Prospettive assistenziali, n. 107, luglio-settembre 1994

 

 

Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale

 

 

IL BAMBINO SUD (*)

 

Ogni Paese ha il suo Sud la cui collocazione geografica non sempre coincide con il posizio­namento dell'ago sulla bussola e, in questo Sud, vivono dei bambini le cui storie esprimono e rappresentano il Sud più Sud del mondo.

Se proviamo a ruotare il mappamondo e a fare lo sforzo di concentrarci su ogni singola na­zione che, mano a mano, ci viene incontro dall'Africa, dall'Asia, dall'America Latina e dall'Europa, soffermandoci a considerare come è vis­suta l'infanzia, ci renderemo conto che i bambini che vivono in situazioni di indigenza, sfruttamen­to e abbandono sono una massa enorme.

Eppure i bambini rappresentano il futuro, ci restituiranno, domani ciò che diamo - o non diamo - loro oggi. E dobbiamo dare in fretta. L'infanzia è breve: è un contenitore che permet­te al bambino di incamerare modelli culturali, sociali, morali e di comportamento per poi po­terli riproporre e trasmettere da adulto.

La condizione dell'infanzia è il biglietto da visi­ta di un Paese.

II Brasile, ad esempio, è tristemente identificato con il problema dei "meninos de rua" (bambi­ni di strada). Chi di noi ha avuto modo di vedere reportage, leggere libri ed articoli, può ben com­prendere di cosa io stia parlando. Ma quando il racconto è fatto dalla viva voce di qualcuno per cui questa vita è la sua vita quotidiana e questo qualcuno ti sta davanti guardandoti con occhi intensi, capace di memorizzare il più piccolo cambiamento della tua espressione, perché è sicuro che quanto sta dicendo non può non avere effetto su di te, la cosa cambia aspetto. Ci si rende conto che a ben poco serve la corazza che ci si è volutamente cucito addosso nel tem­po, con tenacia e caparbietà. Riesce difficile staccare gli occhi da quelle labbra che conti­nuano il racconto che si vorrebbe fermare, si sente che la pelle si accappona e si vorrebbe fuggire. Un senso di impotenza e di frustrazione si fa strada lentamente. Si cerca di nascondere il braccio con l'orologio, la mano con l'anello o la borsa di pelle alla moda che appaiono vera­mente inutili e che ci fanno sentire parte portan­te di quel consumismo che traccia il solco tra il Nord e Sud del mondo. Ma lui, Luiz, continua inesorabile: «Mamma e papà litigavano sempre, papà non aveva un lavoro fisso, beveva, picchia­va la mamma che ogni tanto fuggiva lasciando i bambini da soli che dovevano arrangiarsi fino al suo ritorno. La tranquillità durava un giorno 0 due e poi tutto ricominciava da capo. I fratelli più grandi già facevano parte di una banda che cer­cava sopravvivenza sulle strade e a casa torna­vano solo per vedere se c'era ancora».

Lui, il più piccolo, era lì ad aspettare di cre­scere ansioso di seguire le orme dei fratelli. Non dovette attendere molto: serviva un bambino che tenesse le armi prima e la refurtiva poi. Così, nel caso fosse stato fermato, poliziotti e giudici, data la sua giovane età, sarebbero stati più clementi. Ormai era in carriera. Si sentiva importante, i grandi avevano bisogno di lui e gli davano fiducia: uscì di casa - se casa si pote­vano chiamare le quattro lamiere vicino alla fo­gna a cielo aperto - anche lui viveva sulla stra­da, dormiva al riparo di scatole di cartone, ma era entrato in una "famiglia autogestita", la gran­de famiglia dei ragazzi di strada, dove c'era par­tecipazione, solidarietà e protezione nel mo­mento del bisogno; bastava rispettare i ruoli e gli incarichi. Scorribande, furterelli, lotte con le bande avversarie riempivano le giornate. Era come un gioco dove la posta era la vita. Lo sco­privano quando qualche amico veniva trovato morto ammazzato. Certo erano momenti tristi, ma duravano poco perché la lotta quotidiana per la sopravvivenza prendeva il sopravvento. E si ricominciava dimenticando la tristezza, l'an­goscia, le paure e i pianti fatti di nascosto per non perdere la fama. A 14 anni Luiz - l'ha di­chiarato lui, non si sa se per spavalderia o se era verità - aveva sulla pelle quattro omicidi, va­rie rapine, spaccio di droga, furti e una serie di denunce di cui non ricordava il numero.

