Prospettive assistenziali, n. 107, luglio-settembre 1994

 

 

I DIRITTI DELLA PICCOLA A.D. SONO STATI RISPETTATI?

 

 

Riportiamo integralmente (1) la lettera inviata in data 1° giugno 1994 dalla Presidente dell'As­sociazione Progetto Accoglienza (Via Andrione n. 38, 95124 Catania, tel. 095/31.26.91) ai Presi­denti e ai Procuratori della Repubblica dei Tribunali per i minorenni di Caltanissetta e di Catania, al Pretore di Troina, al Servizio sociale del Comu­ne di Catania, al Servizio materno-infantile dell'USL 36 e, per conoscenza, all'USL 18 e all'Istituto Oasi Maria Santissima di Troina, alla sede centrale e alla Sezione di Catania dell'Asso­ciazione Bambini Down, all'Associazione Telefonica Assistenza, al Coordinamento nazionale per la difesa e piena attuazione della legge 184/83, all'Associazione nazionale famiglie adottive e af­fidatarie, alla Comunità papa Giovanni XXIII (sede centrale e zona Sicilia) e all'Associazione italiana Avvocati per la famiglia.

 

 

Già in data 21.6.1993 la nostra associazione segnalava ai Tribunali per i minorenni di Calta­nissetta e Catania, al Servizio sociale del Comu­ne di Catania, alla USL 36 di Catania e, per co­noscenza, alla USL 18 di Troina, all'Istituto Oasi Maria Santissima di Troina, all'Associazione Bambini Down - sezione di Catania e all'Asso­ciazione di assistenza telefonica all'infanzia "Te­lefono del Sole" di Catania, la situazione della piccola A.D., ora di anni 5 e mezzo, ricoverata fin da piccolissima presso l'istituto Oasi Maria San­tissima di Troina perché affetta da sindrome di Down, e i cui genitori risiedono in C., via P.

Poiché non ci risulta che alla data della nostra segnalazione sia stata modificata la condizione di vita della piccola A.D., teniamo a ribadire quanto sottolineato nella nota del 21.6.1993, e precisamente:

1) in base alla legge 184/83 è preciso diritto del minore «essere educato nell'ambito della propria famiglia» (art. 1), e nel nostro ordina­mento un diritto soggettivo non può essere mi­sconosciuto, ma va esigito e tutelato;

2) in nessun articolo la legge 184/83 affievoli­sce il diritto del minore a vivere nella propria fa­miglia nel caso della presenza di un handicap.

Per quanto, poi, in particolare, attiene allo specifico handicap di A.D. (sindrome di Down associata, sembra, a malattia celiaca ed a car­diopatia congenita per la quale, peraltro, è stata operata con ottimi risultati) è tassativamente da escludersi che esso richieda la permanenza in istituto specializzato. Anzi, è ormai universal­mente noto che il pieno inserimento affettivo e relazionale nella vita familiare e sociale sia lo stimolo veramente efficace per l'acquisizione delle abilità perseguibili dalle persone Down.

La stragrande maggioranza delle persone Down, infatti (e cioè tutte quelle che non hanno subito la non accettazione, il rifiuto e, quindi, l'abbandono più o meno conclamato della fami­glia di sangue), vivono una vita assolutamente normale nella propria famiglia (e cioè la famiglia degli affetti, che sia quella di sangue, o adottiva, o affidataria), frequentando le scuole pubbliche e tutti i luoghi di socializzazione previsti per i lo­ro coetanei, e sono in grado di inserirsi lavorati­vamente in molti settori della vita produttiva. Certo, tutti vengono aiutati nel loro sviluppo psi­co-fisico da programmi di fisioterapia, logope­dia, psicomotricità, musicoterapia, ippoterapia, ecc., ma sempre ambulatorialmente o presso strutture sanitarie o ricreative aperte al pubblico (studi professionali, palestre, piscine, impianti sportivi, ecc.); né ciò costituisce un oneroso ag­gravio di fatica per i genitori, in quanto è noto come la maggior parte dei bambini frequenti og­gi, oltre la scuola, strutture ricreazionali di tipo sportivo o di animazione;

3) la legge 184/83 all'art. 8 consente il ricove­ro in istituto di un minore solo se esso è dovuto a «forza maggiore di carattere transitorio».

