Prospettive assistenziali, n. 112, ottobre-dicembre 1995

 

 

LA RIFORMA DEL COLLOCAMENTO DEI LAVORATORI CON HANDICAP

AUGUSTO BATTAGLIA

 

 

Non è la prima volta che la norma del colloca­mento dei lavoratori con handicap giunge al passaggio decisivo della discussione in comita­to ristretto. Anzi ciò avviene periodicamente da più di venti anni, senza che però si siano mai determinate le condizioni per l'approvazione di una legge innovativa. Anzi si deve osservare che le poche modifiche alla 482, intervenute dalla sua approvazione ad oggi sono derivate dalla applicazione di sentenze della magistratura o sono maturate nell'ambito della discussione di provvedimenti legislativi più generali come la legge 56 e, più recentemente, il riordino del pubblico impiego. E comunque ad ogni passag­gio decisivo si sono riproposti nodi irrisolti, che occorrerebbe ormai sciogliere definitivamente. II criterio di riconoscimento e di valutazione del­l'handicap è indubbiamente uno dei più intricati.

II sistema vigente fa acqua da tutte le parti, si basa su tabelle rigide e meccanicistiche, su un'idea di lavoro prevalentemente manuale e fi­sico. Ha radici in un periodo storico in cui l'inva­lidità considerata compatibile con il lavoro era esclusivamente quella fisica e questa, nei casi più gravi, comportava serie difficoltà di inseri­mento in relazione alle tecnologie dell'epoca, al­le caratteristiche dei sistemi urbani, di trasporto, industriali. Del resto la 482 nel 1968 nasce co­me legge per il collocamento obbligatorio del­I'handicappato fisico. Solo successivamente con l'estensione del campo dell'invalidità civile sancita dalla legge 118 nel 1971 e grazie ad una serie di sentenze ed iniziative ministeriali la sua applicazione viene estesa all'handicap mentale e psichico.

Oggi la situazione si presenta con caratteri­stiche completamente nuove rispetto a quegli anni. In primo luogo perché la grande maggio­ranza dei giovani con handicap aspira ad un la­voro e ad un'autonomia economica. In secondo luogo perché riabilitazione, istruzione e forma­zione professionale hanno sostanzialmente ri­qualificato la domanda di lavoro che il mondo dell'handicap esprime. Infine perché lo sviluppo del terziario e delle nuove tecnologie hanno aperto nuove, inedite prospettive. E paradossal­mente, pur senza modificare alcunché, il legisla­tore ha parzialmente preso atto delle novità. Pa­radossalmente perché se da una parte la Com­missione medica certifica la cosiddetta invalidità totale, cioè la totale e permanente inabilità al la­voro, consente però al soggetto invalido al 100% di iscriversi alle liste di collocamento e, se ci rie­sce, anche di lavorare, con la sola esclusione dei casi in cui sussiste pericolosità. È evidente che un chiarimento si impone. Anche se, trattan­dosi di un terreno scivoloso, occorre muoversi con prudenza e cautela.

Intanto occorre liberarsi da posizioni di sterile estremismo. Non tutti gli handicappati possono lavorare. Ci sono situazioni di gravità estrema che escludono questa possibilità. Ma nello stes­so tempo anche un handicap grave non deter­mina necessariamente uno svantaggio da com­pensare. Si potrebbe fare un lunghissimo elen­co di persone colpite da minorazioni anche gra­vi che, prescindendo da leggi o da agevolazioni di sorta, hanno raggiunto posizioni professional­mente e socialmente rilevanti nel mondo univer­sitario, nella politica, nello spettacolo. Ed a nes­suno verrebbe in mente di riservare una quota di esibizioni al Festival di Sanremo per far can­tare un Pierangelo Bertoli o un Aleandro Baldi, né di rimborsare alle organizzazioni una quota dei loro cachet, in proporzione al grado di invali­dità. Questi e tanti altri sono casi in cui le qualità personali, opportunamente coltivate e ben indi­rizzate, hanno consentito di realizzare un collo­camento mirato, senza mediazioni di leggi e di operatori. Non richiedono alcun intervento da parte della collettività. Ce l'hanno fatta da soli.