Eppure nella Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia si legge che gli Stati parti della Convenzione «... Ricordato che nella Dichiarazio­ne universale dei diritti dell'Uomo le Nazioni unite hanno proclamato che l'infanzia ha diritto a misu­re speciali di protezione ed assistenza... Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in parti­colare dei fanciulli, debba ricevere l'assistenza e la protezione necessarie per poter assumere pie­namente le sue responsabilità all'interno della comunità... Riconoscono che il fanciullo, per il pieno ed armonico sviluppo della personalità, de­ve crescere in un ambiente familiare, in un'atmo­sfera di felicità, amore e comprensione...».

Anche l'india ha i suoi "street children" (bam­bini da strada); non sono organizzati in bande e sono meno abbandonati, nel senso che sulla strada non vivono da soli ma insieme alle loro famiglie e, da queste, molte volte sfruttati.

Storpiare un bambino per suscitare maggior pietà, e conseguente adeguata elemosina, era pratica molto diffusa al punto di creare delle ve­re e proprie categorie di professionisti addetti a tale incombenza.

In India circa 45 milioni di minori fanno parte della "forza lavoro". Quasi tutta la produzione di fiammiferi a Sivakas (Tamil Nadu), non è mecca­nizzata. Vi lavorano circa 50.000 bambini al di sotto dei 15 anni. Essi abitano in villaggi lontani dalla fabbrica e tra le 3 e le 5 del mattino, ven­gono svegliati e stipati dentro gli autobus (anche più di 200 in uno) e portati al lavoro per tornare a casa tra le 6 e le 9 di sera. Sebbene lavorino solo 12 ore, di fatto stanno fuori dalle 15 alle 16 ore al giorno. Molti bambini sono al di sotto dei 7 anni e le bambine sono numericamente superio­ri. Fanno scatole, incollano etichette, contano i fiammiferi. Nell'industria dei fuochi d'artificio tin­gono la carta, fanno i petardi e impacchettano il prodotto finito.

Questi bambini soffrono per il caldo, per i fumi tossici, per l'eccessivo lavoro delle braccia, del­le spalle e per lo stress; il ritardo di un secondo può causare l'incendio di tutta la struttura con conseguenze immaginabili. Guadagnano da 5 a 10 rupees al giorno (250-500 lire).

Proprio a New Delhi lo scorso 19 gennaio, Mr. Swami Agnivesh, presidente del Fondo delle Na­zioni unite contro le forme di schiavitù contem­poranea, insieme ad altri 76 premi Nobel ha lan­ciato un appello per la creazione di una nuova organizzazione internazionale che lotti contro il lavoro e lo sfruttamento dei bambini di tutto il mondo. Nell'appello si afferma che «nel mondo più di 200 milioni di bambini - l'equivalente della popolazione di Gran Bretagna, Francia, Germa­nia e Olanda messe insieme - sono costretti ogni giorno a lavorare come fossero adulti».

Eppure nella Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia si legge che «... gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo ed allo svago, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età, ed a partecipare libera­mente alla vita culturale ed artistica... Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo ad essere protetto contro lo sfruttamento economico e qualsiasi tipo di lavoro rischioso o che interferi­sca con la sua educazione o che sia nocivo per la sua salute o per il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale».

L'India è firmataria della Convenzione.

Pure l'Italia del dopoguerra ha avuto i suoi "bambini di strada": gli "sciuscià", cultori dell'ar­te di arrangiarsi per sopravvivenza propria e delle loro famiglie. Se ci guardiamo indietro, dobbiamo constatare che abbiamo percorso parecchio cammino, ma per arrivare dove? Ora godiamo di una situazione economica diversa, promulghiamo leggi, ratifichiamo Convenzioni, inventiamo Statuti a tutela dell'infanzia; siamo diventati, se così si può dire, più "civili", più ordi­nati. Le nostre strade non sono infestate da bande di ragazzini che disturbano i passanti e derubano i commercianti, viviamo tranquilli. Tranquilli - o piuttosto ciechi - perché i nostri 55.000 bambini, o forse più (il numero esatto nessuno lo conosce) stanno chiusi negli istituti.

Certo è difficile stabilire chi sta meglio e chi sta peggio, se i bambini che passano l'infanzia sulle strade o quelli che stanno in istituto.