La sindrome di Down non ha carattere transi­torio: chi nasce Down, tale rimane per tutta la vi­ta, e spetta ai genitori prenderne atto.

La sindrome di Down non è «forza maggiore» che imponga l'allontanamento del minore dalla famiglia: essa non richiede la degenza in istituto, come già ampiamente sottolineato al punto pre­cedente, e quindi non giustifica la permanenza di A.D. presso l'Oasi Maria Santissima di Troina;

4) ci risulta che A.D. presenti quegli atteggia­menti di ricerca del contatto fisico, di autolesio­nismo, di aggressività, di movimenti stereotipi, di mancanza di allegria, che ben conoscono colo­ro che hanno accolto nelle loro famiglie dei mi­nori precocemente istituzionalizzati o comunque carenti dal punto di vista affettivo.

Molti sono gli studi (Spitz, Bowlby, ecc.) che sottolineano come la precoce carenza affettiva (e cioè non la mancanza di un generico affettuo­so accudimento, bensì la mancanza di stabili fi­gure significative che scelgano per sempre il bambino e gli dedichino giorno dopo giorno il loro cuore, la loro mente, la loro vita) provochi gravi disturbi nella personalità e nello sviluppo anche fisico. Nessun bambino impara a parlare perché riceve un adeguato trattamento di logo­pedia, neanche i bambini Down. II bambino im­para a parlare perché vuole comunicare con la madre che ama e da cui è riamato. E ciò vale anche per il bambino Down, anche se nel suo caso è opportuno integrare il normale stimolo familiare con un programma di trattamento logo­pedico ambulatoriale.

Quali che siano gli interventi riabilitativi cui A.D. è stata sottoposta presso l'istituto che la ospita, quindi, ci sembra di poter ragionevol­mente dubitare che la prolungata istituzionaliz­zazione le abbia arrecato giovamento nello svi­luppo psico-fisico. Peraltro, anche da fonte giu­ridica, è sottolineato il danno che il minore subi­sce dalla istituzionalizzazione e lo stretto colle­gamento tra prolungato ricovero e stato di ab­bandono: «La prolungata istituzionalizzazione, dimostrando un sostanziale disinteresse della madre per i minori e privando costoro dell'am­biente familiare e, comunque, delle cure mate­riali e morali che i genitori prestano normalmen­te ai figli, è indice di per sé di uno stato di ab­bandono, confermato nella specie dai danni psi­cologici, subiti dai minori stessi» (Appello Sezio­ne Minorenni Roma, 20 gennaio 1982, in Giuri­sprudenza di merito, 1984, 26);

5) ci risulta che, a tutt'oggi, nonostante l'inter­vento da noi sollecitato del Servizio sociale di Catania, siano risultati infruttuosi gli insistenti tentativi di inserire A.D. presso la propria fami­glia di sangue, di farle conoscere la gioia di es­sere amata, coccolata, vezzeggiata dai propri familiari in modo continuativo, duraturo e, vor­remmo aggiungere, gioioso.

Da quanto è a nostra conoscenza, il punto no­dale che ha determinato l'istituzionalizzazione di A.D. non è tanto la convinzione che questa sia la migliore soluzione per lei, quanto la sostanziale non accettazione del suo handicap da parte dei genitori, che peraltro pare non abbiano recente­mente mutato il loro atteggiamento nonostante i mesi di continua sollecitazione del Servizio so­ciale e la disponibilità al confronto offerta da fa­miglie che vivono felicemente con i loro figli Down.

Se i genitori non accettano A.D., se non inten­dono riprenderla con sé come veri e amorosi "papà e mamma", se già quasi un anno è tra­scorso dalla presa in carico della situazione da parte dei servizi senza che alcunché si sia mo­dificato nella vita della piccola, non ci sembra che si possa fare altro che prendere atto, tenuto conto anche di quanto finora esposto, del pre­sumibile stato di abbandono di A.D. da parte della sua famiglia.