Ma non tutti arrivano a tanto. Per cui resta il problema di come individuare i soggetti che ri­chiedono una tutela specifica ed a quali condi­zioni è possibile riconoscere agevolazioni ed in­centivi per facilitare l'inserimento al lavoro. Pro­blema inedito e legato all'idea di un collocamen­to mirato e dinamico. Nel vecchio ed arrugginito meccanismo di collocamento della 482 l'unico problema era quello di determinare una soglia di accesso. Tanto poi, una volta iscritti alle liste speciali, si restava per anni in attesa di una improbabile chiamata. Se poi per caso questa arrivava ci pensava il datore di lavoro a respin­gere il lavoratore a prescindere dalla sua capa­cità lavorativa. Ed anche nel pubblico oltre che nelle aziende private una buona raccomanda­zione risultava più utile di una qualsiasi valuta­zione di idoneità. Con la conseguenza che l'in­valido andava generalmente ad occupare pre­stazioni marginali nell'organizzazione del lavoro. Questo almeno fino al Decreto 29 che ha stron­cato il traffico degli invalidi, veri o falsi che fossero.

II nuovo concetto di collocamento mirato, che faticosamente va facendosi strada nella legislazione sul lavoro, sia con la legge 56 che con la direttiva del dicembre 1993, attuativa dell'artico­l0 42 del decreto 29, ha indubbiamente avviato un processo di cambiamento dando un suppor­to normativo alle tantissime esperienze innovati­ve realizzate nel campo della formazione profes­sionale ormai in tutta Italia, a Genova come a Mi­lano, a Trento, Bologna, Roma. II collocamento mirato è un po' l'uovo di Colombo, mettere la persona handicappata al posto giusto, nell'atti­vità più adatta alle sue attitudini e per la quale è stata professionalizzata, intervenendo se neces­sario sulla stessa organizzazione del lavoro per adattarla alle esigenze della persona o soste­nendo con incentivi ed agevolazioni il lavoratore svantaggiato. È il passaggio da un fittizio collo­camento burocratico ed assistenziale ad un in­serimento reale, intelligente e vantaggioso, oltre che per il lavoratore handicappato anche per il datore di lavoro e per la collettività.

Un collocamento intelligente deve però dotar­si di strumenti altrettanto intelligenti, se vuol fun­zionare. Perché è evidente che tanto i decimali di invalidità quanto procedure anonime e buro­cratiche risultano ormai armi spuntate. Dire che un paraplegico è invalido al 100% senza valuta­re le capacità residue e, soprattutto, se è analfa­beta o ingegnere elettronico, è operazione am­bigua ed inutile. Ed analogamente le difficoltà di valutazione dell'insufficienza mentale portano le commissioni ad oscillazioni molto ampie nell'at­tribuzione della percentuale, finanche al 100°l0. Ma definire l'insufficiente mentale inabile al la­voro è solo frutto di un pregiudizio. Dipende da cosa gli facciamo fare. Ed allora più che una percentuale occorrerebbe una valutazione più articolata e globale delle possibilità di quella specifica persona. Ed era quanto del resto si proponeva la legge 104 quando all'articolo 4 di­sponeva l'integrazione delle commissioni medi­che con un operatore sociale e con un esperto nei casi da esaminare ai fini di una migliore va­lutazione della capacità complessiva individuale residua.

Si è trattato di un passo in avanti che certa­mente aiuterà i medici legali nelle loro valutazio­ni, non sempre equilibrate ed appropriate a dire il vero. Ma il meccanismo di valutazione nella sostanza non è cambiato. II vero problema sta invece nel realizzare quello che almeno a parole tutti auspicano, cioè la ricomposizione del pro­cesso di riabilitazione, formazione ed inserimen­to, all'interno del quale va collocato il riconosci­mento e la valutazione delle capacità residue. Occorre cioè abbattere il muro che separa le Commissioni per il riconoscimento dell'invalidità dai servizi e dalle loro dinamiche. Perché solo attraverso questa stretta collaborazione è possi­bile stabilire se la persona cui è stata ricono­sciuta una invalidità ha semplicemente diritto al collocamento obbligatorio senza particolari in­terventi di sostegno, o se al contrario ha neces­sità di essere accompagnata attraverso un per­corso di formazione ed inserimento mirato, o se infine per la gravità e la complessità dell'handi­cap richiede particolari supporti ed eventuali agevolazioni per l'azienda che lo assume.

