Prospettive assistenziali, n. 117, gennaio-marzo 1997

 

 

SENTENZA DEL TRIBUNALE DI VERONA SUI CONTRIBUTI RICHIESTI DAGLI ENTI PUBBLICI AI PARENTI DEGLI ASSISTITI

 

 

In data 16 marzo 1996 il Tribunale di Verona, Prima Sezione civile, composto dai magistrati Paola De Falco - Presidente, Pasquale D'Ascola, giudice estensore, Carla Marina Leudaro, giudi­ce, ha pronunciato una sentenza in cui viene confermato che gli enti pubblici non possono pretendere contributi economici dai parenti di assistiti.

II Comune di Verona aveva citato i parenti di due anziani assistiti dal Comune stesso median­te il loro inserimento in casa di riposo, i cui red­diti erano inferiori alla retta di ricovero, richie­dendo ai congiunti il versamento di contributi per la somma complessiva di L. 28.459.000.

II Tribunale ha respinto la domanda del Co­mune di Verona asserendo che «è inesistente nel nostro ordinamento una norma che consenta la rivalsa sui parenti da parte dell'ente pubblico erogatore dell'assistenza, ditalché non vi può es­sere sostituzione processuale dell'assistito da parte dell'ente», precisando, altresì, che «la nor­mativa del 1931 (legge 3 dicembre n. 1580), che ammetteva tale riserva per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali, è pacificamente con­siderata abrogata dalla legge 180/1978, che ha disposto la chiusura dei manicomi e dalla legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, i principi ispiratori delle quali sono in­compatibili con le disposizioni anteriori alla Co­stituzione».

Prosegue la sentenza affermando quanto se­gue: «È pertanto impossibile invocare quelle risa­lenti disposizioni sia quanto all'applicabilità diret­ta, sia solo per inferirne un principio generale di rivalsa dell'ente pubblico. Infatti la preminenza dell'intervento statale per il soddisfacimento dei bisogni previdenziali e assistenziali del cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione del princi­pio di eguaglianza e solidarietà, esclude che l'in­tervento sociale sia in qualche modo interferente con la possibilità di ottenere rivalsa per le presta­zioni erogate, cui lo Stato è comunque tenuto nei confronti dei cittadino.

«Irrilevante è poi, ai fini dell'enunziazione di un cogente obbligo di refusione delle spese dell'en­te, l'esistenza di una diffusa prassi degli istituti di assistenza pubblica di rivolgersi ai parenti chie­dendo un contributo per il pagamento delle rette relative al ricoverato.

«La richiesta, si è acutamente osservato; appa­re intollerabile allorché, come nel caso di specie (cfr. quanto dedotto a prova dal Comune in me­moria istruttoria), si tratti di assistenza erogata ad anziani affetti da patologie croniche e quindi ma­lati e come tali aventi diritto a prestazioni sanita­rie.

«Essa viene sovente accolta, come nel caso di specie da parte dei tre figli degli assistiti chiamati in causa dai convenuti, stipulando, sia pure per fatti concludenti, un contratto con cui il parente dell'assistito si obbliga a una prestazione nei confronti dell'ente, e dunque sfuggendo all'appli­cazione della normativa assistenziale.

«Il ricorso all'istituto degli alimenti non appare appropriato. Invero, come rilevato dalla difesa dei convenuti, unico legittimato attivo a richiedere gli alimenti è il soggetto in stato di bisogno e comu­nemente in dottrina si esclude l'esperibilità dell'azione in via surrogatoria o l'applicabilità dell'art. 2041 c.c.

«Non si può infatti parlare di ingiustificato ar­ricchimento per il parente tenuto agli alimenti, finché questi non siano richiesti dal beneficiario e quindi sorto l'obbligo di pagamento.

«In proposito non deve trarre in inganno l'arre­sto giurisprudenziale citato da parte attrice (Cass. 9 ag. 1988 n. 4883), a mente del quale qualora i bisogni dell'avente diritto agli alimenti vengano per intero soddisfatti da uno soltanto dei condebitori ex lege, questi può esercitare il regresso pro quota verso il coobbligato senza necessità di una preventiva diffida ad adempiere.

«Le regole dell'utile gestione applicate dalla Suprema Corte in quel caso presuppongono in­fatti il carattere cogente del relativo obbligo, quando sussista inizialmente (cioè almeno nel rapporto beneficiario-obbligato primo adempien­te) il presupposto che legittima l'adempimento, cioè la richiesta ex art 445 codice civile.

«Nel caso odierno invece la prestazione di cui si chiede il rimborso non è stata erogata da uno dei coobbligati ex lege, ma dall'ente pubblico che interviene in forza della normativa sociale assistenziale e non di quella alimentare.

«Approfondendo la riflessione sul rapporto tra prestazioni assistenziali e obblighi alimentari, oc­corre poi rilevare che i piani su cui si muovono i due istituti sono completamente diversi: è da escludere, perché in tal senso è il dato normati­vo, che condizione per l'ottenimento della pen­sione sociale sia l'insussistenza di obbligati agli alimenti. È poi da ritenere compatibile con la ri­chiesta di prestazioni alimentari il godimento di pensione sociale che secondo il beneficiario non soddisfi le sue esigenze, avuto riguardo alla sua posizione sociale (art. 438 c.c.).

«In realtà non si può dire che l'assistenza pubblica sia sussidiaria all'obbligazione alimen­tare, ma v'è, si è correttamente osservato, indi­pendenza dei due sistemi. L'intervento pubblico si dispiega per garantire le funzioni fondamen­tali non scaricabili sulla famiglia.

«L'obbligo alimentare risponde a un dovere solidaristico ancora attuale nell'ambito familiare, ma soggetto al criterio della facoltà dell'avente diritto di valersi o meno del suo diritto nei con­fronti dei congiunti, diritto che per la sua conno­tazione personalistica non può essere oggetto di esercizio da parte di terzi».

 

 

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