Ciò prescinde peraltro da ogni giudizio o valu­tazione nei confronti dei genitori della bambina, cui va la nostra comprensione per il travaglio in­teriore che indubbiamente vivono. Ma questa umana comprensione non toglie nulla all'ogget­tività della situazione di abbandono e alla peren­torietà dell'esigenza di non calpestare i diritti di A.D. La sua famiglia di sangue, infatti, sia pure per incolpevole incapacità, pare che non sia mai stata né che intenda essere in futuro il sano ed affettuoso ambiente di crescita cui la bambina ha diritto;

6) se questa è la situazione, chiediamo che essa venga valutata sulla base dell'art. 8 della legge 184/83 e dell'interpretazione che di esso dà la giurisprudenza: «... non avendo la dichiara­zione di adottabilità carattere sanzionatorio per i genitori, ma tutelando unicamente l'interesse dei minore, l'art. 8 della legge 184/83 ... deve essere interpretato nel senso dell'assoluta prevalenza della prioritaria esigenza del minore di svilup­parsi in un ambiente sano e affettuoso,senza trascurare, peraltro, che il miglior ambiente di crescita per il minore resta pur sempre, almeno tendenzialmente, quello della famiglia di sangue» (Cassazione, 13 gennaio 1988, n. 180, in Massi­mario Foro Italiano, 1988; Cassazione, 2 aprile 1986, n. 2234, in Massimario Foro Italiano, 1986).

Né, peraltro, la solerzia nel provvedere econo­micamente alle esigenze materiali del figlio o le sporadiche visite in istituto possono ritenere as­solto da parte dei genitori il dovere di «assisten­za materiale e morale» che la vigente normativa loro impone (legge 184/83, art. 8, c. 2), e da cui non sono esonerati neanche nel caso della pre­senza di un handicap del minore. Infatti: «... l'as­sistenza dovuta dai genitori non può essere in­tesa come semplice somma di prestazioni, bensì come attività globale di adeguata formazione dello sviluppo della personalità del minore in rapporto ai doveri dei genitori di cui agli artt. 147, 316, 330 del Codice civile» (Cassazione, 5 dicembre 1987, n. 9054, in Massimario Foro Ita­liano, 1987).

Nell'esclusivo interesse di A.D., quindi, che se risultassero confermate le nostre informazioni verrebbe dall'attuale situazione gravemente lesa nei propri fondamentali diritti, in quanto già nei suoi primi anni di vita (i più importanti, teniamo a sottolinearlo, perché formano l'individuo, sia o meno affetto da sindrome di Down) arbitraria­mente privata del diritto a vivere in famiglia, chiediamo quindi vigorosamente che le venga ri­conosciuto lo stato di adottabilità.

Qualora il Tribunale per i minorenni compe­tente per giurisdizione non ritenesse opportuna, per ragioni a lui note, tale decisione, chiediamo almeno, e con forza, che venga posta in affida­mento familiare, applicando quanto impone l'art. 2 della legge 184/83: «II minore che sia tempo­raneamente privo di un ambiente familiare ido­neo può essere affidato ad un'altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fi­ne di assicurargli il mantenimento, l'educazione e l'istruzione. Ove non sia possibile un conve­niente affidamento familiare, è consentito il rico­vero del minore in un istituto di assistenza pub­blico o privato, da realizzarsi di preferenza nell'ambito regione di residenza del minore stesso».

Che A.D. sia solo “temporaneamente” priva di adeguato ambiente familiare ci sembra, come già rilevato, opinabile: ma si tratta di una valuta­zione che spetta al Tribunale per i minorenni di Caltanissetta.

Ma che A.D. sia di fatto "priva" di adeguato ambiente familiare ci sembra cosa evidente: l'istituto non è una famiglia (né di sangue, né adottiva, né affidataria), non è una persona che accoglie nella propria casa, non è una comunità di tipo familiare. L'istituto è quella ultima, resi­duale soluzione che la legge "consente" solo quando si sia tentato senza successo, di prov­vedere ad un «conveniente affidamento familia­re» secondo le priorità previste dall'art. 2. Ma per A.D. l'istituto è stato individuato come "la" soluzione, contrariamente a quanto imposto dal dettato dell'art. 2.

