato riconoscesse l'iniziativa e se ne faces­se, almeno in parte, carico. In questa lotta è sta­to aiutato dalla direttrice della scuola elementa­re. Infatti l'attuale personale che porta avanti la "casa do adolescente" e la manutenzione della casa stessa sono pagati dallo Stato. Ma la lotta per sensibilizzare l'opinione pubblica e solleci­tare l'intervento pubblico è costante e continua nel tempo: «L'intervento dei privati - continua Padre Giovanni - deve essere uno stimolo, non sostituirsi allo Stato, non essere un mero atto di carità, ma un'affermazione di diritti. Nello stesso tempo bisogna agire, perché qui la gente ha bi­sogno di aiuto. Bisogna dimostrare che è possi­bile...».

Il loro lavoro attualmente si svolge lungo due direttive:

1) II primo progetto è "a casa do adolescente" che si colloca nel contesto internazionalmente noto del "menor abandonado" o "menor em si­tuaqao de risco" dell'intero Stato del Brasile. L'obiettivo principale di questo progetto è pre­venire l'emarginazione sociale, l'abbandono precoce della scuola, della famiglia e l'avvio alla strada degli adolescenti. I destinatari sono i bambini in età scolare della città di Teofilo Otoni. Nel 1993, grazie ai contributi del progetto di "so­lidarietà a distanza", è iniziata la costruzione di un edificio nuovo adatto, attualmente, ad acco­gliere durante il giorno 520 ragazzi. La "casa do adolescente" oggi pienamente funzionante è di 4 piani, molto ampia e suddivisa in aule e labora­tori. I ragazzi che hanno frequentato la casa so­no più di 1000 con punte massime, in alcuni pe­riodi dell'anno, di 500. Sono stati fatti grandi progressi se si pensa che all'inizio si era comin­ciato con 84 ragazzi e 12 insegnanti e si è at­tualmente passati a 500 ragazzi e 36 insegnanti.

«Siamo riusciti a farci finanziare il progetto di attivazione della casa dallo Stato del Brasile at­traverso la "Secreteria Estadual da Educapao", dal governo locale (Prefettura) e da alcuni piani governativi degli enti sociali per i "menores em situarao de risco". Attualmente insegnanti e ma­nutenzione della casa sono finanziati dallo Stato».

Tali finanziamenti però non sono sufficienti e si deve quindi ricorrere ai contributi economici di gruppi di solidarietà internazionali e ai proget­ti di "solidarietà a distanza", sia per la realizza­zione della struttura che per sostenere il lavoro del personale impiegato.

II bambino, nella "casa do adolescente" vive un'esperienza che non è scolastica e nemmeno proprio lavorativa, è un'esperienza educativa che vuole promuovere una crescita a livello umano di relazione.

«Lo scopo - dice Padre Giovanni - di quest'attività è quello di allontanare i bambini dalla strada, abituarli agli orari e al lavoro. Qui imparano a prendersi degli impegni, a comincia­re un lavoro e a finirlo. Quando abbiamo iniziato è stato molto difficile dare loro delle regole. l bambini non erano abituati ai locali grandi, corre­vano, rompevano tutto. Erano molto incuriositi dagli interruttori della luce perché nella maggio­ranza delle loro abitazioni manca la corrente elettrica. Accendevano e spegnevano gli interrut­tori che naturalmente erano sempre rotti. Abbia­mo allora inserito attività di sfogo come il calcio e la ginnastica alternati a momenti di studio. La grande tattica pedagogica è l'affetto. Tra loro il comportamento violento è normale, è normale la provocazione: non bisogna lasciarsi spaventare e bisogna accostarli prendendoli dal lato affetti­vo. Una volta ho fatto un'esperienza bellissima. Ho sentito gridare: due ragazzi stavano bistic­ciando, uno di loro brandiva un coltello. Confes­so di aver avuto paura. Ho preso il primo che so­no riuscito ad acchiappare, gli ho dato una ca­rezza sulla faccia, poi l'ho abbracciato. Si è fatto un grande silenzio ed allora me lo sono portato via. Lui continuava a dire l'ammazzo, l'ammazzo, ma in realtà la lite era finita, lui si lasciava andare tra le mie braccia».

