Prospettive assistenziali, n. 115, luglio-settembre 1996

 

 

LE NUOVE FRONTIERE DELL'ADOZIONE *

 

1. Riscoprire il significato vero dell'adozione

Negli ultimi anni l'istituto dell'adozione è ritor­nato al centro del dibattito sociale, politico e cul­turale per effetto di alcuni fattori concorrenti: a) la crescente spinta di coppie, anche di età elevata, e persone singole che desiderano co­munque un "figlio"; b) la presentazione di pro­poste di legge che hanno raccolto questo desi­derio; c) la firma da parte del nostro Paese della Convenzione de L'Aja del 29 maggio 1993 per la tutela dei bambini e la cooperazione nell'adozio­ne internazionale, che al momento della ratifica dovrà comportare una integrazione della legge 4 maggio 1983 n. 184 in materia di adozione di minori stranieri.

Peraltro in questo dibattito la filosofia del­l'adozione degli anni sessanta-ottanta, che con­sisteva nell'attenzione ai bisogni del bambino come persona, sembra affievolirsi per essere sostituita dalla concezione opposta che il bam­bino costituisce una risorsa degli adulti; più che un diritto di un bambino in stato di abbandono l'adozione diventa quella consolazione per i figli che mancano (solacium filiorum amissorum) di cui parlava il diritto romano; e di conseguenza dalla prospettiva della disponibilità all'acco­glienza di un minore che ha diritto ad una fami­glia sostitutiva si rischia di passare all'afferma­zione di un diritto dell'adulto ad avere un figlio: In tale contesto la richiesta insistita della coppia formata dallo stesso sesso di potere adottare è esemplare della posizione di chi va vedendo nell'adozione lo strumento per assicurare al­l'adulto la gratificazione di un figlio.

Di fronte a questi preoccupanti atteggiamenti culturali e alle proposte di modifiche dell'ado­zione che ne sono espressione, diverse persone con varie professionalità e competenze, ma con una sensibilità comune, impegnate in istituzioni o associazioni che si occupano di tutela dell'in­fanzia, si sono incontrate per confrontarsi sui valori fondanti dell'istituto dell'adozione, per ri­scoprire il significato dell'adozione in una pro­gettazione nuova di politica sociale, per chie­dersi come la legislazione e le prassi giudiziarie, amministrative e sociali dell'adozione possano meglio tutelare il bambino e come si possa rime­diare alle difficoltà concrete che vengono la­mentate (1).

Questo documento presenta i principali aspetti giuridici e sociali emersi.

 

2. II modello della genitorialità e della filiazione adottiva

La domanda di fondo è se sia ancora attuale, attuabile e perciò meritevole di essere mantenu­to il modello di adozione, tracciato dalla legge n. 184/1983, che costruisce la genitorialità sociale dell'adozione come analoga, anzi uguale, anche negli effetti giuridici, a quella della genitorialità biologica. Per esso la dichiarazione dello stato di adottabilità produce la cessazione definitiva di ogni rapporto giuridico del bambino con i suoi procreatori e interviene una seconda "nascita" del bambino presso i genitori adottivi che costi­tuiscono la sua nuova, unica e vera famiglia per sempre.

Questo modello deve essere conservato e di­feso. Una condizione determinante per la riusci­ta dell'adozione è infatti che i genitori adottivi siano legittimati nella pienezza della loro genito­rialità, sia nei risvolti psicologici interni alla fami­glia (devono sentirsi i veri genitori del bambino) sia nel riconoscimento esterno giuridico e so­ciale (è determinante che i mezzi di informazio­ne e la scuola non presentino o pensino l'ado­zione come un surrogato della genitorialità bio­logica).