Ribadiamo quindi la nostra richiesta che, ove il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta non ritenga di dichiarare lo stato di abbandono della minore, provveda almeno ad applicare la nor­mativa vigente disponendo un conveniente affi­do familiare della piccola presso una famiglia di­sposta non solo a garantirle tutta l'assistenza necessaria, ma soprattutto ad amarla tenera­mente;

7) qualora il Tribunale per i minorenni di Cal­tanissetta nutrisse dei dubbi sulla possibilità di trovare una famiglia adottiva o affidataria che possa costituire per A.D. una collocazione più

idonea non solo alle disposizioni legislative, ma soprattutto alle sue esigenze affettive, relazionali e psicologiche rispetto all'attuale ricovero pres­so l'Oasi Maria Santissima di Troina, sottolineia­mo come siano ormai tanti i minori con handi­cap, anche gravissimi, felicemente accolti in cal­di e gioiosi ambienti familiari che hanno consen­tito un insperato recupero delle loro capacità. Ci impegnamo peraltro a collaborare, se necessa­rio, per la ricerca di una famiglia anche per A.D., e anche in tal senso sollecitiamo l'intervento sul caso in oggetto da parte delle associazioni di volontariato in indirizzo.

Ci sembra peraltro inutile sottolineare che A.D. ha diritto ad una vera famiglia, che modifichi sostanzialmente la sua vita affettiva e relaziona­le: riteniamo quindi del tutto priva di fondamento logico l'ipotesi, che pare venga avanzata dalla sua famiglia di sangue, anche solo di pensare ad un eventuale affidamento all'educatrice che con lei divide la stanza in istituto. Quali che sia­no i rapporti di consuetudine che attualmente intercorrono tra questa e la minore, infatti, prov­vedere ad un affido in tal senso non solo non apporterebbe sostanziali modifiche all'attuale condizione di vita di A.D. ma, cosa assai più gra­ve, legittimerebbe giuridicamente la situazione di palese ingiustizia che la piccola ha finora su­bito e la priverebbe, ancora una volta, del diritto ad avere una famiglia completa con papà, mam­ma, fratelli, nonni, ecc., che la scelga pienamen­te e senza condizioni.

Certo, cambiare situazione di vita porrà ad A.D., almeno all'inizio, problemi di adattamento. Ma così come, pur sapendo che le prime espe­rienze di nutrizione pongono tanti problemi a chi per troppo tempo è stato costretto al digiuno, non ci esimiamo dal nutrire coloro che muoiono di fame, allo stesso modo riteniamo che non ci si debba sottrarre all'obbligo di dare ad A.D, il nutrimento affettivo di cui ha bisogno, certi che, passata la prima fase di transizione, non potrà non integrarsi pienamente in una situazione di vita più consona alle sue esigenze affettive e re­lazionali, come peraltro avviene per tutti i minori che vanno in adozione o in affido;

8) ci preme formulare una ulteriore, ultima considerazione. L'art. 9, c. 3, della legge 184/83 attribuisce agli istituti di assistenza pubblici o privati l'obbligo di trasmettere semestralmente l'elenco dei minori ricoverati al Giudice tutelare, e a quest'ultimo l'obbligo di individuare le possi­bili situazioni di abbandono da riferire al Tribu­nale per i minorenni.

Ci chiediamo se in questi 5 anni e mezzo di vi­ta di A.D. sia mai stata rilevata la sua situazione di sostanziale abbandono, o se invece il suo prolungato ricovero, privo di concrete prospettive di rientro in famiglia, sia sembrato, in aperto contrasto con la normativa vigente, idoneo a tu­telare i suoi interessi.

Conseguentemente, non possiamo non chie­derci quanti minori come A.D. attendono che chi di dovere faccia valere il diritto alla famiglia che la legge ha loro attribuito con tanta chiarezza.

