UN PROGETTO DI SOLIDARIETÀ A DISTANZA IN BRASILE: UNA
SPERANZA E UN'INDICAZIONE DI LAVORO
EMILIA DE RIENZO -
CLAUDIA DE FIGUEIREDO
Siamo arrivate a Teofilo Otoni in
Brasile il 9 luglio dell'altro anno. Andavamo a trovare Padre Giovanni e il
gruppo con cui lavora da più di vent'anni.
Teofilo Otoni è una cittadina
fondata dal nipote di un genovese nel 1852 e si trova nello Stato di Minas
Gerais al centro di una vasta zona collinare, un tempo ricoperta di boschi e
foreste in cui vivevano tribù di Indios. Fino a qualche anno fa la terra di
questa zona non aveva valore commerciale e coloro che la coltivavano non ne
avevano il titolo di proprietà: era sufficiente e riconosciuto il diritto di
"posse": la terra è di chi la disbosca e la lavora: i posseiros sono
appunto i contadini che coltivano la terra in base a questo diritto.
Ma nel 1940 entrò in vigore la legge
che obbligava a registrare al catasto le proprietà terriere: chi da dieci
anni la lavorava poteva chiederne il titolo di proprietà, ma doveva pagare un
topografo per tracciarne il disegno e un notaio per farla rubricare.
Molti contadini per analfabetismo,
per l'isolamento in cui vivevano, per mancanza di denaro non hanno fatto
registrare le loro proprietà e anche coloro che volevano farlo, erano
sottoposti a pressioni, intimidazioni, distruzione di raccolti, minacce di
morte, finché decisero di vendere il loro titolo per un prezzo irrisorio e se
ne andarono. Pochi riuscirono a far valere i loro diritti perché la giustizia
era lentissima e spesso connivente con i più potenti. Anche gli avvocati che
assunsero la difesa dei posseiros e dei piccoli proprietari vennero minacciati
di morte.
Le grandi proprietà vennero
circondate con il filo spinato e in esse venne immesso il bestiame allo stato
brado. Braccianti in questa situazione non ne servivano più. Gli ex contadini
furono costretti a partire con la famiglia e andarono ad ingrossare le enormi
"favelas" della città.
Teofilo Otoni, il capoluogo, nel
1950 aveva 36.000 abitanti mentre 100.000 abitavano nella campagna; nel 1980 le
proporzioni si erano già rovesciate: solo più trentamila nelle campagne e
centomila in città. Oggi Teofilo Otoni ha circa 150.000 abitanti.
La quasi totalità di queste persone
è arrivata a Teofilo in condizioni di assoluta povertà, non vi ha trovato un
lavoro perché la città è praticamente priva di industrie, non vi ha trovato
casa perché l'edilizia non si sviluppa se non c'è chi può pagare un affitto o
comprare.
Chi non emigra di nuovo deve
adattarsi a vivere di lavoretti e di espedienti. Settantamila persone vivono
nelle favelas della città, in tutto 25. La casa viene costruita da loro stessi,
con mattoni di terra cruda, senza fondamenta, sui ripidi fianchi della
collina. Si tratta in genere di un piccolo vano che ospita l'intera famiglia.
Chi non riesce a costruire o non trova da affittare cerca di farsi almeno una
baracca con i materiali più vari reperiti nelle discariche. Luce ed acqua sono
state ottenute in alcune favelas solo recentemente; le fognature, invece, non
esistono.
Nel nucleo familiare a volte manca
il marito, ma i bambini sono sempre tanti. Malattie fisiche e mentali, minori
abbandonati, violenza e delinquenza, prostituzione sono la "norma"
in queste condizioni.
II destino di questa gente sembra
ineluttabile. In attesa di incontrare padre Giovanni, Soares ci ha accompagnate
a visitare una delle favelas. Soares è una ragazza molto giovane che lavora
nella "casa do adolescente". È
una ragazza molto dolce, piena di entusiasmo. Le chiedo: «Ti piace il lavoro
che fai?», «Moltissimo», risponde e i suoi occhi brillano. «Potermi occupare di
questi bambini e di questa gente è una gran gioia».
Abbiamo camminato per le strade
fangose di quel quartiere così povero. Ho visto una miriade di bambini correre
scalzi dietro ai loro aquiloni. Sembravano felici. Abbiamo guardato in su: nel
cielo azzurro sembravano guizzare uccelli colorati di carta. Volavano in cielo
sempre più in alto legati a fili invisibili manovrati da quegli stessi bambini:
forse, chissà, mandavano in cielo i loro sogni, speravano che lassù qualcuno li
avrebbe realizzati. Soares ci parlava man mano di ogni bambino che
incontravamo, ce li presentava.