Ma più ancora è il bambino che ha il bisogno psicologico e sociale di considerare questi ge­nitori adottivi come gli unici veri genitori, di non sentirsi verso di loro - né sotto il profilo giuridi­co né nella considerazione sociale - un figlio di seconda serie (rispetto a quello biologico) o un mezzo figlio o un figlio a metà con i genitori pre­cedenti. Ciò non nega che abbia il diritto di es­sere informato - e presto - della sua condizio­ne di adottato o che conservi - se l'adozione non è avvenuta alla nascita - i ricordi e i vissuti anteriori, che si porterà con sé per tutta la vita.

Perciò non si può condividere la proposta di introdurre delle forme di adozioni aperte, in cui si rimanda la decisione dell'adozione, in alterna­tiva al ritorno presso i genitori di origine, fino ai diciotto anni, quando sarà il minore divenuto maggiore di età a scegliere. Esse non risponde­rebbero al bisogno del minore di appartenenza ad una famiglia propria e negherebbero agli adulti che se ne occupano di identificarsi in un ruolo genitoriale pieno, lasciando tutti in un con­testo di insicurezza angoscioso che impedireb­be il formarsi di quelle relazioni essenziali per una stabilità psicologica. E non se ne vede la necessità o l'opportunità, anche perché già oggi il minore quattordicenne deve dare il suo con­senso all'adozione (e negandolo può ritardare il momento o rifiutarla).

 

3. Gli elementi costitutivi dell'abbandono

Nel ripensare un modello legislativo e sociale di adozione ci si chiede se il discrimine fra l'aiu­to alla famiglia biologica perché possa essere recuperata alla cura del figlio e la interruzione definitiva di ogni legame del minore con tale fa­miglia per procedere all'adozione possa essere ancora ravvisato nell'abbandono del minore, in­teso come privazione di assistenza materiale e morale che non abbia natura transitoria.

Per alcuni i termini "abbandono" e "privazione di assistenza" possono avere un sapore arcaico di tipo positivista. Essi fanno pensare al bambi­no abbandonato per la strada o nella "ruota" o non riconosciuto alla nascita o dimenticato per anni in un istituto; evocano meno immediata­mente le situazioni in cui i bisogni di "ricevere" del figlio minore non sono raccolti e riconosciuti da genitori dipendenti da droghe, ammalati di mente, trascuranti o abusanti, con i quali la sua integrità psicofisica è fortemente compromessa; e non affermano esplicitamente l'adozione come risorsa quando non viene assicurato il diritto del minore ad "essere figlio". Tuttavia l'interpreta­zione che è stata data in questi anni dalla magi­stratura del concetto di stato di abbandono lo ha riempito di un contenuto operativo, consen­tendo di leggere l'abbandono nel mondo interno del minore come assenza o perdita o dannosità dei suoi legami con coloro che l'avevano pro­creato. Dunque non occorre riscrivere la defini­zione legislativa di abbandono, quanto darle dei contenuti corretti e scoprire meglio il modo di atteggiarsi delle istituzioni giudiziarie e sociali di fronte alla famiglia che non risponde ai bisogni del figlio.

A questo riguardo ci appare importante indi­care alcuni punti:

a) l'adozione (anche quella internazionale) va collocata nell'ambito di quelle priorità indicate dalla legge n. 184/1983, che vedono al primo posto il diritto del bambino a vivere nella famiglia in cui è nato; e perciò devono essere attuati pri­ma di tutto quegli interventi di sostegno alle re­lazioni familiari che consentano al minore di ri­manere affidato alle cure della famiglia di origi­ne;

b) in caso di temporanee difficoltà della sua famiglia, non risolvibili con gli interventi sopra ri­chiamati, la risorsa di appoggio per un bambino è principalmente e anzitutto il suo affidamento ad un'altra famiglia, con scopo di pronto soc­corso o terapeutico, in attesa che la famiglia di origine possa con gli opportuni aiuti ristabilirsi;

