Prospettive assistenziali, n. 117, gennaio-marzo 1997

 

 

LA CORTE DI CASSAZIONE CONFERMA IL DIRITTO DEI MALATI CRONICI ALLE CURE SANITARIE

 

 

La prima Sezione civile della Corte di Cassa­zione ha emesso in data 16 gennaio 1996 (il de­posito in Cancelleria è avvenuto il 20 novembre 1996) la sentenza n. 10150/96 che riportiamo in­tegralmente.

ll provvedimento è estremamente importante in quanto conferma le posizioni sostenute fin dal 1978 da Prospettive assistenziali (1).

Infatti, viene stabilito che:

1. le leggi vigenti riconoscono ai cittadini il di­ritto soggettivo (e pertanto esigibile) in materia di prestazioni sanitarie e di attività a rilievo sanita­rio, mentre gli stessi cittadini hanno solo un inte­resse legittimo (e quindi con ampi spazi di di­screzionalità per la pubblica amministrazione) per quanto concerne gli interventi socio-assi­stenziali;

2. le cure sanitarie devono essere fornite sia ai malati acuti che a quelli cronici;

3. essendo un atto amministrativo, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell'8 agosto 1985 non ha alcun valore normativo;

4. si deve far riferimento alle prestazioni socio­assistenziali esclusivamente quando «sia presta­ta soltanto una attività di sorveglianza o di assi­stenza non sanitaria».

 

 

Testo della sentenza n. 10150/96

 

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione I civile, composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Mario Corda - Presidente, Dott. Giancarlo Biboli­ni - Consigliere, Dott. Antonio Catalano - Consi­gliere, Dott. Giuseppe Salmè - Consigliere Rela­tore, Dott. Luigi Macioce, Consigliere, ha pro­nunciato la seguente sentenza sul ricorso pro­posto

da

Istituto medico psico-pedagogico e Casa di ri­poso "Costante Gris", elettivamente domiciliato in Roma, Via Alessandria 130, presso lo studio dell'avv. Vitaliano Lorenzoni che lo rappresenta e difende per procura a margine del ricorso, unitamente all'avv. Alberto Borella, ricorrente

contro

Amministrazione provinciale di Roma, in perso­na del legale rappresentante pro tempore, eletti­vamente domiciliata in Roma, Via Quattro No­vembre 119/A, presso l'Avvocatura della Provin­cia, rappresentata e difesa dagli aw.ti Antonio Fancellu e Anna Pia Marcotullio, per procura in calce al controricorso, controricorrenti

avverso

la sentenza n. 834 della Corte d'appello di Roma del 29 marzo 1994.

Sentita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del 16 gennaio 1996 dal con­sigliere relatore dott. Giuseppe Salmè;

sentiti i difensori, avv. Loria per il ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso e l'avv. Fancellu per la resistente, che ha chiesto il ri­getto del ricorso;

sentito il p.m., in persona del sost. proc. gen. dott. Giovanni Lo Cascio che ha concluso chie­dendo il rigetto del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

Con atto di citazione del 1° settembre 1986 l'istituto medico psico-pedagogico Costante Gris ha chiesto la condanna della Provincia di Roma al pagamento, ex art. 6 della legge n. 36 del 1904, della somma di L. 153.367.330 per rette di degenza di M.W.S., minorato psichico nato a Roma, a decorrere dal 1971. La Provincia ha eccepito il difetto di giurisdizione e la man­canza di legittimazione passiva. II Tribunale di Roma, con sentenza 21 novembre 1990, respin­ta l'eccezione di giurisdizione, ha rigettato la do­manda.

La decisione è stata confermata dalla Corte d'appello di Roma la quale ha rilevato che, con la legge 118 del 1971 l'assistenza degli invalidi civili, categoria nella quale sono compresi i mi­norati psichici, è stata posta a carico del Mini­stero della sanità e, con la legge 833 del 1978, è stata trasferita alle USL. L'obbligo del Ministero, ha inoltre osservato la Corte territoriale, non è subordinato al preventivo convenzionamento con gli istituti assistenziali, mentre quello delle USL è condizionato al rilievo sanitario della atti­vità assistenziale. Poiché dagli atti risultava che l'assistito era stato costantemente sottoposto a trattamento sanitario, con la somministrazione di farmaci diretti a controllare le crisi di aggressivi­tà, e che doveva escludersi la possibilità remota di recupero sociale, onde la necessità del tratta­mento sanitario doveva ritenersi permanente, la Corte ha concluso affermando che l'obbligo di pagare te rette gravava sul Ministero della sanità dal 1971 al 1978 e sulla USL competente per territorio, a decorrere dal 1978.

Avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma ricorre per cassazione l'istituto medico psico-pedagogico Costante Gris, sulla base di un unico motivo illustrato con memoria. Resiste con controricorso la Provincia di Roma.

 

Motivi della decisione

 

II ricorrente deduce violazione e falsa applica­zione delle leggi n. 118 del 1971 e n. 833 del 1978, dell'art. 72 del r.d. n. 36 del 1904 e omes­so esame del d.p.c.m. 8 agosto 1985. Poiché la sentenza impugnata riconosce che il trattamen­to sanitario praticato all'assistito di cui si tratta non comporta alcuna possibilità di recupero so­ciale dell'infermo, sostiene il ricorrente, man­cherebbero i presupposti per imputare alla USL l'onere economico della degenza. Infatti, ai sensi dell'art. 6 del d.p.c.m. 8 agosto 1985, sono attivi­tà socio-assistenziali di rilievo sanitario, rien­tranti nella competenza delle USL, le prestazioni dirette «alla cura e al recupero fisico-psichico dei malati mentali, ai sensi dell'art. 64 della leg­ge 23 dicembre 1978, n. 833, purché le predette prestazioni siano integrate con quelle dei servizi psichiatrici territoriali». Nella specie manchereb­bero i requisiti della possibilità di recupero e della integrazione delle prestazioni a favore dell'assistito con quelle dei servizi psichiatrici territoriali. L'attività del ricorrente sarebbe in realtà diretta soltanto alla cura e sorveglianza dell'infermo e per tale motivo esulerebbe dalle competenze delle USL.

Né potrebbe sussistere la competenza del Mi­nistero della sanità per il periodo anteriore al 1978, in quanto non erano state avviate le pro­cedure previste dagli artt. 6 e 7 della legge 118 del 1971, al cui perfezionamento la legge stessa subordina l'assunzione degli oneri economici dell'assistenza psichiatrica da parte del predet­to Ministero.

II ricorso non è fondato.

Iniziando l'esame dall'ultimo profilo, relativo alla legittimazione del Ministero della sanità, per il periodo 1971/1978, non ha pregio la tesi se­condo la quale l'assunzione degli oneri econo­mici dell'assistenza psichiatrica da parte di det­ta amministrazione sia subordinata al positivo accertamento delle condizioni di minorazione da parte delle apposite commissioni sanitarie pro­vinciali, ai sensi dell'art. 6 della legge 118/71. In­fatti detta legge, dopo aver disciplinato negli artt. da 3 a 5 le modalità di erogazione dell'assisten­za sanitaria agli invalidi civili (categoria nella quale pacificamente, ai sensi del 2° comma dell'art. 2, rientrano i soggetti affetti da patologie psichiatriche, che comportino la riduzione per­manente della capacità lavorativa non inferiore ad un terzo), al successivo art. 6 dispone che «ai fini dei benefici previsti dalla presente legge» l'accertamento delle condizioni di minorazione deve essere effettuato dalle competenti com­missioni provinciali. Tali benefici sono quelli di­sciplinati dagli artt. 12 e seguenti e cioè le pen­sioni e gli assegni di inabilità, gli assegni di ac­compagnamento, le indennità di frequenza ai corsi di addestramento, qualificazione e riquali­ficazione professionale, i congedi straordinari per cure, il trasporto scolastico, l'esenzione dal­le tasse scolastiche e universitarie. La legge non prevede invece alcun accertamento della condi­zione di invalidità per l'erogazione dell'assisten­za in genere di cui all'art. 3. Né tale assistenza è solo quella di natura sanitaria, perché l'ultimo comma della citata disposizione prevede espressamente che l'assistenza sia erogata me­diante convenzioni con centri medico-sociali che siano in grado di offrire adeguate prestazio­ni educative, medico-psicologiche e di servizio sociale.