«I
loro sogni - ci
diceva - sono semplici, chiedono di
poter un giorno trovare un lavoro e di far star bene tutta la famiglia,
qualcuno vuole diventare pompiere, qualcuno poliziotto. Non vogliono
automobili, giocattoli costosi, computer o videogiochi: vogliono solo qualcosa
che permetta a loro e alla loro famiglia di vivere». I loro sogni sono
semplici, ma le loro vite molto sofferte. Soares ci parla di Juliana, una
bambina che non ha un padre, la mamma lavora e lei deve andare ad aiutare una
sorella più grande affetta da paralisi infantile che ha due figli che non
riesce a gestire da sola. Altri tre bambini hanno una mamma che beve e li
picchia. La mamma ha 25 anni e ha già due nipoti. Altri quattro bambini hanno
perso papà e nonno, la mamma se n'è andata e sono rimasti con la nonna di 79
anni malata che provvede a loro come può con la pensione del nonno e i
ragazzi finiscono col vivere sulla strada... «Dietro a questi bambini - continua Soares - ci sono tante storie
tristi, a volte drammatiche ma alcuni, se seguiti, ce l'hanno fatta, altri ci
stanno provando... Noi lavoriamo per aiutarli a costruirsi una vita dignitosa,
perché non finiscano nella strada, ma nello stesso tempo non siano costretti a
vivere in un istituto che non è certo un posto adatto ai bambini. Cerchiamo,
dove è possibile, di sostenere le famiglie. Molte madri ci stanno seguendo,
sono molto più le donne a risollevarsi, con gli uomini è difficile».
lo rimango a guardare quei bambini
che corrono per le strade, li sento ridere, le loro voci risuonano nelle mie
orecchie come un canto continuo di allegria; la stessa gioia io non la sento
nelle strade delle nostre città.
I bambini, mentre cammino, mi
circondano, mi chiedono una fotografia, si mettono in posa: io gliela scatto.
La fila dietro di me si fa sempre più lunga: mi portano i loro fratellini, i
loro cuginetti, i loro amici: tutti vogliono una foto, io li accontento.
Non posso credere che proprio loro
possano avere un destino tristemente segnato. Non posso credere, non voglio
credere che molti di loro, quando saranno solo un pochino più grandi potrebbero
finire a vivere sulla strada. Ma cosa serve tornare a casa se non c'è da
mangiare, da genitori che la disoccupazione e la miseria hanno distrutto come
persone?
Sulla strada c'è "il gruppo dei
coetanei" che li accoglie e che diventa la loro famiglia. Sulla strada
credono di trovare la "libertà". Una libertà che pagano a caro
prezzo, dormendo sotto i ponti, soffrendo la fame. Tra le ragazze alcune
vengono stuprate da uomini che vivono anch'essi ai margini della società.
C'è Tiziana che, nell'anno che è
vissuta come volontaria in Brasile, si è occupata di loro, ha cercato di
capirli, di aiutarli. È lei che ci racconta alcune delle loro storie e lei che
ci porta a conoscerli. Li troviamo che dormono sotto un ponte, su materassi
vecchi, nell'umido della notte. Dalle coperte vengono fuori ragazze e ragazzi
col volto assonnato e stanco. Una di loro è incinta.
Questi sono i bambini che gli
squadroni della morte ammazzano senza pietà. La polizia fa nei loro confronti
azioni intimidatorie, li prende alla mattina e li tiene in prigione fino alla
sera. Alcuni ragazzi che abbiamo incontrato ci hanno raccontato che in quei
giorni li avevano presi, messi nudi, spruzzati con una gomma, lasciati per terra
al bagnato fino alla sera in un locale buio con una latta dove potevano fare i
loro bisogni. Marco, il giorno prima della festa della mamma, è stato portato
in un posto isolato, è stato imbavagliato, gli hanno legato le braccia, poi lo
hanno picchiato col manganello soprattutto ai reni. Due poliziotti hanno
stuprato una bambina di 12 anni e una di 15 anni. Storie di vita quotidiana.