In tanti anni di attività, visitando Paesi diversi, questa domanda me la sono posta parecchie volte senza riuscire a trovare una risposta defi­nitiva. A volte mi sembra meglio l'una, a volte l'altra: non ho mai avuto certezze.

Chi, di fronte a situazioni tragiche che coinvol­gevano i bambini, non ha sentito l'impulso di portarseli a casa? Da un lato questo è positivo, perché è indice di sensibilità e umanità: ricordo quanto diceva il Presidente di un Tribunale per i minorenni tanti anni fa: «Se noi chiudessimo gli istituti e mettessimo i nostri bambini sulle strade sono sicuro che prima di sera tutti troverebbero ospitalità in una casa». Dall'altro, però, mette in risalto quanto un gesto così altruistico nasca da una spinta emotiva sollecitata da un fattore esterno, piuttosto che da un consapevole pro­cesso di maturazione verso la condizione dell'infanzia o dal desiderio di maternità e paternità.

Nell'esaminare le motivazioni che portano le coppie ad avvicinarsi all'adozione internazionale e nel valutare con loro le possibili cause dell'ab­bandono di un bambino, la povertà emerge in modo predominante, quando non assoluto, co­me se ci fosse una sorta di obbligata equazione: povertà = mancanza d'amore. È difficile far comprendere che la mancanza di mezzi econo­mici quasi sempre è solo una concausa alla quale vanno ad aggiungersi la povertà morale, la disgregazione familiare e sociale, la giovane età, la mancanza di servizi e supporti. Ancora più difficile far passare l'idea che, in alcune si­tuazioni, l'abbandono può anche essere un atto d'amore nei confronti del bambino generato, ma che non si può crescere. Ed è proprio in nome della povertà dei genitori biologici che molte coppie aspiranti all'adozione giustificano la pro­pria scelta e tentano di annullare parte dei sensi di colpa che scaturiscono da ansie predatorie, da atti non sempre limpidi, non sempre legali, che in alcuni casi precedono l'adozione di un bambino straniero. Convinti e orgogliosi che con loro il bambino starà bene, perché loro gli da­ranno di più, si sentono assolti. Ma come posso­no due adulti che si propongono come genitori, come educatori erigersi a giudici e stabilire, in base a criteri non certo obiettivi, l'incapacità o l'indegnità del ruolo genitoriale della famiglia d'origine?

Il desiderio di avere un bambino diventa tanto forte da trasformarsi, a volte, in un vero e pro­prio presunto diritto al figlio tanto agognato. Tut­to il resto passa in second'ordine; si cancellano i contenuti ideali, che per noi sono insiti nell'adozione; si svilisce l'intervento riparatorio nei confronti del bambino; non si sanano le sue ferite ma, al contrario, se ne aggiungono altre.

Il bambino, inoltre, deve rispondere a determi­nate aspettative: è importante che arrivi presto, anzi subito. Sempre più richiesto è il bambino piccolo, sano e possibilmente bianco, quello che non fa fatica ad inserirsi, quello che pone e porrà meno problemi a genitori, parenti e comu­nità allargata. Pochi sono coloro che intendono l'adozione come il mettersi a disposizione di un bambino già nato e che sta crescendo senza mamma e papà in qualche parte del mondo.

A questo punto, è forse necessario fare un lungo passo all'indietro. Perché il CIAI, nel 1968, si è fatto promotore dell'adozione internaziona­le? Che cosa si diceva allora quando si presen­tava questo problema, qual era la sfida lanciata alla società in quel contesto storico?

Scriveva il CIAI nella sua presentazione di al­lora: «Milioni di bambini in tutti i Paesi del mondo vivono aspettando una famiglia. Essi rappresen­tano il prodotto di società che nel loro processo di evoluzione culturale e tecnologia stanno per­dendo di vista l'uomo e la sua dimensione. Nelle civiltà primitive, dove l'assetto sociale è di tipo tribale, esistono gli illegittimi e gli orfani, ma non i bambini senza famiglia. II bambino privo di ge­nitori viene inserito in un'altra famiglia o comun­que accettato dalla comunità, senza alcuna preordinata e sofisticata pianificazione della protezione del bambino».