c) quando il bambino ha bisogno di un'altra famiglia, perché i suoi legami affettivi con la fa­miglia di origine sono morti o hanno perso di si­gnificato o sono patologici (e in quanto tali van­no interrotti), i giudici minorili hanno il dovere di dare dell'abbandono una valutazione obiettiva, ma anche tempestiva, con una procedura ga­rantita e sollecita, considerato il grave danno per il minore dei tempi lunghi, e così di rispondere al suo bisogno procedendo senza indugi all'adozione; c'è da chiedersi se qualche volta la mancanza di coraggio nel recidere un legame (lasciando magari il bambino in un istitu­to per anni e anni) non esprima una scarsa professionalità da parte di chi è preposto a riconoscere o dichiarare uno stato di abban­dono;

d) la dichiarazione di adottabilità constata l'impossibilità dei genitori biologici di rispondere e provvedere ai bisogni del bambino, perciò non va operata e motivata come condanna nei loro confronti né deve portare ad una loro colpevo­lizzazione; anzi essi per quanto possibile devo­no essere aiutati dagli operatori e dai giudici a rendersi conto della loro impossibilità di garanti­re le condizioni minime necessarie allo sviluppo del minore, devono essere "accompagnati" con rispetto nella separazione dal bambino accet­tando di non vederlo più, vanno dunque essi stessi seguiti e presi in carico; spesso "chi ab­bandona" (come la donna che non si sente di diventare la mamma del bambino che partorisce e che decide quindi di non riconoscerlo come fi­glio, ma anche i genitori incapaci che si convin­cono che per il bene del figlio è meglio che ab­bia un'altra famiglia) fa una scelta che è comun­que protettiva per il bambino;

e) la famiglia di origine non va lasciata a sé dopo l'adozione, essa va aiutata e seguita per­ché non si ripetano le condizioni sociali e psico­logiche che potrebbero portare ad una nuova adozione di un suo componente.

 

4. Quale famiglia per il minore in stato di abbandono

Da qualche tempo alcuni parlano di un "dirit­to" degli adulti all'adozione. Non è invece soste­nibile che ci sia un diritto di un soggetto a rice­vere come figlio un bambino nato da un'altra persona. In questo caso parlare di diritti dell'adulto è fuorviante, perché riduce il minore ad oggetto di questi diritti; dal bisogno del mino­re si passa all'affermazione del bisogno dell'adulto. È più corretto affermare che la col­lettività può accogliere e riconoscere, a secon­da dei bisogni manifestati da un minore, la di­sponibilità di chi, in una prospettiva solidaristica, si offre per diventare famiglia per un bambino senza famiglia; e vorremmo perciò che la legge coerentemente prevedesse, sia per l'adozione interna che per quella internazionale, la presen­tazione al tribunale per i minorenni di una dichia­razione di disponibilità all'adozione, invece di una domanda di adozione.

La erronea prospettiva di un diritto della per­sona all'adozione caratterizza anche le propo­ste di rendere meno rigorosi i requisiti legislativi oggi richiesti per gli adottanti. Se si guarda ai bi­sogni del bambino, spesso segnato dall'abban­dono, appare evidente che i genitori adottivi debbono possedere una capacità affettiva e una disponibilità all'accoglienza e all'accompagna­

mento maggiori che nella genitorialità biologica; e requisiti ancora più rigorosi sono necessari per chi adotta un bambino straniero, special­mente se di razza diversa dalla nostra. Per que­sto, in una società che conosce ormai una plu­ralità di modelli di famiglia (monoparentale o con due genitori, fondata sul matrimonio o non lega­ta da un vincolo giuridico, unita o scissa, origi­naria o ricostituita, omosessuale, ecc.), i genitori adottivi che possano dare la migliore accoglien­za vanno scelti in una coppia formata da un uo­mo e una donna che rappresentino le figure pa­terna e materna; una coppia giovane e quindi che sia nel pieno della vitalità e che potenzial­mente possa crescere il bambino fino a che sia autonomo nella vita; una coppia di coniugi che con il vincolo del matrimonio che li unisce han­no testimoniato di fronte alla collettività il loro impegno a "fare famiglia" e quindi offrono mag­giori garanzie di stabilità; una coppia che sia già collaudata nella sua relazione positiva da un pe­riodo di convivenza matrimoniale.

