Prospettive assistenziali n. 112   ottobre-dicembre 1995

RIDEFINIZIONE DELLE PROBLEMATICHE RELATNE ALL'HANDICAP (*)

EMILIA DE RIENZO (**)

 

Una testimonianza

«lo so di essere un ragazzo che ha avuto delle difficoltà nella sua vita e fino ad un certo punto non mi è piaciuta molto; per questo ho pochi ricordi del passato; ho cancellato tutto, ho messo una pietra sopra ed ora penso solo al futuro».

È Luca, un uomo di trentasette anni, un insufficiente mentale, che parla della sua storia ne "II lavoro conquistato" (1).

Da bambino non aveva potuto frequentare la scuola dell'obbligo, ma soltanto un centro speciale e poi un laboratorio protetto dove erano raccolti portatori di handicap diversi. Nei primi trent'anni della sua vita non gli era riconosciuto il diritto di far parte della società se non come un "diverso" che doveva vivere con i "diversi".

«lo mi sentivo trascurato dagli altri, io mi sentivo trascurato dalla società. Il fatto di essere lì e non in un posto normale era per me una cosa ingiusta: io questo lo soffrivo... non ho mai chiesto alle assistenti come mai frequentavo quel posto e non una scuola normale ma questa domanda l'avevo dentro di me e non trovavo delle risposte...».

Poi l'inserimento nel mondo del lavoro: un avvenimento inaspettato che gli ridà la speranza nel futuro, la fiducia negli altri, che lo fa finalmente sentire una persona.

«Adesso sono più contento, è un altro vivere, mi sento utile sia perché porto uno stipendio a casa sia perché ho un lavoro come tutti gli altri... e quando sto male, il giorno dopo i miei compagni di lavoro mi chiedono come sto, si interessano a me».

Una vita spezzata quella di Luca, segnata da un grosso cambiamento: un tratto lungo di cammino dentro un tunnel nero dove tutto è indistinto e cupo e poi improvvisamente la luce che dà forma e colore alle cose che stanno intorno. Una dimostrazione lampante di come una vita possa diventare completamente diversa a seconda delle opportunità che vengono offerte e come, al

di là di ogni pessimismo, nulla è mai perduto del tutto.

«Bisognerebbe stare sempre insieme in mezzo alla gente normale che ti aiuta a sentirti bene». Questo il messaggio centrale, fondamentale che ci comunica Luca: la richiesta esplicita di poter vivere in un ambiente normale che ti accetti, che sappia valorizzare le tue capacità, che sappia prendere in considerazione i tuoi sentimenti. Questo il nuovo cammino che deve rompere con una mentalità fatta di pregiudizi e di emarginazione.

DUE MODI DI VEDERE E CONCEPIRE L'HANDICAP

La vita di Luca è a cavallo di due epoche, di due mentalità, di due modi di mettersi in relazione con l’handicap": l'uno che prevede la logica della separazione e dell'assistenza, l'altra che riconosce I'handicappato come soggetto di diritti.

Ma chi decide che un individuo sia tenuto fuori da un contesto normale? Chi decide se può 0 meno frequentare la scuola insieme a tutti, avere un lavoro, vivere in famiglia o essere chiuso in un istituto o comunque separato dalla società?

La cultura, che è dominante ancora oggi, quella classificatoria con i suoi test e le sue diagnosi evidenzia troppo spesso solo i deficit, frantuma la persona, riduce ed incasella gli aspetti molteplici della realtà in schemi rigidi e precostituiti. È la società che stabilisce i criteri per dividere in categorie gli uomini. Tra queste può passare una barriera invisibile, ma non per questo meno solida e resistente che divide i "normali" dai cosiddetti "diversi"; questi ultimi, in quanto "mancanti di qualcosa", possono non essere considerati dei veri e propri individui.

Il pregiudizio

Ed il linguaggio che usiamo in questo processo è molto importante. 11 mondo non parla se non attraverso le parole che noi diamo alle cose in base a come ce le siamo rappresentate. E spesso queste rappresentazioni non sono altro che pregiudizi. Ed è il pregiudizio, quello collettivo, a determinare la discriminazione che a sua volta è causa dell'emarginazione, della "separazione" del gruppo discriminato dall'altro.