«Il nostro è un lavoro di prevenzione. Nel perio­do libero della scuola i bambini si spostano dalla periferia verso il centro per cercare piccoli lavori. Lì lavano le macchine, portano le borse della spesa, lavano, lustrano le scarpe. Rimanendo lontani da casa, quando sopraggiunge la sera ca­pita che per paura ci si fermi nel centro della città e pian pianino la strada diventi la loro casa. Di fatto il venerdì le presenze diminuiscono del 50% perché c'è i! mercato e i bambini ci vanno per cercare di racimolare un po' di soldi per la fami­glia. Noi cerchiamo di occuparli qua, di dar loro pian piano delle prospettive e di lottare nello stesso tempo con il governo perché si prenda cura della situazione, non la dimentichi. Il lavoro più duro è convincere le famiglie a mandare i lo­ro figli, perché i bambini possono rendere di più se vanno a fare piccoli lavori o a chiedere l'ele­mosina».

2) L'altro progetto è I'APJ (Imparare e produr­re insieme), una scuola professionale con carat­teristiche particolari che si occupa della forma­zione lavoro.

Scopi di questo progetto sono:

- unificare il processo di apprendimento con la comunità di quartiere e della città, facendo particolare attenzione alle professioni che ri­spondono alla domanda locale. In questo modo si vuole unificare il processo di apprendimento con quello produttivo;

- corresponsabilizzare tutti i membri dell'APJ, prendendo in modo democratico e collettivo tut­te le decisioni e farli partecipare ai benefici finan­ziari. II fine ultimo é quello di trasformare la strut­tura attuale in una vera e propria cooperativa.

II progetto è iniziato nel 1984; i settori attual­mente funzionanti sono 12: la falegnameria, la lavorazione della pietra, la meccanica automobi­listica, la meccanica industriale, la sartoria, la carrozzeria, la carpenteria, la bigiotteria, l'arti­gianato della pietra, la maglieria, la serigrafia e la confetteria. Tutti i laboratori sono gestiti da gio­vani al di sopra dei 15 anni e rivolti principal­mente ai ragazzi che hanno già frequentato la "Casa do adolescente".

Speriamo quindi, prendendoli fin da piccoli di costruire insieme a loro un progetto che sfoci in un vero e proprio lavoro.

«Noi chiediamo aiuto. Ne abbiamo bisogno per sostenere queste iniziative. Abbiamo cominciato anche noi parlando di "adozione a distanza" ; ma sinceramente non ci sembra il termine giusto. Ci sembra più giusto denominarla "solidarietà a di­stanza". Il termine "adozione" creava rapporti ambigui. Facendo questa esperienza abbiamo ri­cevuto lettere molto ambigue, si parlava al bam­bino scelto come ad un vero figlio: questo era creare rapporti falsi che non facevano bene né agli uni né agli altri. Alcuni bambini ricevevano regali, lettere, altri nulla e questo non faceva che provocare maggiore sofferenza. Sappiamo che la gente desidera sapere chi veramente aiuta, che ha bisogno di riferimenti concreti. Noi siamo disponibili a dare periodicamente conto di quello che stiamo realizzando.

«Noi vogliamo portare avanti il progetto de­scritto prima, abbiamo incontrato e incontreremo ancora molte difficoltà. Lavoriamo con tutti i bambini con cui riusciamo, cerchiamo di costrui­re una loro autonomia. Qualcuno rimane, qualcu­no se ne va. A volte qualcuno ci chiede di andare al bagno e sparisce per molto tempo. Altri, inve­ce, capiscono, si affezionano a chi li segue tutti i giorni, e rimangono. Ma siamo una realtà stabile, molti genitori hanno capito e ci mandano volen­tieri i loro figli, collaborano con noi. Se un bambi­no manca per un po' di giorni, Soares va a trova­re la famiglia, chiede loro il motivo dell'assenza dei loro figli, ascolta i loro problemi, li aiuta ad af­frontarli e molti tornano.

«Non è facile creare una coscienza politica a chi è dentro un pozzo e non sa come uscirne. Ed allora bisogna buttare giù una corda, ma sono poi loro che devono arrampicarsi. Alcune cose bisogna darle gratuitamente, ma senza creare di­pendenza. E qui sono le donne che sono un grande potenziale. Molte di loro lottano per la so­pravvivenza dei loro figli. Anche se sono in una situazione miserabile, cercano sempre di risor­gere, sono le mamme, le zie, le nonne, tutte in­sieme».