Poiché queste coppie di coniugi giovani, che danno maggiori garanzie di corresponsabilità solidaristica nella scelta adottiva, sono disponi­bili e costituiscono una risorsa sufficiente per ri­spondere ai bisogni di adozione (ci sono quindi­ci domande per ogni bambino adottabile), paio­no insensate le proposte di estendere la possi­bilità di adottare alle persone singole, ai più an­ziani, a coloro che con la relazione di conviven­za non si impegnano pubblicamente ad una as­sunzione comune di una responsabilità familia­re. Più si dilatano i requisiti, più si corre il rischio di pervenire a soluzioni insoddisfacenti e a falli­menti, stravolgendo la grande portata dell'istitu­to dell'adozione di strumento sociale di prote­zione della gioventù.

 

5. II ruolo dell'adozione internazionale

L'istituto dell'adozione corre oggi dei rischi degenerativi soprattutto nel settore dell'adozio­ne internazionale, per la impreparazione specifi­ca delle coppie adottanti, la superficialità con cui spesso tali coppie vengono dichiarate ido­nee dalla magistratura minorile, l'assenza di un accompagnamento nelle pratiche all'estero e in specie nel momento dell'abbinamento e la man­canza di un'assistenza post-adozione in Italia.

Per superare questa crisi occorre una risco­perta del significato autentico dell'adozione in­ternazionale come strumento per dare una fami­glia a dei bambini abbandonati, al di là di ogni separazione di frontiere, valorizzandola attraver­so procedure più rigorose.

Ci pare in particolare che vadano ribaditi con forza alcuni punti:

a) l'adozione internazionale deve essere rea­lizzata solo quando non è veramente possibile (neppure con aiuti economici e sociali) la per­manenza del bambino nella sua famiglia di origi­ne o, in, subordine, in una famiglia affidataria o adottiva nel suo paese; essa costituisce dunque uno strumento per dare una famiglia ad un bam­bino che non ce l'ha e non può averla dove è nato; lo stato di abbandono del bambino deve essere reale e accertato e non può essere con­trabbandato con lo stato di povertà; non si adot­ta un bambino perché è povero ma perché non ha più nessuno su cui contare; tale stato di ab­bandono sussiste peraltro anche quando egli è solo e destinato a crescere in un istituto;

b) la scelta dei coniugi idonei deve essere più rigorosa che per l'adozione interna, perché solo persone molto solide, capaci di speciali atten­zioni, consapevoli dei problemi che incontreran­no e libere da pregiudizi razziali possono essere capaci di diventare genitori adottivi di un bambi­no appartenente spesso ad un'altra etnia o cul­tura;

c) se si vuole che l'adozione internazionale, coerentemente a quanto previsto dalla Conven­zione de L'Aja del maggio 1993, sia più garantita non solo per il bambino adottato - che deve es­sere sottratto alle varie forme di mercato e deve trovare la famiglia che meglio risponde ai suoi bisogni -, ma anche per gli aspiranti genitori adottivi - che devono venire preparati a questo compito, accompagnati e seguiti nell'iter adotti­vo -, è indispensabile il superamento dell'attua­le regime privatistico, con la previsione per le procedure che si svolgono all'estero dell'inter­mediazione obbligatoria di organismi autorizzati, che non abbiano fini di lucro; la vigilanza e il controllo pubblico dovrebbero garantire la se­rietà del loro operare;

d) l'adozione internazionale è uno degli inter­venti della cooperazione internazionale, che de­ve privilegiare anche la prevenzione dell'abban­dono nei paesi di origine dei bambini; in questa direzione, anche per rimuovere l'immagine del­l'adozione come "furto" di bambini dei paesi po­veri per quelli ricchi, è importante che questi or­ganismi autorizzati affianchino alla loro attività nel settore dell'adozione un impegno di sostegno sociale finalizzato alla prevenzione dell'abbando­no di bambini che vivono nei paesi in via di svilup­po (solidarietà a distanza, microprogetti, ecc.).