Ed a riprova di quanto il pregiudizio ci sia stato e sia ancora presente oggi nei confronti dei soggetti portatori di handicap porteremo alcune definizioni che di essi fa, per esempio, la Costituzione italiana: nell'art. 34 compaiono, infatti parole come "inabili", "minorati", "invalidi". Vi prego di fare mente locale a quale impressione debba dare al datore di lavoro la richiesta di assunzione di un "inabile"!

Insomma gli handicappati sono troppo spesso ancora ingabbiati dentro a definizioni che la società nel tempo gli ha attribuito.

Bisogna allora prendere coscienza di come la terminologia usata possa diventare un veicolo di influenza sull'opinione pubblica in quanto può favorire o meno l'accettazione o il rifiuto dei soggetti, scelta che è determinante per le iniziative da intraprendere.

Come dice il neurologo Oliver Sacks: «Si può vedere una stessa persona come irrimediabilmente menomato o così ricca di promesse e di potenzialità». Due modi di vedere da cui scaturiscono due tipi di interventi diversi: uno che si pone dei compiti negativi, quello di innalzare una barriera con cui allontanare i più deboli, magari con la promessa di proteggerlo dalla realtà; l'altro che tende a sottolineare le potenzialità, le capacità e quindi a favorire e cercare l'integrazione nella società.

L'handicappato come soggetto assistito

Una concezione, la prima, statica che vede l'handicap come deficit che non può avere evoluzione. Una logica che provocava e provoca ancora oggi effetti assai negativi quali ad esempio:

- non si riconosce agli handicappati la dignità di persona e di cittadino, in quanto li si relega al ruolo passivo di assistiti;

- per ogni bisogno I'handicappato deve quindi rivolgersi all'assistenza e il riferimento all'assistenza e non al settore di competenza (casa, formazione professionale, lavoro, ecc.) contrasta con le esigenze di socializzazione dell'handicappato; è evidente che se gli handicappati non utilizzano i servizi frequentati dagli altri cittadini, vengono a trovarsi in una situazione - sempre e comunque deleteria - di isolamento;

- far riferimento all'assistenza per materie non specifiche di questo settore, significa rinunciare alle competenze professionali degli operatori, dei funzionari e dell'altro personale addetto dei relativi assessorati;

- ricorrere all'assistenza de responsabilizza i settori di competenza (scuola, formazione professionale, lavoro, trasporti, ecc.) con la conseguenza che essi tendono a diventare sempre più selettivi, avendo la concreta possibilità di

escludere i più deboli per carenza di richieste da parte degli interessati;

- è, infine, di fondamentale importanza non caricare sui bilanci dell'assistenza spese di competenza di altri settori, in quanto i bilanci stessi sono cronicamente insufficienti a coprire le esigenze delle persone più deboli e meno autonome, soggetti che, a causa delle loro condizioni psico-fisiche, non sono in grado né lo saranno mai di esercitare sulle autorità, a differenza delle altre categorie, le opportune pressioni a sostegno delle loro pur legittime rivendicazioni.

L'handicappato some soggetto di diritti

L'altra concezione è, invece, dinamica: studia le leggi dello sviluppo del portatore di handicap che non si differenziano sostanzialmente da quelle dell'uomo normale ed è ben riassunta dal pedagogista Lev Semenovic Vygotskj quando afferma:

«Non ci si può basare su quello che manca in un certo bambino, su quello che in lui non si manifesta, ma bisogna aver una sia pur vaga idea di quello che possiede, do quello che è». Una concezione, quindi, che parte dalle potenzialità invece che dalle menomazioni.

Riconoscere, accettare la propria diversità non deve necessariamente voler dire essere etichettati, emarginati, appartenere ad una "categoria" che non conosce al suo interno differenziazione, che non permette la costruzione di una propria identità, di una propria soggettività, che mette necessariamente chi è definito tale in un ruolo di subordinazione dove sono sempre "i normali", l'altra categoria, a decidere, a stabilire dove e come può avvenire il tuo accesso alla vita.