Le Commissioni mediche, opportunamente in­tegrate, in questo quadro dovrebbero in prima battuta accertare l'esistenza di un'invalidità mi­nima a giustificare una particolare tutela. II limite attualmente richiesto, invalidità superiore al 45%, può indubbiamente essere considerato una soglia ragionevole. Ma a questo punto è ne­cessario che segua una valutazione approfondi­ta della reale capacità di lavoro, di ciò che la persona handicappata sa fare o potrebbe saper fare, della sua autonomia, grado di istruzione, capacità pratiche. E contestualmente che si in­dividuino mansioni, professioni, attività lavorati­ve adatte a quella particolare situazione. Diven­tano allora decisivi due fattori. Quali servizi nel territorio sono chiamati ad elaborare, coordina­re e realizzare i programmi di inserimento al la­voro, in raccordo con gli organismi del colloca­mento. Quali strumenti devono essere previsti per facilitare il collocamento al lavoro, quali strumenti di mediazione.

Per il primo aspetto devono essere le Regio­ni ad individuare sulla base delle esperienze e delle legislazioni locali i servizi cui affidare la collaborazione con gli organi del collocamento. Sarebbe un grave errore, infatti, mortificare ope­ratori e servizi già impegnati su questa strada. Né si possono gettare a mare anni di lavoro del­le USL di Genova o dei Centri di Formazione Professionale romani o del Servizio di Inseri­mento al Lavoro dei Disabili di Milano e di tanti altri. Invece una normativa nazionale dovrebbe mettere ordine in tutto il settore delle agevola­zioni: borse lavoro, sgravi contributivi, modifica del posto di lavoro, incentivi salariali, tutti strumenti di mediazione e di sostegno previsti da leggi regionali e nazionali, che sarebbe op­portuno uniformare, regolamentare e, soprattut­to, finanziare opportunamente e continuativa­mente.

In un sistema così articolato non sarebbe più necessario "dare i numeri" per decidere se con­cedere o meno un incentivo all'azienda, cosa che indurrebbe una spinta incontenibile alla lie­vitazione delle percentuali. Ma le risorse dispo­nibili, che sappiamo non illimitate, potrebbero essere concentrate nel sostegno di quelle situa­zioni per le quali la Commissione medica prima e successivamente il servizio che ha realizzato l'inserimento abbiano riscontrato una reale e concreta necessità.

La questione era già stata posta molto con­cretamente in fase di elaborazione del DPCM 1­12-1993, che regolamentava il secondo comma dell'articolo 42 del decreto 29. In quella sede gli uffici legislativi ministeriali insistettero nel per­centualizzare la possibilità di accedere al collo­camento mirato nella pubblica amministrazione, fissando la soglia al 67%. Questo per dare mag­giore certezza alla norma, in quanto veniva con­siderata inaffidabile ed aleatoria la valutazione affidata ai servizi territoriali di inserimento al la­voro. Per di più consistenza e qualità dei servizi sono fortemente differenziate nelle diverse zone del Paese. Argomento senza dubbio solido e fondato. Ma, se giudicassimo con la stessa logi­ca l'operato delle Commissioni medico legali, ci accorgeremmo che in barba alla scientificità delle tabelle si possono documentare a parità di condizioni psico-fisiche un ventaglio di valuta­zioni molto ampio. Ed ancora si potrebbe obiet­tare: per quale motivo non si accetta per l'inseri­mento al lavoro un metodo che è largamente uti­lizzato nella scuola? Sono infatti gli operatori dei servizi del territorio che certificano la sussisten­za di problemi assistenziali e di apprendimento che determinano l'assegnazione degli inse­gnanti di sostegno e le altre provvidenze per la realizzazione dell'integrazione del bambino han­dicappato nella scuola di tutti.

Quella normativa oggi esclude dal colloca­mento mirato tanti insufficienti mentali per i quali era stato concepito, mentre lo rende praticabile per moltissimi che magari si muovono su car­rozzina, ma non per questo richiedono partico­lari processi di inserimento. Con il risultato che molti per non perdere la possibilità hanno già richiesto il riconoscimento di un grado di inva­lidità superiore. Altre pratiche, altre visite, al­tre spese inutili per la nostra sanità. A questo punto sarebbe ora di uscire da un sistema lar­gamente squalificato ed inadeguato e lavorare con più concretezza ed empirismo a migliorare i meccanismi di valutazione, formazione, inseri­mento al lavoro. Le migliaia di esperienze positi­ve ormai diffuse in tutto il Paese per quantità e qualità richiedono che si superi finalmente la fase di rodaggio e si apra una pagina nuova nel­le politiche di collocamento. Ogni anno almeno novemila giovani con handicap escono dalla scuola. In larga parte aspirano ad un lavoro e ad un ruolo sociale che la società non può più negare.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it