 

6. Le nuove frontiere dell'adozione

A fronte di una grande disponibilità di coppie per l'adozione di bambini piccoli e sani, rimane spesso insoddisfatto il bisogno di famiglia di mi­nori portatori di gravi handicap o ammalati (spe­cie Hiv positivi) o già grandicelli (qualche volta reduci da precedenti inserimenti adottivi falliti). Per questi bambini ci si rassegna spesso alla istituzionalizzazione o al ricovero in comunità, o nel migliore dei casi ad un affidamento familiare, affermando che "intanto nessuno li vuole", e ac­cettando fatalisticamente la situazione presente senza proiettarla nel futuro.

Bisogna invece interrogarsi su quale sarà il futuro di questi bambini, che se non sono inseri­ti appena possibile in una famiglia sono destina­ti a una istituzionalizzazione prolungata se non perpetua. Perfino l'affidamento familiare può non essere la soluzione giusta: esso è un inter­vento positivo se il bambino ha alle spalle la sua famiglia di origine, che continua a vedere e con cui ha rapporti; ma se questa famiglia non c'è o non appare recuperabile ad una sua propria funzione, allora va proposta l'adozione.

Anche questi bambini, infatti, hanno un diritto pieno di avere attraverso l'adozione una famiglia propria così come gli altri bambini senza fami­glia e, solo in caso di assoluta impossibilità di adozione, essi devono trovare accoglienza al­meno in una famiglia affidataria. Queste adozio­ni sono realizzabili, come dimostrano moltissime esperienze in atto che hanno portato anche alla messa a punto di metodologie specifiche.

Occorre però un progetto politico-sociale che inizi con il creare una cultura dell'accettazione del "diverso" e che si proponga di sollecitare periodicamente delle disponibilità positive, re­perendole anche al di fuori delle coppie che hanno presentato la domanda di adozione. È necessario costituire delle reti di famiglie con accentuato carattere solidaristico e offrire alle famiglie che accolgono questi bambini i supporti sociali e economici necessari per fare fronte al­le maggiori difficoltà.

Anche i giudici minorili devono porsi questo obiettivo e mettere a punto delle strategie ope­rative conseguenti.

Per il reperimento di queste famiglie c'è stata in questi anni l'esperienza di appelli specifici uti­lizzando anche apposite rubriche giornalistiche, con la presentazione anonima del caso del mi­nore. Se a qualcuno questa strada di emergen­za, che chiama a disponibilità solidaristiche non ancora mature può apparire pericoloso, peraltro l'esperienza ne ha dimostrato finora sostanzial­mente la sua utilità per la soluzione di situazioni non altrimenti risolvibili.

Questi appelli nulla hanno a che fare con i "cataloghi" di minori adottabili, presentati con nomi e fotografie, che cominciano a essere pro­posti via Internet da agenzie degli Stati Uniti, che propagandano la solitudine e la sofferenza di un bambino solo o abbandonato come se fosse una qualsiasi merce da introdurre sul mercato.

 

7. La preparazione e il sostegno dei genitori adottivi e il ruolo dei servizi

L'adozione va preparata e sostenuta. La con­sulenza per l'adozione e l'assistenza dopo l'adozione sono espressamente richiesti per l'adozione internazionale agli Stati firmatari della Convenzione de L'Aja del 29 maggio 1993 per la tutela dei bambini e la cooperazione nell'adozio­ne internazionale. Preparazione e sostegno non riguardano però solo l'adozione internazionale, ma anche le adozioni dei bambini più grandicelli o ammalati o con degli handicap e, più in gene­rale, tutte le adozioni, anche quelle interne.