Non vi può essere un autentico soggetto laddove l'esistenza si risolve nello svolgere un ruolo predisposto da altri al posto tuo. Si diventa soggetti, quando c'è possibilità di scelta. E quanto più le tue scelte sono limitate per le tue condizioni fisiche, mentali o psichiche, tanto più quello spazio di libertà va assicurato, difeso e protetto.

Accettare il proprio handicap significa, allora, conoscere i propri limiti ma anche poterli affrontare e poter scoprire soprattutto le proprie potenzialità; questo può essere possibile solo se avere delle difficoltà non significa essere isolati dal contesto sociale.

In questa direzione due sono gli obiettivi primari a cui tendere:

- il raggiungimento della massima autonomia possibile;

- l'individuazione dei diritti che non devono rimanere più solo enunciati di principio sulla carta ma diventare veri e propri diritti esigibili.

IL RAGGIUNGIMENTO

DELLA MASSIMA AUTONOMIA POSSIBILE

II diritto alla famiglia

II soggetto handicappato costruisce l'autonomia nel tempo, fin da quando è bambino. II suo primo diritto è quindi quello di avere una famiglia come tutti gli altri bambini.

Ma la famiglia non può e non deve avere da sola la responsabilità di questi ragazzi; se così avviene, può capitare, che anche la famiglia rimanga chiusa nella gabbia che la società costruisce intorno ai "diversi". In particolare nel passato molte mamme rimanevano chiuse in una logica protettiva per cui come dice la Mannoni si comportava come «un uccello che cova un uovo che non potrà mai dischiudersi».

Fortunatamente oggi, sempre più spesso, l'immagine stereotipata del genitore ultraprotettivo e ansioso sta diminuendo. Molti genitori sono diventati attivi, lottano, hanno imparato a vivere la nascita di un figlio handicappato non come una perdita o una sconfitta, ma come una sfida. Anche di fronte a diagnosi non chiare e a inserimenti non facili, si sono informati, si sono uniti ad altri per progettare l'avvenire del proprio figlio, la sua autonomia. Questo è un grande segnale di novità. C'è in molti genitori il tentativo autentico di capire e valutare i bisogni dei figli senza lasciarsi condizionare dalle proprie ansie, né dalle oggettive difficoltà. Questi genitori si sono ribellati all’"inevitabile", hanno cercato percorsi nuovi, mai battuti prima ed hanno avuto dei risultati insperati.

Sono purtroppo ancora molti i bambini handicappati che vivono la loro infanzia in istituto. I genitori non ce l'hanno fatta a tenerli con sé, spesso anche perché poco sostenuti dalla comunità e dai servizi sociali e medici. Troppo spesso gli operatori sociali e gli amministratori locali sono a priori convinti che sia impossibile trovare famiglie disponibili ad adottare o a prendere in affidamento questi bambini.

Molti bambini handicappati trascorrono quindi la loro infanzia tra l'istituto e l'ospedale; si cerca, nel migliore dei casi, di curarli dal punto di vista sanitario e si perde di vista il fatto che spesso la malattia è aggravata o anche determinata dalla loro condizione di abbandono.

Sono, invece, già molte le famiglie che hanno accettato di adottare o di prendere in affidamento uno di questi bambini e i risultati sono stati il più delle volte molto positivi.

Il ruolo degli specialisti

Purtroppo non sempre gli specialisti hanno saputo sostenere i genitori nel loro cammino. Medici e specialisti hanno troppo spesso abituato le famiglie a vedere l'handicap come una malattia, a concentrare l'attenzione sulla menomazione. La famiglia non deve essere messa ai margini della riabilitazione del bambino handicappato, deve farne parte integrante ma riabilitazione non deve voler dire porre un'attenzione esclusiva sulle funzioni rallentate, trascurando tutto l'aspetto relazionale e comunicativo. Bisogna, infatti, sottolineare l'esigenza di sviluppare fin dalla nascita una rete di comunicazioni col bambino. II bambino deve essere abituato a vivere fin dall'inizio in mezzo agli altri, con i suoi coetanei, nelle diverse situazioni di vita senza mai rinunciare di fronte ai commenti, alle difficoltà, di fronte alle nostre paure. L'unico modo per modificare la realtà è quella di confrontarsi con essa tutti i giorni.