Non fa strano quindi che quando li
saluti e dici loro «A domani», ti
rispondano: «Domani? non so neanche se ci
sarò ancora domani; forse sarò morto sulla strada». La vita per loro è
vivere giorno per giorno, senza progetti, senza futuro. Fanno gli sbruffoni,
i grandi e i loro occhi sono duri quando non ti conoscono e ti guardano con diffidenza.
Ma, quando capiscono che vorresti aiutarli, fare qualcosa per loro, l'aria
aggressiva, che li accompagna nelle loro scorribande, li abbandona e lascia il
posto agli occhi del bambino che è disperato e non spera più che possa succedere
qualcosa di buono per lui. Padre Giovanni e il suo gruppo lavorano proprio per
impedire che i bambini possano finire in quel modo. «Se arrivano a questi livelli - ci dice - purtroppo resta molto poco da fare per loro, almeno è molto, molto
più difficile».
Incontriamo Padre Giovanni, Fernanda
e Floriano, una coppia che vive lì da un anno. Ci danno ospitalità e subito
ci troviamo come in famiglia. Si sta bene con loro. La loro operosità fa bene
all'anima. Qualcuno crede ancora che si possa, che si debba fare qualcosa.
Padre Giovanni ci dice che qualcosa
c'è sempre da fare, ma la cosa che è più importante è la prevenzione. E quei
bambini che correvano lungo le strade dietro ai loro aquiloni sono gli stessi
per cui lottano Padre Giovanni ed il suo gruppo. Sono un piccolo, forse
insignificante gruppo in proporzione alla grandezza del problema in Brasile
come in altre parti del mondo. Ma possono diventare una bandiera dietro cui
lavorare per testimoniare coi fatti che "inevitabile" è una parola
comoda dietro cui coprirsi per mantenere i propri privilegi.
Mentre stiamo scrivendo abbiamo
davanti a noi le fotografie di quel giorno. Gli sguardi, i sorrisi di quei
bambini mi fanno tornare a quei giorni passati lì con nostalgia. Non sono
numeri, sono volti, bambini, persone; come non fare qualcosa per loro? Cosa
hanno di diverso dai nostri bambini, dai nostri figli? E allora perché?
Oggi ci sembra impossibile credere
che una volta la schiavitù esistesse e fosse accettata. Come possiamo allora
tranquillamente accettare che i tre quarti della popolazione viva in condizioni
di estrema miseria e che molti muoiano di fame o di malattie? Come riusciamo
tranquillamente a sopportare che dei bambini e degli adulti vivano nel lusso
più sfrenato e altri nella miseria più terribile? Quanto ancora dovrà passare?
Quanti bambini morranno aspettando quel giorno? Se questo pensiero diventerà insopportabile
per le nostre coscienze, se non riusciremo più a smettere di pensare a tutti
quei bambini che muoiono di fame, che non hanno casa, a cui non possiamo
promettere un futuro, forse allora la parola giustizia acquisterà finalmente
un significato e si trasformerà in atti concreti. Forse potremo vivere in un
mondo dove come dice Canetti: «Ognuno, ma
proprio ognuno, è il centro del mondo, e il mondo è prezioso poiché è pieno di
tali centri. Questo è il senso della parola uomo: ognuno in centro a fianco di
innumerevoli altri i quali lo sono quanto lui» (1).
È utopia credere di poter combattere
un fenomeno di portata così grande? non lo sappiamo; sappiamo solo che
qualcuno lo sta facendo, ci sta provando. «Il
nostro programma - ci dice Padre Giovanni, quando lo incontriamo - è lavorare concretamente con questa
gente, agire, fare qualcosa, ma nello stesso tempo non lasciare in pace chi
gestisce il potere. E allora insistiamo, tormentiamo, rivendichiamo, non
permettiamo nel nostro piccolo che il discorso cada... C'è la Costituzione che
a proposito dei bambini in Brasile parla chiaro e lo statuto "de crianga
e adolescente". Noi lavoriamo perché sia rispettata nei fatti, perché le
parole si traducano in atti concreti».
Padre Giovanni da anni lotta contro
I’impossibile. «Mi sembra di essere
sempre in bilico - ci dice - oggi
potremmo vincere o essere definitivamente sconfitti». Quello che è chiaro
è che lui non vuole mollare.
In questi anni, infatti, con i suoi
collaboratori ha creato attività che forse non avrebbe mai immaginato di
realizzare. Ha messo in piedi una struttura ed un progetto di intervento sui
minori utilizzando aiuti internazionali, molti italiani, di persone che hanno
condiviso e sostenuto l'iniziativa. Nello stesso tempo si è battuto, perché lo
Stato riconoscesse l'iniziativa e se ne facesse, almeno in parte, carico. In
questa lotta è stato aiutato dalla direttrice della scuola elementare.