Possiamo ancora vivere in pace in un mondo che sembra quasi dichiarare "superflui" tutti quegli individui che non sono utili al "funziona­mento economico" della nostra società? Solo quando non esisterà più una società che dichia­ri "superflui" altri individui, solo allora potremmo dire che c'è veramente democrazia. Fino a quel giorno dobbiamo denunciare, come dice Hans Magnus Enzensberger, che il crimine organizza­to di Stato è ancora all'ordine del giorno. Non ha più un nome specifico. Non è più ordinato né da un dittatore né da un partito ma da un soggetto anonimo chiamato "mercato mondiale" che decide chi è "utile" e chi o non lo è mai stato o non lo è più. Non si uccide più, ma si fa in mo­do che, chi non serve più, sia messo ai margini e lo si lascia morire. È il mercato a decidere della tua sorte, quel mercato che, come dice lo scrit­tore portoghese Josè Saramago: «Oggi è lo stru­mento per eccellenza del vero, unico indiscutibi­le potere, il potere finanziario mondiale, quello che non è democratico perché non è stato eletto dal popolo, che infine non è democratico perché non ha come scopo la felicità del popolo» (2).

E il mondo, in generale, non sta andando, co­me molti credevano, verso una crescente unità e omogeneità di condizioni di vita, ma verso una sempre maggiore frammentazione e stratifica­zione. Fino agli anni '70 l'espansione dell'econo­mia produceva miglioramenti fino a raggiungere i livelli più bassi della scala sociale. Oggi, se l'economia entra in una fase espansiva, a go­derne i vantaggi sono solo gli strati più ricchi della popolazione: «Il risultato netto - dice Anto­nio Gambino - è, quindi, una continua margina­lizzazione - economica, ma anche sociale, in prospettiva anche politica - dei gruppi economi­camente più deboli» (3).

Questo è quanto sta succedendo in tutto il mondo, ma è più visibile in Brasile soprattutto nelle grandi città come San Paolo e Rio de Ja­neiro dove vicino alle favelas puoi scorgere grattacieli degni di New York, dove dietro grandi muraglioni si nascondono i quartieri dei ricchi difesi come roccaforti contro la delinquenza or­ganizzata che trova la sua manodopera là dove esiste la fame e la disperazione.

Non possiamo credere che ormai non ci sia più niente da fare. Per lo meno non ci interessa metterci in questa dimensione. Vogliamo crede­re che almeno sia giusto tentare, lottare per un mondo dove ogni uomo si faccia carico degli al­tri uomini, dove esista davvero la democrazia e non è lecito parlare di democrazia come dice Saramago: «senza l'attuazione rigorosa di un precetto fondamentale della vita comunitaria, quello per il quale tutti i cittadini sono uguali da­vanti alla legge; senza il riconoscimento, non sol­tanto formale, ma verificabile nei fatti, che i van­taggi e i miglioramenti sociali, senza esclusione di alcuna componente di natura strutturale, eco­nomica e culturale (...). Perché la democrazia o è totale, o non è democrazia».

Per questo diciamo grazie a Padre Giovanni, a Soares, a Fernanda, a Floriano, a Tiziana, a tutti quelli che abbiamo incontrato in quei giorni che ci hanno fatto credere che sia possibile e giusto combattere, aiutare chi lo fa. E come è stata un'esperienza bellissima vedere lavorare italiani e brasiliani, così lontani come mentalità e mondi di appartenenza, così sarà bello vedere partire dall'Italia aiuti per sostenere chi in Brasile non solo sta lottando per dar vita a iniziative molto significative, ma che nello stesso tempo sta lot­tando perché lo Stato si faccia carico di quei problemi. Quella del gruppo di Padre Giovanni non è un'opera solo di carità, ma un lavoro an­che politico per cambiare una società che emargina i più deboli.

A tutti quelli che la vogliono sostenere si pre­ga di indirizzare i loro contributi a Lisa Giovanni, c.c. n. 12/4921 Istituto Bancario S. Paolo, Savi­gliano (CN).

Chi volesse poi comunicare direttamente con Padre Giovanni Lisa può scrivere in Rua Ame­deo Onofre 205, Teofilo Otoni, 39800, tel e fax 033-5213483.

 

 

(1) Elias Canetti, La provincia dell'uomo, Tascabili Bom­piani, Milano, 1978.

(2) Cfr. Josè Saramago, L'illusione democratica, in Micro Mega, 2/93.

(3) Antonio Gambino, Il ritorno della diseguaglianza, in Il Mulino, luglio-agosto 1995.

 

 

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