Le definizioni, le classificazioni sono un punto di riferimento, ma non devono mai enunciare una situazione irreversibile, né tanto meno uno "status" sociale.

Bisogna sempre riportare al centro dell'attenzione la persona con la sua identità, la sua individualità: solo allora avremo come dice Oliver Sacks "un chi" e non "un che cosa". Ed allora i "tecnici" bisogna che prima di tutto imparino ad ascoltare e a prendere coscienza che non servono a nulla, anzi a volte sono dannosi interventi calati dall'alto. Uno psicoanalista una volta mi ha detto: «Se tolleriamo di sentirci incerti e spaventati come ci si sente di fronte a qualcuno che ancora non conosciamo, possiamo sperare di essere qualche volta utili».

Bisogna uscire dal pregiudizio che sta alla base delle definizioni "incurabile", "ascolastico" o "irrecuperabile" e che definisce un limite di tempo oltre il quale non è possibile più nessun recupero. Non esiste nessun limite ultimo se non nell'idea di chi crede di non poter fare di più o che non sa come affrontare un problema. Di fronte ai limiti che la realtà, vista in modo statico, ci presenta, bisogna avere il coraggio di cercare di spostarli un po' più in là oppure avere l'umiltà di dire "io non ci sono riuscito" che è molto diverso dal dire "è impossibile"!

La scuola

L'integrazione nella scuola dell'obbligo con tutti i suoi difetti ha segnato con la legge 118 del 1971 la prima tappa nella formazione di una cultura diversa sull'handicap.

Oggi bisogna combattere contro la tendenza, purtroppo ancora abbastanza diffusa, di utilizzare l'insegnante di "sostegno" per "tener fuori" I'handicappato, magari con la scusa di un insegnamento più individualizzato, più mirato alle sue difficoltà e contro il rischio di formare, sotto mentite spoglie, classi speciali. L'inserimento diventa allora di fatto solo un mero parcheggio: la presenza dell'handicappato viene in qualche modo negata.

Sicuramente, come del resto per ogni bambino, c'è bisogno di un insegnamento individualizzato. Ma l'individualizzazione non deve escludere la socializzazione, il confronto, la possibilità di relazioni e di scambi di esperienze.

Il lavoro di individualizzazione non può essere realizzato in una situazione rigida (la classe da una parte, il bambino e l'insegnante di appoggio dall'altra), ma va invece portato avanti in una situazione più fluida in cui tutta la classe sia impegnata in modo diversificato a seconda delle difficoltà e degli interessi dell'handicappato.

l'insegnante di sostegno in questa prospettiva non deve diventare "l'insegnante del bambino handicappato", ma un insegnante che collabora attivamente nella classe anche con gli altri bambini e nel consiglio di classe.

Le norme più recenti, infatti, valorizzano l'insegnante di sostegno e specificano la sua piena contitolarità con gli altri insegnanti di classe. Non solo l'insegnante di sostegno deve partecipare alla programmazione di classe, ma anche alla valutazione di tutti gli alunni e non solo dell'handicappato. Questa seconda funzione molto impegnativa, per ora è estesa solo alla scuola dell'obbligo; nella scuola superiore si hanno tuttavia alcune esperienze significative. Rimane comunque un punto fermo: che la classe non deve diventare un luogo dove si apprendono solo delle nozioni o dei contenuti in modo più o meno attivo, ma deve essere un luogo dove avviene anche uno scambio di esperienze. È importante per tutti e, a maggior ragione per chi ha un handicap sentirsi riconosciuto e compreso come persona, esprimere e condividere con altri le proprie angosce, parlare dei problemi, trovare negli altri un atteggiamento di solidarietà e di scambio. La scuola può essere sicuramente in questo senso un luogo privilegiato d'incontro.