Non si vuole intendere con ciò che la famiglia adottiva debba essere presa in carico in quanto "patologica", ma per diventare dei buoni genitori adottivi, soprattutto nel caso di adozioni "diffici­li", occorre compiere un percorso di preparazio­ne e di maturazione personale e seguire l'inseri­mento del bambino particolarmente nei primi momenti per aiutare i futuri genitori adottivi ad impostare un corretto rapporto con lui. Quella di avere degli strumenti per formarsi è peraltro una esigenza sentita da molti coniugi che lamentano di sentirsi giudicati più che sostenuti e orientati nel corso del procedimento valutativo dell'ido­neità e, poi, di venire abbandonati a loro stessi dopo l'inserimento del bambino.

Occorre perciò puntare su percorsi formativi anche attraverso il metodo ormai collaudato dei gruppi guidati da operatori competenti e com­posti dagli stessi aspiranti genitori adottivi o da genitori adottivi. I programmi di formazione avranno anche un impatto selettivo, perché nel loro svolgimento gli stessi soggetti potranno ri­conoscere di non aver disponibilità e capacità nei confronti dei bambini spesso segnati dall'abbandono. La conoscenza nata in questi incontri di gruppo potrebbe consentire agli ope­ratori anche di capire, e indicare ai fini dell'abbi­namento, quali sia il bambino di cui la coppia potrebbe favorire meglio la crescita. Non si trat­ta dunque di restringere le porte dell'adozione, ma di migliorarne il percorso facendo sì che ar­rivino all'abbinamento adottivo delle coppie di coniugi preparate, disponibili e capaci.

Successivamente all'adozione, il fatto che i genitori adottivi possano trovare sul territorio un luogo di ascolto cui rivolgersi per eventuali aiuti dovrebbe costituire una spinta perché siano in­coraggiati a chiedere sollecitamente, e prima che sia troppo tardi, un sostegno quando si ma­nifestano dei problemi.

II lavoro di preparazione, di valutazione dell'idoneità genitoriale e di sostegno successi­vo non può essere fatto dalla magistratura mino­rile ma chiama in causa specificamente i servizi pubblici presenti sul territorio, in una distinzione e separazione dei compiti sociali dalle funzioni giudiziarie di garanzia e decisione. L'intervento del sistema dei servizi pubblici territoriali - attraverso operatori competenti nel­le tematiche dell'adozione e dell'affidamento o i consultori familiari - è determinante per la cor­retta riuscita dell'adozione. Di fronte alle disper­sioni e alle carenze che si riscontrano nell'attua­le organizzazione dei servizi, è urgente arrivare ad una riforma dell'attuale normativa con una legge quadro che finalmente definisca gli enti gestori degli interventi assistenziali e i destinata­ri, i rapporti con il privato sociale, le forme di collaborazione con il sistema sanitario.

Nell'attività di preparazione e sostegno le as­sociazioni che si occupano di adozione e quegli enti, come i consultori familiari del privato socia­le, che hanno le competenze necessarie per aiutare le famiglie adottive, possono collaborare utilmente con i servizi pubblici.

 

8. L'informazione al figlio adottivo

Una corretta e tempestiva informazione al fi­glio adottivo sulla sua nascita e sulla sua reale situazione è essenziale per la buona riuscita dell'adozione. Nell'informazione confluiscono in­fatti tutte le problematiche di fondo del rapporto adozionale; i rapporti fra genitori e figli, sono così coinvolgenti e ricchi di sfumature, che non è possibile mascherarne o, tanto meno, nascon­derne la vera natura. Perché il figlio adottivo possa strutturare un adeguato senso di identità e giungere ad un'effettiva autonomia, è neces­sario che non rifiuti il suo passato, che ne possa parlare, che si senta autorizzato a fare delle do­mande e a cercare delle risposte.

