Prospettive assistenziali, n. 110, aprile-giugno 1995

 

 

I MIEI QUINDICI ANNI DI VITA AL COTTOLENGO DI ROMA

 

NUNZIA COPPEDÈ (*)

 

 

 

Nella prima parte del libro "AI di là dei giraso­li" (ediz. "Sensibili alle Foglie"), ho raccontato quindici anni della mia vita che ho trascorso ri­coverata al Cottolengo di Roma, un istituto di so­le donne, con circa seicentocinquanta ricovera­te, comprese in una fascia di età che andava dai due ai cento e oltre. Più volte ho citato tra un episodio e l'altro di questa esperienza le difficol­tà incontrate in quel tipo di convivenza forzata con persone che non avevano una disabilità fisi­ca come la mia, ma che avevano un handicap intellettivo o psicofisico.

Ho dormito per dieci anni in una camera con sedici letti, e tra tutte le ricoverate ospiti di ca­mera, solo due avevamo un handicap fisico, le altre avevano tutte un handicap psicofisico più o meno grave. Negli anni che ho trascorso al Cot­tolengo io seduta sulla carrozzella, sentivo un forte rifiuto nei confronti delle persone che ave­vano una disabilità intellettiva. Le ritenevo per­sone inferiori, donne che vegetavano, e le invi­diavo. Pensavo che se non capivano, non si ren­devano conto di quanto la sorte era stata amara con tutti noi. Oltre alle persone che vivevano nel mio reparto, c'erano altre donne chiuse in un re­parto apposta chiamato il reparto delle "buone figlie". Questo nome gli si addiceva proprio poi­ché erano innocue, a loro si poteva fare di tutto, non sapevano difendersi.

AI piano terra di uno dei padiglioni dell'istituto c'erano delle donne che fisicamente non aveva­no niente, ma da come si comportavano era chiaro che avevano dei problemi di insufficienza mentale: saltavano senza grazia, correvano e senza motivo ridevano o piangevano, battevano le mani. Passavano la giornata senza fare nien­te, non erano previste attività, le portavano in chiesa e se era una bella giornata le portavano a fare un giro in giardino. Mi parevano tutte uguali; grasse, capelli cortissimi, con dei grem­biuloni larghissimi a quadri, con la bava che co­lava giù dalla bocca e con un acre odore di uri­na mista a sudore. In questo reparto c'era an­che Pina, una ragazza con la sindrome di Down. Pina era sorella di Anna Maria, una ragazza con la spina bifida che viveva nel mio reparto. Anna Maria mi diceva sempre che sua sorella Pina, quando era a casa aiutava la mamma nelle fac­cende di casa e usciva a fare delle spese. Ri­cordo che quando veniva a trovare la sorella era sempre ben vestita. Dopo poco che l'hanno ri­coverata in istituto la si confondeva con le altre, era diventata grassa, le avevano tagliati i capelli cortissimi, portava il grembiulone, vegetava tutto il giorno.

Poi c'era il reparto delle gravissime, tutte in una stanza molto grande, circondata da seggio­lini che sotto avevano il water. Queste bambine o signorine passavano la giornata sedute sul seggiolino, le suore le legavano per evitare che si alzassero, ciondolavano la testa da destra a sinistra continuamente, indossavano tutte un camice aperto dietro, le lasciavano senza mu­tande, ogni tanto passava la suora e tirava gli scarichi dei water.

Se veniva qualcuno per una visita ad una ri­coverata di queste, allora veniva tolta dal seg­giolino, veniva vestita della festa e accompagna­ta in parlatorio.

In istituto si diventava molto individualisti, for­se perché quello che si aveva era proprio poco, inoltre nessuna di noi aveva scelto di vivere con le altre. Esisteva tra noi tanta diffidenza: l'altra era colei che ti toglieva qualche briciola, un po' di spazio, l'attenzione della suora. Con chi aveva un handicap psichico io e le altre con handicap fisico eravamo indifferenti, convintissime della loro irrecuperabilità, perché così ci dicevano le suore, e facevamo le "schifettose" nei loro con­fronti per la bava e per cattivo odore di piscio misto con il sudore che era caratteristico quoti­diano nelle "buone figlie".