D'altro canto come si accennava prima la presenza del ragazzo portatore di handicap stimola il gruppo a riconoscere le diversità individuali, a tenerne conto e a sostenere il diritto ad esistere e a partecipare di ogni componente del gruppo.

Quando l'handicappato diventa adulto

L'handicappato che viene ricoverato in istituto o comunque vive separato dal contesto sociale, è come un individuo "incapsulato" in una struttura che lo protegge da ogni problema, che non lo sottopone a confronti, ma che, non offrendogli stimoli, non gli permette neanche di vivere.

Si cambia sempre in virtù di qualcosa che dall'esterno viene a far parte della nostra vita; cambiare se stessi è un'operazione di scambio; un arricchimento e un rimaneggiamento di sé in rapporto a quello che la vita ti offre o alle esperienze che fai. Per cambiare bisogna poter avere un progetto di vita, degli obiettivi da raggiungere.

Bisogna allora che la società offra gli strumenti e le opportunità adeguate perché anche un portatore di handicap possa progettare un proprio futuro. Ed, invece, a volte I'handicappato trova non solo difficoltà da superare, ma a volte veri e propri sbarramenti che gli impediscono di andare avanti nel proprio cammino.

Gli handicappati che hanno frequentato una scuola, che hanno avuto in qualche modo possibilità di cimentarsi col mondo, oggi si trovano in una situazione di svolta: bisogna attrezzarsi perché il processo iniziato non venga bloccato da una società che offre, dopo la realtà scolastica, pochissime soluzioni, possibilità di vita reali. Molti handicappati purtroppo sono rimasti delusi dalla scuola, abbandonati dopo averla frequentata.

Categorie inutili e percentuali da superare

Per costruire dei progetti reali e non fittizi sul futuro degli handicappati è importante fare delle distinzioni tra i soggetti portatori di handicap.

Finora gli handicappati sono stati divisi in categorie (fisici, sensoriali, intellettivi...) e per tipologia di handicap (spastici, ciechi, sordi...) ma questa suddivisione non permette in realtà di capire che cosa la persona è in grado di fare (o non fare), nonostante l'handicap, né ciò di cui ha effettivamente bisogno per esprimere tutte le sue capacità.

Né è sufficiente conoscere quale percentuale di invalidità le è stata riconosciuta per sapere se siamo in presenza di una persona che ha delle capacità lavorative piene o ridotte o nulle.

Se uno, per esempio, è costretto alla carrozzina, la percentuale riconosciuta è del 100% di invalidità; in realtà questi soggetti, se collocati in un lavoro che non richieda una mobilità, possono, salvo casi eccezionali, svolgere funzioni produttive come gli altri lavoratori.

Viceversa può succedere che ad un handicappato intellettivo sia riconosciuto il minimo di percentuale per entrare nelle liste di collocamento obbligatorio (46% nel 1994), mentre in realtà la persona può esprimere, per limiti oggettivi propri, una capacità lavorativa ridotta.

Gli handicappati fisici hanno bisogno di strutture, di strumenti, di abilità da parte di chi li accoglie che vadano incontro alla loro menomazione. Diverso sarà quindi il discorso per i ciechi, per i sordi, per gli spastici.

Un problema ancora diverso è quello che riguarda i soggetti handicappati psichi o intellettivi. Anche tra loro bisogna saper fare delle distinzioni chiare tra chi ha un'insufficienza mentale lieve e chi invece ha un deficit grave o gravissimo o una malattia mentale.

Handicap intellettivo e malattia mentale

La legge quadro non distingue l'handicap intellettivo (cioè l'insufficienza mentale) dall'handicap psichico (cioè la malattia mentale). E proprio perché assimilati ai malati di mente - dall'entrata in vigore della legge 482/1968 fino alla sentenza costituzionale n. 50 del 1990 - gli handicappati intellettivi sono stati esclusi dal collocamento obbligatorio al lavoro.