II silenzio non significa solo celare la verità ma soprattutto averne paura o ritenerla negativa sia per il figlio che per se stessi. Lo comprova il fat­to che, come è esperienza dì molti terapeuti, la crisi adolescenziale del minore adottato è più forte e diventa più dirompente quando c'è stata da parte dei genitori una negazione di quelle che sono state le sue origini; mentre l'informa­zione costituisce una prevenzione dell'insorgen­za a distanza di anni di specifiche problemati­che.

Si può sostenere che c'è un diritto del minore di essere informato sulla sua adozione. Ovvia­mente questa informazione avrà spessore e va­lenze diverse a seconda dell'età del minore e della sua storia precedente.

 

9. Le adozioni fallite: che fare?

Quando un'adozione fallisce ci sono indub­biamente a monte i problemi gravi che si porta dietro un bambino abbandonato, ma c'è spes­so anche un'adozione mal fatta, non preparata e non sostenuta. E questo succede più frequente­mente nelle adozioni internazionali.

La soluzione dovrebbe essere un'altra ado­zione con dei genitori più solidi e più avvertiti, per realizzare il diritto del bambino ad avere una sua famiglia degli affetti.

Questa è certamente difficile, soprattutto quando il bambino, che viene nuovamente ab­bandonato, è già grandicello. Bisogna però creare le condizioni perché l'inserimento in una nuova famiglia venga realizzato con le maggiori precauzioni possibili per evitare ulteriori danni. Un ruolo determinante in questo percorso, oltre ai giudici e agli operatori sociali (assistenti so­ciali, psicologi) assumono gli educatori delle co­munità in cui si inseriscono questi minori quan­do vengono "restituiti". Sono loro che, vivendo insieme con il bambino, possono rimotivarlo ad una nuova esperienza familiare.

 

10. Scuola e mass-media di fronte all'adozione

Nella crescita del bambino adottato il conte­sto sociale ha una grande importanza. Quasi sempre la condizione di adottato è conosciuta e nel volto dei bambini di altre razze si legge la di­versità biologica dei genitori.

Nella sua crescita il bambino adottato viene qualche volta ferito da compagni e da persone adulte con riferimenti alla sua condizione; e an­che nella scuola, primo ambiente di socializza­zione del bambino al di fuori della famiglia, pos­sono insorgere delle incomprensioni o dei pro­blemi.

Eppure la scuola ha un ruolo fondamentale già nella prevenzione dell'abbandono. Essa de­ve anche segnalare al tribunale per i minorenni le situazioni di abuso, maltrattamenti e presunto abbandono materiale e morale dei quali gli inse­gnanti vengono a conoscenza.

È importante che gli insegnanti siano attenti alle diversità che ci sono nella classe e prestino particolare attenzione ai bambini in affidamento familiare o preadottivo o in adozione, contri­buendo a superare alcuni stereotipi che persi­stono nella nostra cultura (come la presentazio­ne - anche in alcuni libri di testo - dei concetti di maternità e paternità ancora legati al solo vin­colo biologico anziché ai rapporti affettivi e reci­procamente formativi che si instaurano nella fa­miglia). Va quindi richiesto che l'amministrazio­ne scolastica metta in atto un piano organico di aggiornamento trasversale dei docenti e dei ca­pi di istituto su questi temi.

Per un rafforzamento della cultura dell'adozio­ne "dalla parte dei bambini" può diventare de­terminante il ruolo dei mezzi di informazione, che finora hanno spesso privilegiato il presunto diritto degli adulti - coppie o singoli - all'ado­zione invece di partire dai bisogni dei bambini italiani e stranieri in stato di abbandono.

Inoltre i termini con cui i mass-media presen­tano gli allontanamenti dei minori dai familiari che abusano di loro o li maltrattano anche gra­vemente sono preoccupanti perché attaccano i giudici e gli operatori sociali, deligittimandone il ruolo di protezione nei confronti dei minori.