Quanto alla legittimazione delle USL, per il pe­riodo successivo al 1978, il dato rilevante per la soluzione della controversia non è costituito, co­me pretenderebbe il ricorrente, dal solo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 ago­sto 1985, che, tra l'altro non ha valore normati­vo, avendo (come risulta dalla intestazione e dal preambolo) esclusivamente una funzione (am­ministrativa) di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali e delle Province autonome, in materia sanitaria. Procedendo alla ricognizione sistematica della disciplina legisla­tiva questa Corte ha di recente (sent. 1003/93) rilevato che accanto alle prestazioni sanitarie di cui agli art. 1 e 75, 1 ° comma della legge 833/78, l'art. 30 della legge 730/83 ha disciplinato an­che le attività di tipo socio-assistenziale, che possono essere delegate alle USL (le quali, in relazione a queste prestazioni delegate sono te­nute a tenere una apposita contabilità separata) e l'attività di rilievo sanitario connessa con quel­la socio-assistenziale, che invece, ai sensi del­l'art. 51 della legge 833/78, sono a carico diret­tamente del servizio sanitario nazionale. L'art. 1 del citato decreto presidenziale 8 agosto 1985, definisce le attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali (di cui all'art. 30 della legge 730/83) come «le attività che richie­dono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purché siano di­rette immediatamente e in via prevalente alla tu­tela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell'attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psi­chica del medesimo. In assenza dei quali l'attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti». II successivo art. 6 dello stesso decreto, avente ad oggetto l'individuazione dei ricoveri in strut­ture protette, comunque denominate, rientranti nel concetto di attività socio-assistenziale di ri­lievo sanitario, non può quindi essere letto in maniera avulsa dall'art. 1, che, integrando diret­tamente l'art. 30 della legge 730/83 con le no­zioni necessarie per una uniforme applicazione, detta la definizione generale di «attività di rilievo sanitario». Per tale ragione le differenze lessicali che si rinvengono in detto art. 6, in mancanza dell'individuazione di precise o plausibili ragioni che le giustifichino, debbono ritenersi prive di una qualche rilevanza, specialmente se da esse possano derivare ingiustificate disparità di trat­tamento alle varie categorie di soggetti bisogno­si, tenendo presente che le prestazioni sanita­rie, al pari di quelle di rilievo sanitario sono og­getto di un diritto soggettivo, a differenza di quelle socio-assistenziali alle quali l'utente ha solo un interesse legittimo (sent. 1003/93). Per­tanto quando l'art. 6 dispone che i ricoveri si considerano attività di rilievo sanitario se le pre­stazioni in essi erogati sono dirette, in via esclu­siva e prevalente: a) in caso di handicappati e disabili, alla riabilitazione o alla rieducazione funzionale; b) in caso di malati mentali, alla cura e al recupero fisico-psichico; c) in caso di tossi­codipendenti, alla cura e/o al recupero e d) nel caso di anziani, alla cura degli stati morbosi non curabili a domicilio, non sembra introdurre, at­traverso l'uso della congiunzione "e" che unisce i termini "cura" e "recupero" dei malati mentali, invece della congiunzione "o" che unisce gli stessi termini, riferiti ai tossicodipendenti, la di­stinzione tra malati mentali acuti e malati mentali cronici, al fine di escludere l'attività di cura dei secondi da quelle considerate di rilievo sanita­rio. Di una tale distinzione infatti non c'è traccia

nella legge, che prende in considerazione l'atti­vità di cura, indipendentemente dal tipo di ma­lattia (acuta o cronica) alla quale è diretta e per­tanto se la disposizione dell'atto di indirizzo e coordinamento avesse introdotto tale differenza sarebbe certamente contra legem e come tale disapplicabile dal giudice ordinario. In realtà, ri­guardo ai malati mentali cronici, come ha già af­fermato questa Corte (sent. 1003/93) si deve solo accertare se in loro favore, oltre alle pre­stazioni socio-assistenziali, siano erogate pre­stazioni sanitarie, ovvero sia prestata soltanto una attività di sorveglianza o di assistenza non sanitaria. Solo in questo secondo caso l'attività si potrà considerare di natura socio-assisten­ziale, e pertanto estranea al servizio sanitario, mentre nel primo si tratterà di prestazioni di rilie­vo sanitario di competenza del servizio sanitario nazionale.

Poiché, con accertamento di fatto incensura­bile in questa sede, la Corte territoriale ha ac­certato che nella specie al soggetto ricoverato, affetto da malattia psichica cronica, venivano erogate prestazioni sanitarie (somministrazione continua di farmaci diretti a controllare le crisi di aggressività), nessun dubbio può sorgere sulla qualificazione del ricovero di cui si tratta come attività socio-assistenziale di rilievo sanitario di competenza delle USL.

II ricorso deve essere quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorren­te al pagamento delle spese processuali che si liquidano in L. 137.350, oltre a L. 6.000.000 per onorari.

Così deciso in Roma il 16 gennaio 1996, nella Camera di consiglio della prima Sezione civile.

 

 

 

(1) Cfr. "Gli anziani definiti cronici vengono calpestati nei loro diritti", Prospettive assistenziali, n. 44, ottobre-di­cembre 1978.

 

 

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