E con questo discorso non si vuole fare una discriminazione nei confronti dei malati mentali, ma solo affermare che sono due problemi completamente diversi che per questo richiedono un approccio diverso.

Bisogna quindi cercare uno sbocco lavorativo, una volta terminato il percorso di studi, la formazione professionale o il corso prelavorativo.

Se riconosciamo la centralità del lavoro per il benessere individuale e sociale della persona, a maggior ragione va ribadito il principio dell'inserimento della persona handicappata a pieno titolo nella società attraverso il lavoro, il solo mézzo che permette il raggiungimento di una vera autonomia, nonché fattore determinante per la realizzazione della persona.

Anche di fronte alla crisi dei lavoro non si può accettare come inevitabile il non inserimento e l'espulsione dalle aziende ed enti dei lavoratori handicappati, la rinuncia all'affermazione del diritto a rivendicare posti di lavoro per handicappati, l'accettazione passiva di risposte puramente assistenziali che sacrificano le possibilità lavorative del cittadino handicappato.

La disoccupazione, in questi casi, è doppiamente dolorosa, proprio perché aumenta il rischio, soprattutto per chi ha un handicap intellettivo, di entrare in un percorso assistenziale, dal quale è ben difficile uscire.

Bisogna, allora, nella ridefinizione dell’handicap partire dalla valutazione "saper fare" della persona handicappata, quella della reale capacità lavorativa.

Ricercare, quindi, il posto giusto per ciascuno, considerare le diverse capacità che la persona può esprimere, se sostenuta adeguatamente, è l'obiettivo della riforma del collocamento obbligatorio.

La persona handicappata non dovrebbe quindi essere avviata al lavoro solo o soprattutto in base al punteggio maturato nella lista di iscrizione del collocamento e alla sua percentuale di invalidità, ma si dovrebbe pensare di mettere la persona giusta al posto giusto, nel luogo di lavoro adatto cioè alle sue peculiari capacità.

Resta, quindi, fondamentale cercare prima di tutto di eliminare gli ostacoli che si frappongono ad una piena capacità produttiva. A volte, per esempio per gli handicappati fisici, basta l'ausilio di strumenti particolari (la tecnologia offre non pochi vantaggi in questo ambito) o qualche adattamento sul posto di lavoro (anche solo uno scivolo per eliminare le barriere architettoniche).

In alcuni casi, un handicappato può, per esempio, svolgere una determinata attività al pari degli altri lavoratori, ma avere un ritmo più lento, non essere in grado di cambiare facilmente mansione, o può essere costretto ad assenze dovute alla sua malattia e a determinate cure. Si pensi agli handicappati intellettivi, ma anche a chi è epilettico o dializzato o talassemico.

Ma in tutti questi altri casi l'individuo portatore di handicap può essere, anche se in modi diversi e particolari a seconda dei casi, produttivo.

Sicuramente, poi esistono persone handicappate che non possono essere avviate al lavoro perché la propria autonomia è molto limitata se non addirittura nulla, a causa della gravità delle loro condizioni fisiche e/o intellettive. Sono persone che non sono in grado, quindi, di svolgere alcun lavoro proficuo.

È nei confronti di questi cittadini - e solo per questi - inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi di sussistenza (1° comma dell'art. 38 della Costituzione) che lo Stato deve garantire un sistema coordinato di servizi assistenziali alla persona e alla sua famiglia.

La legge 482/1968 non ha soddisfatto queste esigenze fondamentali: le sole che possono assicurare l'interesse sia della persona handicappata che dell'azienda.

DIRITTI VERI SE ESIGIBILI

La promozione dell'autonomia e la realizzazione dell'integrazione sociale sono obiettivi che la legge quadro del 1992 si propone, ma essa non segna un significativo passo in avanti rispetto alle leggi precedenti. Nessuna prescrittività è, ad esempio, prevista rispetto al sostegno alla famiglia o agli interventi a livello domiciliare per gli handicappati gravi.