Infatti l'attuale personale che porta avanti la "casa do adolescente" e la manutenzione della casa stessa
sono pagati dallo Stato. Ma la lotta per sensibilizzare l'opinione pubblica e
sollecitare l'intervento pubblico è costante e continua nel tempo: «L'intervento dei privati - continua
Padre Giovanni - deve essere uno stimolo,
non sostituirsi allo Stato, non essere un mero atto di carità, ma
un'affermazione di diritti. Nello stesso tempo bisogna agire, perché qui la
gente ha bisogno di aiuto. Bisogna dimostrare che è possibile...».
Il loro lavoro attualmente si svolge lungo due direttive:
1) II primo progetto è "a casa
do adolescente" che si colloca nel contesto internazionalmente noto del "menor abandonado" o "menor em situaqao de risco"
dell'intero Stato del Brasile. L'obiettivo principale di questo progetto è prevenire
l'emarginazione sociale, l'abbandono precoce della scuola, della famiglia e
l'avvio alla strada degli adolescenti. I destinatari sono i bambini in età
scolare della città di Teofilo Otoni. Nel 1993, grazie ai contributi del
progetto di "solidarietà a distanza", è iniziata la costruzione di
un edificio nuovo adatto, attualmente, ad accogliere durante il giorno 520
ragazzi. La "casa do
adolescente" oggi pienamente funzionante è di 4 piani, molto ampia e
suddivisa in aule e laboratori. I ragazzi che hanno frequentato la casa sono
più di 1000 con punte massime, in alcuni periodi dell'anno, di 500. Sono stati
fatti grandi progressi se si pensa che all'inizio si era cominciato con 84
ragazzi e 12 insegnanti e si è attualmente passati a 500 ragazzi e 36
insegnanti.
«Siamo
riusciti a farci finanziare il progetto di attivazione della casa dallo Stato
del Brasile attraverso la "Secreteria Estadual da Educapao", dal governo locale (Prefettura) e da alcuni
piani governativi degli enti sociali per i "menores em situarao de
risco". Attualmente insegnanti e manutenzione
della casa sono finanziati dallo Stato».
Tali finanziamenti però non sono
sufficienti e si deve quindi ricorrere ai contributi economici di gruppi di
solidarietà internazionali e ai progetti di "solidarietà a
distanza", sia per la realizzazione della struttura che per sostenere il
lavoro del personale impiegato.
II bambino, nella "casa do adolescente" vive
un'esperienza che non è scolastica e nemmeno proprio lavorativa, è
un'esperienza educativa che vuole promuovere una crescita a livello umano di
relazione.
«Lo
scopo - dice Padre
Giovanni - di quest'attività è quello di
allontanare i bambini dalla strada, abituarli agli orari e al lavoro. Qui
imparano a prendersi degli impegni, a cominciare un lavoro e a finirlo. Quando
abbiamo iniziato è stato molto difficile dare loro delle regole. l bambini non
erano abituati ai locali grandi, correvano, rompevano tutto. Erano molto
incuriositi dagli interruttori della luce perché nella maggioranza delle loro
abitazioni manca la corrente elettrica. Accendevano e spegnevano gli interruttori
che naturalmente erano sempre rotti. Abbiamo allora inserito attività di sfogo
come il calcio e la ginnastica alternati a momenti di studio. La grande tattica
pedagogica è l'affetto. Tra loro il comportamento violento è normale, è normale
la provocazione: non bisogna lasciarsi spaventare e bisogna accostarli
prendendoli dal lato affettivo. Una volta ho fatto un'esperienza bellissima.
Ho sentito gridare: due ragazzi stavano bisticciando, uno di loro brandiva un
coltello. Confesso di aver avuto paura. Ho preso il primo che sono riuscito
ad acchiappare, gli ho dato una carezza sulla faccia, poi l'ho abbracciato. Si
è fatto un grande silenzio ed allora me lo sono portato via. Lui continuava a
dire l'ammazzo, l'ammazzo, ma in realtà la lite era finita, lui si lasciava
andare tra le mie braccia».
«Il
nostro è un lavoro di prevenzione. Nel periodo libero della scuola i bambini
si spostano dalla periferia verso il centro per cercare piccoli lavori. Lì
lavano le macchine, portano le borse della spesa, lavano, lustrano le scarpe.