Già allora si diceva che «nelle società più "evolute", nonostante gli ammonimenti di studio­si e scienziati sui rischi di una evoluzione socio­culturale che non sia a misura di uomo, stiamo realizzando modelli sociali che, in nome di un ipocrita protezionismo, tendono ad escludere gli individui le cui caratteristiche non rientrano in certe norme codificate. Fra questi gli orfani, gli illegittimi e i bambini senza famiglia, cioè gli isti­tuti dove, anche quando tutto è stato moderna­mente e scientificamente organizzato, manca pur sempre l'essenziale: il modello dei genitori in cui identificarsi, il calore e gli stimoli affettivi che solo la famiglia può garantire e che sono in­dispensabili per un equilibrato sviluppo del bambino. Ecco che gli istituti si rivelano per ciò che in effetti sono: occasioni di deresponsabiliz­zazione della società in nome di un falso con­cetto protezionistico; occasioni di difesa della società contro l'individuo non autosufficiente e, quindi, supposto parassita sociale; depositi di bambini esclusi e primo stadio di un processo di emarginazione dell'individuo che è nato non in regola con le norme sociali».

Milioni di bambini nel 1968 lanciavano questa sfida alla società. Piano piano l'adozione si è fat­ta strada e con essa anche l'adozione interna­zionale, il cui numero delle richieste tende co­stantemente ad aumentare. Ma non per questo è venuta meno la sfida originaria che al contra­rio si è rafforzata: l'adozione internazionale rap­presenta il superamento non solo del vincolo di sangue, ma anche del vincolo di razza. Come aveva affermato già nel 1962 I'Unesco nella sua dichiarazione sulle razze, sostenendo che l'umanità intera appartiene all'unica specie dell'Homo sapiens.

Tutto ciò può apparire di un'ovvietà banale, ma l'ostinata presenza in ogni popolo di pregiu­dizi razziali, mantiene aperta la sfida. Quando l'adozione internazionale avrà acquisito in pieno la propria dignità e non sarà più vissuta come una miniera da sfruttare, una nuova forma di co­lonialismo, ma come una forma di filiazione pie­na che parte dal bisogno del bambino, l'umanità avrà compiuto un salto di qualità nella sua espressione globale e nelle sue singole realtà nazionali. E il concreto riconoscimento dei diritti del bambino "solo" avrà fatto un altro passo avanti. Togliere un bambino alla solitudine, farlo evadere da un istituto e aprire a lui la nostra fa­miglia vuol dire conseguire due risultati in uno: offrire a un bambino - non importa da chi nato, né dove, né come - l'unico habitat in cui potran­no rimettersi in moto i suoi processi vitali di re­cupero e di crescita, ma anche invertire la peri­colosa tendenza di chiusura della famiglia mo­nonucleare, spesso prigioniera degli agi acqui­siti, per farle riscoprire il valore che non solo ne giustifica l'esistenza, ma la rende, per certi aspetti, insostituibile.

Siamo soliti dire che, dal punto di vista psico­logico, l'adozione non può mai essere a senso unico. L'adulto accoglie il bambino che non ha procreato e lo fa suo figlio, ma il bambino che entra nella casa di chi non l'ha concepito, ha a sua volta il diritto di accettare o respingere colo­ro che si propongono come madre e padre. Se ciò è vero, se è vero che, a livello psicologico, non basta adottare ma occorre anche farsi adottare, la reciprocità si ripropone, anzi si im­pone a livello sociale. Non possiamo nascon­derci che il mondo e l'ambiente ai quali apparte­niamo e quelli dai quali provengono i nostri figli asiatici, africani o latino americani, si collocano frontalmente, come su lati opposti di una barri­cata: di qui il mondo del benessere, di là quello della spogliazione.

Molti di noi si sono chiesti se anche l'iniziativa del CIAI, pur strappando centinaia di creature da una condizione di semplice sopravvivenza in istituto, non rischi di ridursi a un'attività assi­stenziale non solo per coloro che adottano ma anche per le società d'origine e d'adozione. Molti di noi si sono chiesti se l'adozione interna­zionale non rischi di allontanare nel tempo solu­zioni più radicali ma in definitiva migliori. Occor­re però essere realisti. I bambini non resteranno sempre tali, crescono in fretta, molto più in fretta dei Paesi dove nascono. Non tutti i Paesi oggi sono in grado di offrire un reale accoglimento e inserimento a livello locale e possiamo immagi­nare che riusciranno a farlo dopo evoluzioni so­ciali e culturali molto lente. Nel frattempo lui - il bambino - e molti altri dopo di lui sarebbero so­lo degli sradicati all'interno del proprio ambien­te. L'adozione internazionale resta un'iniziativa valida nella misura in cui diventa, qui e là, anche una provocazione in grado di tradursi in precisi atti di volontà politica. Qui la presenza di figli così "diversi", che domani potrebbero essere i nostri accusatori, è forse la premessa a quel contributo di profonda trasformazione che l'umanità si attende anche da noi. Là, la "fuga" dei loro bambini dovrebbe stimolare la program­mazione politica di progetti assistenziali più inci­sivi e favorire l'evoluzione culturale dell'acco­glienza, così da ridurre progressivamente il ri­corso all'adozione all'estero.