Nessuno incentivo viene dato per l'effettivo inserimento lavorativo in aziende pubbliche o private degli handicappati con ridotte capacità lavorative per i quali il lavoro può permettere l'uscita dall'assistenza. Non vengono quindi date indicazioni precise (sia giuridiche che finanziarie) per l'attuazione dei diritti che vengono riconosciuti alle persone handicappate. Si dice cioè che i vari organismi "possono" nei limiti del bilancio e non "devono"...

Se all'handicappato non si garantiscono questi elementari diritti, non gli si permette neanche di costruire la propria individualità. Ed allora la tanto sventolata in questi ultimi anni bandiera della libertà dell'individuo, non sarà altro che la copertura dei privilegi di alcuni su altri.

È per questo che bisogna ancora lottare perché questi diritti diventino "esigibili". Ma purtroppo è ancora enorme il divario che divide il dibattito teorico sui diritti dell'uomo e i limiti entro cui si svolge la loro effettiva protezione. E questo divario non può che essere colmato dalle forze politiche che devono entrare in campo con forza per la concreta difesa dei diritti dei più deboli.

Sarebbe molto grave se si dimenticassero le parole giustizia sociale, eguaglianza di diritti dell'uomo in nome di un liberismo che favorisca solo la concorrenza selvaggia e spesso sleale. Per questo bisogna parlare, urlare se necessario, far sentire la voce di chi è minoranza, ma che non per questo deve essere schiacciata, dimenticata, bisogna rompere quel "silenzio rassegnato" che spesso ha contraddistinto i "deboli".

C'è infatti oggi la tendenza a considerare normale ciò che la pigrizia morale evita di modificare e lascia fare a chi "è più forte". Diventa normale che i servizi non funzionino, diventa normale l'evasione fiscale, diventa normale la disoccupazione, diventa normale che chi è handicappato viva in una situazione di assoluta inferiorità di fronte a chi, invece, gode dì indiscussi privilegi ecc.

Contro questo tipo di normalità bisogna dire di no. Non rinunciare. Dice Bobbio: «Gli ideali stimolano il desiderio di intervenire e ci conservano ostinatamente attivi. Gli ideali politici non cercano mai di migliorare la condizione umana, ma la società umana: non ciò che gli uomini sono, ma le istituzioni delle comunità in cui essi vivono. Le leggi e le forme di governo possono aiutare a correggere i difetti degli uomini». È per questo che anche chi è volontario deve lavorare non solo per dimostrare o rendere più buoni gli altri uomini in una logica assistenziale, ma per pretendere leggi, istituzioni, servizi che rendano i portatori di handicap sempre più autonomi, sempre più uomini senza dover elemosinare gli aiuti dagli altri.

Un mio amico che ha una tetraparesi spastica mi ha detto l'altro giorno: «Ci sono troppi specialisti e poca gente che sa veramente ascoltare i problemi degli altri, che sappia parlare con loro e trovare insieme a loro e non per loro delle soluzioni». Roberto ha ragione. Oggi tutti parlano e parlano di tutti e pochi ascoltano. Non c'è tempo...

La società moderna non sembra conoscere il presente, in una corsa sfrenata verso un futuro che annienta il tempo. Chi è portatore di handicap ci consegna invece come valore importante la scoperta della lentezza come indispensabile prerogativa per l'ascolto e la costruzione di rapporti veramente e profondamente validi. Chi non ritrova questo valore difficilmente saprà ritrovare il dialogo, non quello che scavalca l'altro, ma quello che si mette in ascolto degli altri e di se stesso.

 

(*) Relazione tenuta al convegno "Handicappati intellettivi nell'Europa del 2000: orientamenti culturali ed esperienze a confronto" (Milano, 25-26-27 maggio 1995).

(`*) Psicologa, condirettrice della collana "Persona e società: i diritti da conquistare„, edita dall'UTET Libreria.

(1) E. De Rienzo - C. Saccoccio - M.G. Breda, Il lavoro conquistato - Storie di inserimento di handicappati intellettivi in aziende pubbliche e private, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991.

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