Rimanendo lontani da casa, quando sopraggiunge la sera capita che per paura ci
si fermi nel centro della città e pian pianino la strada diventi la loro casa.
Di fatto il venerdì le presenze diminuiscono del 50% perché c'è i! mercato e i
bambini ci vanno per cercare di racimolare un po' di soldi per la famiglia.
Noi cerchiamo di occuparli qua, di dar loro pian piano delle prospettive e di
lottare nello stesso tempo con il governo perché si prenda cura della
situazione, non la dimentichi. Il lavoro più duro è convincere le famiglie a
mandare i loro figli, perché i bambini possono rendere di più se vanno a fare
piccoli lavori o a chiedere l'elemosina».
2) L'altro progetto è I'APJ
(Imparare e produrre insieme), una scuola professionale con caratteristiche
particolari che si occupa della formazione lavoro.
Scopi di
questo progetto sono:
- unificare il processo di
apprendimento con la comunità di quartiere e della città, facendo particolare attenzione
alle professioni che rispondono alla domanda locale. In questo modo si vuole
unificare il processo di apprendimento con quello produttivo;
- corresponsabilizzare tutti i
membri dell'APJ, prendendo in modo democratico e collettivo tutte le decisioni
e farli partecipare ai benefici finanziari. II fine ultimo é quello di
trasformare la struttura attuale in una vera e propria cooperativa.
II progetto è iniziato nel 1984; i
settori attualmente funzionanti sono 12: la falegnameria, la lavorazione della
pietra, la meccanica automobilistica, la meccanica industriale, la sartoria,
la carrozzeria, la carpenteria, la bigiotteria, l'artigianato della pietra, la
maglieria, la serigrafia e la confetteria. Tutti i laboratori sono gestiti da
giovani al di sopra dei 15 anni e rivolti principalmente ai ragazzi che hanno
già frequentato la "Casa do adolescente".
Speriamo
quindi, prendendoli fin da piccoli di costruire insieme a loro un progetto che
sfoci in un vero e proprio lavoro.
«Noi
chiediamo aiuto. Ne abbiamo bisogno per sostenere queste iniziative. Abbiamo
cominciato anche noi parlando di "adozione a distanza" ; ma
sinceramente non ci sembra il termine giusto. Ci sembra più giusto denominarla
"solidarietà a distanza". Il termine "adozione" creava
rapporti ambigui. Facendo questa esperienza abbiamo ricevuto lettere molto
ambigue, si parlava al bambino scelto come ad un vero figlio: questo era
creare rapporti falsi che non facevano bene né agli uni né agli altri. Alcuni
bambini ricevevano regali, lettere, altri nulla e questo non faceva che
provocare maggiore sofferenza. Sappiamo che la gente desidera sapere chi
veramente aiuta, che ha bisogno di riferimenti concreti. Noi siamo disponibili
a dare periodicamente conto di quello che stiamo realizzando.
«Noi
vogliamo portare avanti il progetto descritto prima, abbiamo incontrato e
incontreremo ancora molte difficoltà. Lavoriamo con tutti i bambini con cui
riusciamo, cerchiamo di costruire una loro autonomia. Qualcuno rimane, qualcuno
se ne va. A volte qualcuno ci chiede di andare al bagno e sparisce per molto
tempo. Altri, invece, capiscono, si affezionano a chi li segue tutti i giorni,
e rimangono. Ma siamo una realtà stabile, molti genitori hanno capito e ci
mandano volentieri i loro figli, collaborano con noi. Se un bambino manca per
un po' di giorni, Soares va a trovare la famiglia, chiede loro il motivo
dell'assenza dei loro figli, ascolta i loro problemi, li aiuta ad affrontarli
e molti tornano.
«Non
è facile creare una coscienza politica a chi è dentro un pozzo e non sa come
uscirne. Ed allora bisogna buttare giù una corda, ma sono poi loro che devono
arrampicarsi. Alcune cose bisogna darle gratuitamente, ma senza creare dipendenza.
E qui sono le donne che sono un grande potenziale. Molte di loro lottano per la
sopravvivenza dei loro figli. Anche se sono in una situazione miserabile,
cercano sempre di risorgere, sono le mamme, le zie, le nonne, tutte insieme».