Abbiamo infranto il tabù del "figlio di sangue", abbiamo infranto il mito della "razza", ma oggi, 1994, milioni di bambini lanciano una nuova sfi­da: vogliono essere bambini, con una vita da bambini, rispettati, curati e amati come i bambini devono esserlo.

Questa è l'era in cui costantemente si parla di diritti, si rivendicano i diritti, si difendono i diritti. Forse il più importante diritto, per un bambino, è quello di essere considerato un essere umano e questo è un dovere che spetta à noi adulti di as­solvere. Molto spesso, nella storia, i bambini so­no stati vissuti come legittima proprietà dei geni­tori e questo atteggiamento è tuttora persisten­te. In molte circostanze il bambino è vittima dell'egoismo dei suoi stessi genitori e si rende necessario ricorrere all'intervento dello psicolo­go affinché ripari i danni prodotti dagli adulti su di lui.

Sempre più spesso assistiamo ad una corsa frenetica verso varie forme di maternità assistite, fecondazioni in provetta, uteri in affitto, figli com­missionati, programmati e selezionati in base a indici di gradimento: non si può banalizzare il desiderio di avere un figlio in chi sceglie questi percorsi, ma si impongono altri interrogativi. Già nel 1990, durante la 28 Conferenza mondiale "Adozione internazionale: tra norma e cultura", organizzata dal CIAI, si lanciava l'allarme sul "dopo nascita" di questi bambini e sulle inco­gnite del loro futuro. Quanto si paventava è già realtà: alcuni fra questi bimbi vengono abbandonati, altri disconosciuti da colui che all'anagrafe si era dichiarato il genitore. Ed eccoci nuovamente ad invocare l'intervento di una legge, che ancora non c'è, che regolamenti questa materia, che limiti il libero arbitrio del ge­nitore.

Abbiamo prodotto una serie non indifferente di convenzioni nazionali e internazionali, di leggi, di statuti, di codici etici che si pongono come obiettivo la tutela dei diritti dei bambini e ogni giorno ne chiediamo aggiornamenti e maggiori precisazioni; sempre più facciamo ricorso a questi strumenti esterni tesi a delimitare spazi, ad erigere steccati. Quanto più sentiamo il biso­gno di ricorrere a normative che ci ordinino il percorso da seguire, tanto più si evidenzia, in modo macroscopico, che è venuta meno la ca­pacità personale di scindere ciò che è consenti­to da ciò che non lo è, ci è venuto a mancare o si è assopito qualche cosa che dovrebbe esse­re innato, una sorta di patrimonio genetico: il senso del rispetto per l'altro, chiunque esso sia, il senso del limite per il nostro diritto e l'assun­zione di responsabilità che ogni persona ha nel momento in cui vive e costruisce la società per sé e per coloro che proseguiranno dopo.

La forbice che divide il Nord e il Sud del mon­do tende sempre più ad allargarsi. Alcuni Paesi dell'Est Europa hanno fatto cadere le loro bar­riere e un nuovo Sud si è inserito ad allontanare maggiormente l'obiettivo, da molti perseguito, di rifondare una società che si basi e trasmetta autentici valori non attraverso astratte dichiara­zioni, ma nel vivere quotidiano, nel contatto fisi­co ed emotivo che è espressione concreta di amore.

Loro, quelli del Sud del mondo "avranno" solo se noi, quelli del Nord del mondo, smetteremo di proporre modelli che incrementano e premiano l'egoismo e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Continueremo a chiedere ai governi l'emana­zione di politiche tese a ridurre il divario tra Nord e Sud. Nel nostro piccolo abbiamo ridato una famiglia a 1229 bambini e consentito la fre­quenza scolastica ad altri 496.

 

 

 

(*) Relazione tenuta da Gabriella Merguici all'incontro internazionale di Castiglioncello del 6-7-5 maggio 1994 sul tema "II bambino Sud".

 

 

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