Ricordo che io avevo il bicchiere, le posate e i piatti personali, perché non avrei mai mangiato o bevuto con il piatto o il bicchiere usato da un'altra persona, se poi questa era una Buona figlia credo che piuttosto sarei restata senza mangiare e bere. Certo io non ero l'unica a pen­sarla così, questo era un comportamento nor­male per tutte noi.

Oggi che vivo in una comunità autogestita, ho una dimensione diversa del rapporto con l'altro, questa nuova esperienza mi ha cambiata completamente, non è cambiato solo il mio at­teggiamento nei confronti di persone con handi­cap psichico, ma il mio modo di pensare. So­prattutto mi è sparito completamente il concetto di irrecuperabilità nei confronti dei disabili intel­lettivi.

Se prima era per me normale vedere persone che vegetavano tutto il giorno, oggi l'esperienza mi ha insegnato che al di là di tutte le difficoltà, evidenti o no, ogni persona ha modi di esprimer­si attraverso le proprie potenzialità, o che que­ste devono venire maggiormente stimolate.

Ora ho toccato con mano che piccole conqui­ste, che all'occhio umano possono sembrare in­significanti, sono invece importantissime, gran­diose, in alcuni handicappati gravissimi molte volte sono risultati di anni di qualificato e pa­ziente lavoro.

Sono scomparsi in me tanti pregiudizi. Cono­sco persone con handicap intellettivo che hanno raggiunto un buon livello di autonomia, che hanno imparato a realizzare dei lavori digni­tosi, che vestono alla moda, che si asciugano la bava, che vanno al bagno da sole, che non puz­zano più; che hanno imparato a muovere il loro corpo con grazia... e che ci tengono a farlo.

Cosa è cambiato? II contesto sociale, l'am­biente abitativo, alcune barriere psicologiche nei loro confronti.

II contesto "istituzione totale" danneggia la persona e la rende un nulla. Una vita trascorsa in istituto è una vita non vissuta, è morte perso­nale e civile. Per questo sono convinta che al di là del tipo di disabilità che può avere una perso­na, la soluzione ai problemi di assistenza non si può mai trovare nell'istituzione totale, ma bisogna percorrere altre vie con dimensioni più umane. Le proposte possono essere tante e diverse: la scuola, la formazione professionale, corsi per l'autonomia, interventi socio-assistenziali in se­mi-internati, inserimenti lavorativi mirati, indivi­duali o in cooperative integrate, ecc.

Si possono inventare inoltre sostegni alle fa­miglie, servizi riabilitativi, assistenza personale. La cosa più grave secondo me è che nonostan­te ormai ci sia la consapevolezza che le alterna­tive all'istituzione esistono o possono esistere, si possono organizzare, lo spettro dell'istituzione totale continua a regnare su tutti noi disabili. La verità è che la rimozione del già precario siste­ma assistenziale va a scombinare sicurezze e stabilità radicate nella nostra cultura. Purtroppo al di là delle denunce, del tentativo di sensibiliz­zare l'opinione pubblica su questi argomenti, al di là anche del fatto di dimostrare che esistono già delle alternative molto più valide e umane, le istituzioni totali ricevono ancora oggi largo con­senso. Alcune volte senza esserne consapevoli, altre con consapevolezza, siamo tutti responsa­bili del sequestro di persona di moltissimi uomi­ni e donne che pagano un prezzo caro per es­sere nati o diventati disabili. Ma questo è un se­questro autorizzato e "legale".

 

 

(*) Relazione tenuta al 1 ° convegno europeo "Handicap­pati intellettivi nell'Europa del 2000: orientamenti culturali ed esperienze a confronto", Milano, 25-26-27 maggio 1995.

 

 

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