Possiamo ancora vivere in pace in un
mondo che sembra quasi dichiarare "superflui" tutti quegli individui
che non sono utili al "funzionamento economico" della nostra
società? Solo quando non esisterà più una società che dichiari
"superflui" altri individui, solo allora potremmo dire che c'è
veramente democrazia. Fino a quel giorno dobbiamo denunciare, come dice Hans
Magnus Enzensberger, che il crimine organizzato di Stato è ancora all'ordine
del giorno. Non ha più un nome specifico. Non è più ordinato né da un dittatore
né da un partito ma da un soggetto anonimo chiamato "mercato mondiale"
che decide chi è "utile" e chi o non lo è mai stato o non lo è più.
Non si uccide più, ma si fa in modo che, chi non serve più, sia messo ai
margini e lo si lascia morire. È il mercato a decidere della tua sorte, quel
mercato che, come dice lo scrittore portoghese Josè Saramago: «Oggi è lo strumento
per eccellenza del vero, unico indiscutibile potere, il potere finanziario
mondiale, quello che non è democratico perché non è stato eletto dal popolo,
che infine non è democratico perché non ha come scopo la felicità del popolo»
(2).
E il mondo, in generale, non sta
andando, come molti credevano, verso una crescente unità e omogeneità di
condizioni di vita, ma verso una sempre maggiore frammentazione e stratificazione.
Fino agli anni '70 l'espansione dell'economia produceva miglioramenti fino a
raggiungere i livelli più bassi della scala sociale. Oggi, se l'economia entra
in una fase espansiva, a goderne i vantaggi sono solo gli strati più ricchi
della popolazione: «Il risultato netto -
dice Antonio Gambino - è, quindi, una continua marginalizzazione - economica,
ma anche sociale, in prospettiva anche politica - dei gruppi economicamente
più deboli» (3).
Questo è quanto sta succedendo in
tutto il mondo, ma è più visibile in Brasile soprattutto nelle grandi città
come San Paolo e Rio de Janeiro dove vicino alle favelas puoi scorgere
grattacieli degni di New York, dove dietro grandi muraglioni si nascondono i
quartieri dei ricchi difesi come roccaforti contro la delinquenza organizzata
che trova la sua manodopera là dove esiste la fame e la disperazione.
Non possiamo credere che ormai non ci sia più niente da fare.
Per lo meno non ci interessa metterci in questa dimensione. Vogliamo credere
che almeno sia giusto tentare, lottare per un mondo dove ogni uomo si faccia
carico degli altri uomini, dove esista davvero la democrazia e non è lecito
parlare di democrazia come dice Saramago: «senza
l'attuazione rigorosa di un precetto fondamentale della vita comunitaria,
quello per il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge; senza il
riconoscimento, non soltanto formale, ma verificabile nei fatti, che i vantaggi
e i miglioramenti sociali, senza esclusione di alcuna componente di natura
strutturale, economica e culturale (...). Perché la democrazia o è totale, o
non è democrazia».
Per questo diciamo grazie a Padre
Giovanni, a Soares, a Fernanda, a Floriano, a Tiziana, a tutti quelli che
abbiamo incontrato in quei giorni che ci hanno fatto credere che sia possibile
e giusto combattere, aiutare chi lo fa. E come è stata un'esperienza bellissima
vedere lavorare italiani e brasiliani, così lontani come mentalità e mondi di
appartenenza, così sarà bello vedere partire dall'Italia aiuti per sostenere
chi in Brasile non solo sta lottando per dar vita a iniziative molto
significative, ma che nello stesso tempo sta lottando perché lo Stato si
faccia carico di quei problemi. Quella del gruppo di Padre Giovanni non è
un'opera solo di carità, ma un lavoro anche politico per cambiare una società
che emargina i più deboli.
A tutti quelli che la vogliono
sostenere si prega di indirizzare i loro contributi a Lisa Giovanni, c.c. n. 12/4921 Istituto Bancario S. Paolo, Savigliano (CN).
Chi volesse poi comunicare
direttamente con Padre Giovanni Lisa può scrivere in Rua Amedeo Onofre 205,
Teofilo Otoni, 39800, tel e fax 033-5213483.
(1) Elias Canetti, La provincia dell'uomo,
Tascabili Bompiani, Milano, 1978.
(2) Cfr. Josè Saramago, L'illusione
democratica, in Micro Mega, 2/93.
(3) Antonio Gambino, Il ritorno della
diseguaglianza, in Il Mulino, luglio-agosto 1995.
www.fondazionepromozionesociale.it