In maniera equivoca viene poi affrontata l'isti­tuzionalizzazione dei 40.000 minori in Italia, fa­cendo credere da un lato che sono praticamen­te tutti adottabili e, dall'altro, tacendo sulle re­sponsabilità delle istituzioni che non realizzano gli interventi alternativi al ricovero, già disposti dall'attuale normativa (aiuti socio-economici alle famiglie di origine, affidamenti familiari e inseri­menti in piccole comunità).

 

 

* Resoconto del Seminario di studio "Nuove frontiere dell'adozione: esigenze e diritti dei bambini italiani e stra­nieri in stato di abbandono", promosso dal CISF - Centro internazionale studi famiglia e dall'ANFAA - Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie e svoltosi a Milano il 4 giugno 1996.

 (1) Hanno partecipato al Seminario: Anfossi Giuseppe, Vescovo di Aosta, presidente della Commissione episco­pale per la famiglia della CEI; Bacchetta Daniela, Giudice del tribunale per i minorenni; Barbanotti Gianluca, CNCM - Coordinamento Nazionale delle Comunità per Minori; Bel­letti Francesco, CISF - Centro Internazionale Studi Fami­glia; Bertuzzi Irene, AIBI - Associazione Amici dei Bambini; Biancardi Maria Teresa, Centro Santa Maria Mater Domini di Venezia; Bruno Annie, Associazione Nazionale Assisten­ti Sociali; Calori Alice, Istituto La Casa; Cavallo Melita, Giu­dice del tribunale per i minorenni; Cerino Grazia, CISF - Centro Internazionale Studi Famiglia; Chiosso Giorgio, Di­rettore Dipartimento Scienze dell'Educazione - Università di Torino; De Marco Giulia, Giudice del tribunale per i mi­norenni; Del Conte Luisanna, Giudice del tribunale per i minorenni; Figini Claudio, Gruppo minori del CNCA - Coor­dinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza; Flori­di Maria Grazia, ANFAA - Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie; Felina Palma, Caritas Ambrosiana; Gentile De Luca Rosalba, Associazione Progetto Acco­glienza di Catania; Griffini Marco, AIBI - Associazione Ami­ci dei Bambini; Ghezzi Dante, CBM - Centro Bambino Mal­trattato di Milano; Ichino Francesca, CAM - Centro Ausilia­rio Minorile di Milano; Mandelli Paola, Gruppo minori del CNCA - Coordinamento Nazionale delle Comunità di Acco­glienza; Marcone Giancarto, UCIPEM - Unione Consultori Prematrimoniali; Massari Marzuoli Maria, Associazione Ita­liana dei Giudici per i Minorenni e per la Famiglia; Mel­chiorre Virgilio, CISF - Centro Internazionale Studi Fami­glia; Merguici Gabriella, CIAI - Centro Italiano Adozione Internazionale; Moro Alfredo Carlo, Direttore dell'Osserva­torio sulla Condizione dei Minori; Nova Micucci Donata, ANFAA - Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affi­datarie; Pazè Piercarlo, Associazioné Nazionale Giudici per i Minorenni; Poli Isabella, BICE - Bureau Internationai Cathollque de I'Enfance; Pollstena Mariella, Centro Comu­nitario Agape di Reggio Calabria; Ronchetti Camillo, FEL­CEAF - Federazione Lombarda Consultori Familiari Ispira­zione Cristiana; Rosnati Rosa, Centro Famiglia, Università Cattolica di Milano; Rovelli Maria, MO.V.I. di Milano; Toniz­zo Frida, ANFAA - Associazione Nazionale Famiglie Adotti­ve e Affidatarle; Tortello Mario, Università Dipartimento Scienze dell'Educazione - Università di Torino; Tuminelll Franca, NOVA - Nuovi Orizzonti per Vivere l'Adozione; Va­dilonga Francesco, CTA - Centro Terapia Adolescenza dl Milano; Zlrpoli Armando, NOVA - Nuovi Orizzonti per Vivere l'Adozione.

 

 

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