II ruolo del Giudice tutelare prevede che la ri­levazione delle possibili situazioni di abbandono da segnalare al Tribunale per i minorenni per una ulteriore valutazione tenga conto non tanto delle personali opinioni o dei convincimenti dei singoli giudici, quanto delle chiare indicazioni date dal nostro ordinamento giuridico attraverso la legge 184/83, e in questa sede già ampia­mente trattate.

II ruolo degli istituti, poi, specialmente se reli­giosi, ci sembra particolarmente delicato. Noi ci auguriamo che gli istituti cerchino di evitare il ricovero dei minori, soprattutto se han­dicappati, favorendo invece una loro felice e pienamente integrata permanenza presso la fa­miglia di sangue.

Ci auguriamo peraltro che, per quei minori che sono costretti ad accogliere, gli istituti se­gnalino prontamente le situazioni in cui la diffi­coltà che ha causato il ricovero non si presenti come realmente transitoria e dovuta a cause di forza maggiore.

Ci auguriamo, infine, che gli istituti siano con­sapevoli di non essere mai, neanche per un solo giorno, una soluzione idonea alla crescita psico­fisica dei minori, e si adoperino non solo per una positiva permanenza dei bambini presso le famiglie di sangue, ma anche per la diffusione di

una cultura dell'accoglienza e della solidarietà che consenta di ricorrere all'affidamento fami­liare in alternativa all'istituzionalizzazione.

Per quanto riguarda in particolare gli istituti specializzati per l'accoglienza di minori portato­ri di handicap, specialmente se religiosi, ci au­guriamo che essi sviluppino la loro attività di ri­cerca e di servizio proponendosi come luoghi non di ricovero ma di consulenza specialistica e trattamenti ambulatoriali, con la eventuale pos­sibilità, quando necessario, di brevissime per­manenze di minori accompagnati da un familiare per cicli di particolari terapie intensive o check­-up periodici. Nei casi di minori handicappati non pienamente accettati dai propri genitori, ci au­guriamo che questi istituti, invece di offrire una alternativa di tipo residenziale, non solo segnali­no tali situazioni "a rischio" agli organi compe­tenti, ma si battano senza tregua perché anche a questi minori, per quanto grave possa essere il loro handicap, venga trovata una famiglia, adot­tiva o affidataria, che garantisca loro quel pieno inserimento familiare e sociale cui hanno diritto non solo sul piano giuridico ma, soprattutto, su quello della dignità umana.

Certi che le autorità competenti provvederan­no prontamente a rendere giustizia alla piccola A.D. inserendola presso una famiglia adottiva o affidataria, chiediamo alle Associazioni di volon­tariato in indirizzo di attivarsi per portare il loro contributo di esperienza e competenza sulle problematiche affrontate in questa nota.

 

La presidente

Remigia D'Agata La Terza

 

 

 

(1) Mentre concordiamo pienamente con quanto scritto dalla Presidente dell'Associazione Progetto Accoglienza di Catania, a cui va il nostro plauso per la coraggiosa iniziati­va, non riteniamo che la permanenza in famiglia (che an­che a nostro avviso deve essere perseguita come obiettivo assolutamente prioritario) determini sempre ed ipso facto per le persone Down «una vita assolutamente normale nel­la propria famiglia" e la capacità «di inserirsi lavorativa­mente in molti settori della vita produttiva». Come abbiamo documentato nei volumi di G. Basano, "Storia di Nicola"; di P. Rollero e M. Faloppa, "Handicap grave e scuola"; di A. Borghi, "Imparo come gli altri"; di M.G. Breda e M. Rago, "Formare per l'autonomia" e di E. De Rienzo, C. Saccoccio e M.G. Breda, "Il lavoro conquistato" (Collana "Quaderni di Promozione sociale, edita da Rosenberg & Sellier) sono estremamente importanti gli interventi sanitari, scolastici, abitativi, culturali, ricreativi, ecc. per un effettivo supporto all'integrazione familiare e sociale.

 

 

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