Prospettive assistenziali, n. 114, aprile-giugno 1996

 

 

LA LEGGE QUADRO SULL'HANDICAP: IL LEGISLATORE STATALE E QUELLO REGIONALE

 

MASSIMO DOGLIOTTI

 

 

Nel volume "Handicap: oltre la legge quadro - Riflessioni e proposte" (1), gli Autori Maria Grazia Breda e Francesco Santanera hanno affermato che occorre ponderare con molta attenzione le dichiarazioni dei politici e degli amministratori pubblici e privati. Un esempio: nell'articolo "Un incontro con Adriano Bompiani”; apparso sul n. 1, gennaio-febbraio 1993 della rivista “La Rosa blu”; Gabriella Pini riferisce che alla domanda circa la trasformazione da "facoltative" a "dovu­te" delle prestazioni previste dalla legge quadro sull'handicap n. 104/1992, il Ministro degli affari sociali ha risposto come segue: «Noi dobbiamo renderci conto che l'organizzazione del nostro Stato è appunto un'organizzazione decentrata. II legislatore nazionale può promuovere tutto ciò che in una legge quadro serve a individuare de­gli obiettivi e li può indicare con la parola "pos­sono" all'attenzione di coloro, in questo caso le regioni, che per statuto, cioè per Costituzione, hanno poi il potere esecutivo. II legislatore na­zionale non poteva andare oltre questo limite».

A questa presa di posizione dell'ex Ministro Bompiani, Breda e Santanera, avevano replicato osservando che, com'è noto, «le leggi quadro (vedi ad esempio la legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978) possono imporre alle Regioni, ai Comuni, alle Usi compiti specifici affinché le norme stabilite a favore dei soggetti in questione siano di fatto messe in pratica e non siano con­tinuamente violate come spesso capita quando si tratta delle esigenze dei più deboli», aggiun­gendo che «è anche preoccupante che la rivista "La Rosa blu" che fa capo all'Anffas (Associa­zione nazionale famiglie di fanciulli e adulti sub­normali) abbia pubblicato affermazioni di un Mi­nistro nettamente contrastanti coi diritti degli handicappati e delle loro famiglie senza alcun commento; non è certo questo il modo migliore per fornire ai propri associati corrette informa­zioni».

Su questa valutazione è intervenuta Gabriella Pini, direttore della rivista dell'ANFFAS, sostenen­do nel numero di novembre-dicembre 1995 di "La Rosa blu" che la posizione del Ministro Bom­piani era esatta.

Poiché, al di là delle polemiche, sono di fonda­mentale importanza, oggi e domani, i contenuti delle leggi quadro, Prospettive assistenziali ha interpellato il Prof. Massimo Dogliotti, docente universitario di diritto e magistrato della Corte di appello di Genova, che ci ha inviato l'articolo che di seguito pubblichiamo.

 

1. Da molti anni si attendeva una legge quadro sull'handicap che, da un lato, unificasse e coor­dinasse tutte le norme sparse in materia, e dall'altro individuasse nuovi e specifici diritti per il soggetto handicappato, ma non tanto come enunciazioni di principio (le quali già si trovano in alcune norme della nostra legislazione: si pensi, per esempio, alla Carta costituzionale, i cui artt. 2 e 3 garantiscono la tutela dei diritti fondamentali dell'individuo e l'impegno pubblico a rimuovere ogni ostacolo allo sviluppo della sua personalità, mentre l'art. 38 precisa che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al manteni­mento ed all'assistenza sociale, e che gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione ed all'avviamento professionale; e si consideri pure la legge 23 dicembre 1978 n. 833, ove si precisa che il Servizio sanitario nazionale è destinato al­la promozione, al mantenimento, al recupero della salute di tutta la popolazione, senza distin­zione di condizioni individuali e sociali, e favori­sce con ogni mezzo l'integrazione degli handi­cappati), quanto, piuttosto, individuando i modi di una concreta attuazione, magari prefigurando sanzioni in caso di inottemperanza.

Purtroppo, nell'uno e nell'altro senso la legge 5 febbraio 1992, n. 104, ha per gran parte delu­so: è vero che essa, almeno apparentemente, ha un respiro assai ampio, toccando tutti gli aspetti della problematica dell'handicap, dalla scuola all'informazione, dalla mobilità personale alle barriere architettoniche, fino alle pensioni; e tuttavia l'unificazione non sembra semplificare il complesso di norme già vigenti (infatti, come spesso accade, sono troppo poche le abroga­zioni esplicite in coda alla legge, e così nuove disposizioni si sovrappongono a quelle esistenti, complicando ulteriormente un quadro già fin troppo complesso). Le enunciazioni di principio, poi, abbondano, ma non si traducono in prescri­zioni precettive ed operanti (pur essendo vero che una legge quadro non potrebbe scendere in particolari e minuzie, dovendo lasciare spazio all'autonomia legislativa delle Regioni). E, del re­sto, come si può parlare di diritti degli handicap­pati se i soggetti pubblici che avrebbèro il «do­vere» di realizzare quei diritti con prestazioni adeguate, il più delle volte soltanto «possono» (e non «devono») eseguire tali prestazioni, e co­munque lo fanno entro i limiti di disponibilità del loro bilancio, senza possibilità di finanziamenti ulteriori? La legge è veramente costellata dalla previsione di «facoltà» e non di «obblighi» e dal riferimento ai limiti del bilancio. E se è vero che tali indicazioni talora non erano presenti nel te­sto originario e sono state introdotte da numero­si emendamenti parlamentari, ciò non salva cer­to il giudizio definitivo sulla legge.

2. La disciplina offre (art. 3) una definizione di handicappato (dunque del soggetto che eserci­ta i diritti e gode delle agevolazioni previsti dalla legge) abbastanza accettabile (anche se si è la­mentato che ancora una volta si privilegiano le indicazioni dei deficit, connotando così negati­vamente l'handicappato): egli è persona che presenta una diminuzione fisica, psichica o sen­soriale, stabilizzata o progressiva, causa di diffi­coltà di apprendimento, di relazione, o di inte­grazione lavorativa, tale da determinare un pro­cesso di svantaggio sociale e di emarginazione. E le prestazioni vengono erogate in relazione al­la natura ed alla consistenza della menomazio­ne, alla capacità complessiva individuale resi­dua, ed alla efficacia delle terapie riabilitative: definizione sufficientemente larga, sì da ricom­prendere le più diverse ipotesi. E tuttavia qual­che specificazione sarebbe stata opportuna: parlare di handicap psichico è alquanto perico­loso e fuorviante perché non distingue esatta­mente (ed era il caso di precisarlo) tra insuffi­cienza e malattia mentale.

L'art. 8 prevede alcuni interventi e servizi per l'inserimento e l'integrazione sociale dell'handi­cappato, non preoccupandosi peraltro di preci­sare chi deve istituirli, garantire le prestazioni, i tempi e le modalità di attuazione (si tratta, come si è detto, di una caratteristica costante di tutta la legge); alcuni interventi vengono specificati (ma quasi sempre senza indicazioni concrete) nelle norme successive. È assai discutibile che il servizio di aiuto personale all'handicappato «possa» soltanto e non «debba» essere istituito dai Comuni o dalle USL, «nei limiti delle proprie risorse di bilancio». Per gli handicappati gravi è prevista la creazione di comunità-alloggio e centri socio-riabilitativi, ma anche in tal caso Comuni ed USL lo «possono» fare solo con le ordinarie risorse di bilancio.

L'art. 12 introduce un'enunciazione immedia­tamente precettiva: al bambino handicappato è garantito l'inserimento negli asili-nido, nonché, successivamente, il diritto all'educazione ed all'istruzione nella scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie. II si­stema scolastico, quindi, dall'asilo-nido all'Uni­versità, non può legittimamente escludere l'han­dicappato ed il provvedimento sarebbe impu­gnabile nelle sedi amministrative e giurispru­denziali competenti. Ma forse per queste esclu­sioni che richiederebbero decisioni pronte e tempestive, sarebbe opportuno prevedere parti­colari mezzi di impugnazione e di controllo, ov­viamente concorrenti con i mezzi ordinari.

Ma, la logica schizoide che caratterizza, come s'è detto, gran parte della legge, conduce nell'articolo successivo a prevedere che enti lo­cali ed USL soltanto «possono» prevedere l'ade­guamento dell'organizzazione e del funziona­mento degli asili-nido alle esigenze dei bambini handicappati al fine di avviare recupero, socia­lizzazione ed integrazione, nonché l'assegnazio­ne di personale docente ed operatori od assi­stenti specializzati. Come dire che il bambino handicappato potrà entrare negli asili-nido, ma sarà probabile che nessuno si occupi della sua integrazione.

La disciplina della formazione professionale dell'handicappato nulla aggiunge alla legislazio­ne precedente, ed in particolare alla legge 21 dicembre 1978 n. 845. Quanto all'integrazione lavorativa, manca, a tutt'oggi, una normativa adeguata, nonostante il pressante invito della Corte costituzionale (Corte Cost. 2 febbraio 1990 n. 50, in Giurisprudenza costituzionale, 1990, 199), ed anche per tale settore la nuova disciplina ha perduto un'ottima occasione. Le Regioni «possono» soltanto, anche qui, e non «devono» disciplinare le agevolazioni alle singo­le persone handicappate ed ai datori di lavoro che le assumono. Ovviamente, dopo la ricordata pronuncia della Corte costituzionale, che ha di­chiarato l'illegittimità dell'art. 20 della legge 2 aprile 1968 n. 482 (sull'assunzione obbligatoria presso la Pubblica amministrazione e le aziende private) là dove si escludevano i minorati psichi­ci (frutto dell'annosa confusione, già ricordata, tra insufficienza e malattia mentale), anche per tali soggetti valgono le prescrizioni del colloca­mento obbligatorio.

Quanto alla mobilità ed al movimento dell'han­dicappato, va detto che, ancora una volta, l'art. 24 sull'eliminazione ed il superamento delle co­siddette barriere architettoniche nulla aggiunge alla normativa vigente (già peraltro, a dire il vero, abbastanza completa: si veda in particolare la legge 9 gennaio 1989 n. 23 e successive modifi­che); l'art. 26 precisa che i Comuni (ma solo nell'ambito delle proprie ordinarie risorse di bi­lancio) assicurano modalità e mezzi di trasporto individuale per gli handicappati, e l'art. 27 che le USL contribuiscono nella misura del 20% alla spesa per la modifica degli strumenti di guida. È da ritenere che la USL inadempiente potrebbe essere condannata di tali somme, e la giurisdi­zione dovrebbe essere quella ordinaria.

Sull'individuazione delle competenze degli enti locali (Regioni e Comuni) non vi sono novità di rilievo. Già le Regioni potevano, in sostanza, svolgere le attività di cui all'art. 39, di program­mazione e direttiva, e continueranno a svolgerle (o non svolgerle): infatti, la norma ancora una volta si preoccupa di precisare che le Regioni soltanto «possono» provvedere nei limiti della lo­ro disponibilità di bilancio. Parimenti, nessuna nuova competenza viene attribuita ai Comuni, che nei loro compiti di organizzazione ed eroga­zione di servizi sono ovviamente limitati dalla mera facoltatività di intervento delle Regioni.

II sistema dei finanziamenti suscita alcune perplessità, per la scarsità dei fondi previsti e per i criteri, spesso cervellotici e contraddittori, di distribuzione.

3. La scelta di lasciare le Regioni libere di provvedere o meno alla tutela dell'handicappa­to, per quanto si è visto assolutamente non con­divisibile, viene talora giustificata - ma si tratta di giustificazione che, nella migliore delle ipote­si, è frutto di un equivoco - con l'argomentazio­ne per cui, stante l'autonomia legislativa delle Regioni, nulla potrebbe essere imposto ad esse (e neppure ai minori enti territoriali: Comuni e Province) da parte del legislatore statale, nelle materie di loro competenza.

Tale argomentazione non è accettabile; le co­siddette leggi-quadro che introducono «i princi­pi fondamentali» cui si atterrà la legislazione re­gionale (secondo le indicazioni dell'art. 127 del­la Costituzione; un ulteriore riferimento ad esse, contenuto nell'art. 9 della legge 10 febbraio 1953, n. 62, era stato successivamente abroga­to) sono leggi come tutte le altre, e si impongono a qualsiasi soggetto, pubblico e privato. Esse non costituiscono soltanto un invito al legislato­re regionale; sono immediatamente precettive e possono sicuramente dar luogo ad impegni ed obblighi per le Regioni, i Comuni, le Province (si pensi, per fare un esempio a tutti noto, alla rifor­ma sanitaria, la legge n. 833 del 1978).

È vero che allo Stato è impedito di emanare, nella materia di competenza regionale, norme di dettaglio, restandogli solo la facoltà di produrre la legislazione di principio, e che spetta unica­mente alle Regioni di stabilire la disciplina con­creta dei rapporti, oggetti, istituti, soggetti, nel ri­spetto, tuttavia, dei principi desumibili dalle leggi dello Stato e di quelli espressamente posti dalle leggi-quadro.

Tali principi introducono limiti precisi alla le­gislazione regionale, indicando pure le linee­guida cui essa si dovrà attenere; nulla vieta che, in tale ambito, la legge-quadro prefiguri un mini­mo di prestazioni essenziali, comuni a tutto il territorio nazionale; ciò è sommamente auspica­bile proprio là dove vengono in considerazione diritti fondamentali ed indisponibili dell'individuo, e in particolare dei soggetti più deboli: libera poi ogni Regione di potenziare ulteriormente il siste­ma degli interventi e di destinare ad essi più am­pie risorse economiche ma obbligata comun­que, per quelle prestazioni minime indicate dalla legge-quadro.

Dunque la scelta di introdurre solo facoltà e non obblighi («la Regione può» e non «la Regio­ne deve») è scelta soltanto politica (e di una po­litica non condivisibile), che non ha neppure il coraggio di manifestarsi per quello che è, am­mantandosi invece (e in modo assolutamente ipocrita) di ragioni giuridiche del tutto inconsi­stenti.

 

 

(1)     Torino, UTET Libreria, 1995.

 

 

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