Prospettive assistenziali, n. 106, aprile-giugno 1994

 

 

Specchio nero

 

 

UNEBA, ANASTE, CGIL, CISL, UIL CONTRO L'INSERIMENTO LAVORATIVO DEGLI HANDICAPPATI

 

Riportiamo integralmente l'accordo intervenuto tra UNEBA, ANASTE, CGIL, CISL, UIL per vietare agli handicappati l'assunzione "obbligatoria" al lavoro, divieto consentito (non imposto!) dall'art. 25 della legge 223/1993, il quale precisa che può essere escluso dal rispetto delle norme della legge 482/1968 il «personale appartenente alle qualifiche appositamente individuate nei con­tratti collettivi di categoria».

Le qualifiche individuate dall'UNEBA e dalI'ANASTE, che raggruppano gli enti pubblici (IPAB, ecc.) e privati di assistenza e di ricovero, e le case di cura private, e da CGIL, CISL, UIL ri­guardano gli operatori socio-assistenziali, i tera­pisti della riabilitazione, gli infermieri professio­nali e gli educatori, e cioè praticamente tutto il personale addetto delle strutture e servizi sopra citati. Da rilevare che nell'accordo non si fa riferimento agli "educatori professionali", ma sempli­cemente agli "educatori" e quindi anche a perso­nale privo di una specifica preparazione.

Infine occorre sottolineare che sono esclusi da ogni possibilità di inserimento lavorativo tutti gli handicappati, e quindi anche quelli che hanno una resa produttiva uguale ai lavoratori non col­piti da handicap.

Pensiamo, ad esempio, agli handicappati fisici motori lievi, che sono in grado sia di conseguire i titoli professionali richiesti, sia di svolgere proficuamente le relative mansioni.

 

Accordo per la determinazione delle categorie da escludere dalle assunzioni obbligatorie

 

«II giorno 20 gennaio 1994, alle ore 10, presso la sede della UILTCS UIL si sono incontrati i Signori:

per l'UNEBA, Luciano Conforti - Giuseppe Re­stelli;

per l'ANASTE, Piero Calandriello - Gennaro Piccirillo;

per la FISASCAT-CISL, Luciana Cirillo;

per la FILSCAMS-CGIL, Claudio Bazzichetto - Luigi Coppini;

per la UILTuCS-UIL, Paolo Poma

i quali

Visto l'art. 25 della legge 223/91 che rinvia ai contratti collettivi nazionali di categoria (CCNL), ai fini della determinazione delle qualifiche pro­fessionali non rientranti nell'obbligo di quanto disposto dal primo comma dell'articolo stesso;

Visto il CCNL per i dipendenti di Istituzioni e servizi socio-assistenziali firmato in Roma tra le parti il 20 settembre 1991 presso il Ministero del lavoro scadente in data 31 dicembre 1994;

Vista la necessità di provvedere ad individua­re quali categorie escludere dall'obbligo della ri­serva di cui all'art. 25, della legge 223/91, 1° comma, in considerazione della peculiarità dell'attività lavorativa svolta nel settore socio­assistenziale;

Vista la comune volontà, dato il limitato perio­do di vigenza contrattuale, e cioè 31 dicembre 1994, di ridefinire con più ampia discussione all'atto del rinnovo del CNL le categorie stesse di cui all'art. 25 della legge 223/91;

concordano

di integrare l'art. 5 del CCNL con la seguente norma:

"in considerazione della specificità dell'attività svolta, sono escluse dalla riserva di cui all'art. 25 della legge 223/91 le assunzioni dei lavora­tori appartenenti alle seguenti qualifiche profes­sionali:

1) operatore socio-assistenziale;

2) terapista della riabilitazione;

3) infermiere professionale;

4) educatore».

 

 

UNA SCONCERTANTE MOZIONE PRESENTATA AL SENATO

 

Estremamente preoccupante è la prima mo­zione presentata al Senato in data 21 aprile 1994 dai Senatori Corsi, Zeffirelli, Squitieri, Mol­tisanti, Battaglia, Germanà, Patricca, Cormegna, Misserville, Maceratini, Ragno, Turini e Maglioc­chetti, appartenenti a Forza Italia, Alleanza Na­zionale e Lega.

Premesso che bisogna assistere la futura ma­dre «nel compiere il miracolo della creazione di una nuova vita» i parlamentari sostengono quan­to segue: «Se poi la madre si troverà nelle condi­zioni di non poter accudire e appropriarsi, come è suo diritto, del figlio, lo Stato e la società do­vranno soccorrerla anche in questa fase del suo "essere madre"; essi dovranno incaricarsi del neonato, almeno per i primi 18 mesi della sua vi­ta e sarà a questa scadenza che la madre dovrà decidere, dopo tutte le occasioni di riflessione che le sono state accordate, se vorrà tenere il fi­glio oppure no. Nel primo caso, lo Stato, con l'aiuto delle strutture sociali private e del volonta­riato, dovrà continuare ad assisterla e protegger­la; nel secondo caso, si assumerà invece la pie­na e definitiva responsabilità della nuova creatu­ra, percorrendo anche le vie delle adozioni che dovranno essere in ogni caso altrimenti regolate, affinché non creino per í cittadini, come succede oggi, inutili e spesso ingiustificate sofferenze».

Dunque, il bambino fino all'età di 18 mesi è un essere che non soffre a causa della carenza di cure familiari (come da 50 anni sostengono, in­vece, tutti gli esperti italiani e stranieri). Supera­to l'anno e mezzo, la "madre", anche se non ha fatto assolutamente nulla per il neonato e non l'ha nemmeno visto, dovrebbe avere il diritto di decidere! E, ovviamente, il bambino, se in affida­mento familiare, sarà felicissimo di rompere i rapporti con le persone che lo hanno amato e pronto a legarsi con chi per ben 18 mesi non lo ha degnato di uno sguardo.

La netta propensione per il ricovero si manife­sta anche in un'altra parte della mozione. Infatti, nei casi di genitori in difficoltà «particolare rile­vanza assume la revisione delle funzioni e dei compiti che dovrebbero essere anche ampliati, delle scuole dell'infanzia, statali o private, affin­ché, ad esempio, al termine dell'anno scolastico, i bambini non ritornino nelle famiglie indigenti, di­sperate o inadatte ad accudirli. Le scuole dell'in­fanzia devono essere messe in grado di conti­nuare ininterrottamente ad assistere la formazio­ne dei fanciulli anche nei mesi estivi attraverso la creazione, ove già non esistano, di scuole estive che garantiscano ai fanciulli salute, serenità, e continuità sociale a contatto con la natura, il mare, in montagna ed in altre sedi adatte allo scopo».

I firmatari della mozione calpestano il diritto del minore alla famiglia (propria, adottiva o affi­dataria a seconda delle situazioni) e vogliono il ritorno alle deleterie strutture di ricovero (istituti di assistenza, collegi, colonie, scuole estive o al­tre denominazioni di comodo).

Per quanto riguarda le persone colpite da handicap, i Senatori sostengono che occorre «riorganizzare l'azione dello Stato e dell'associa­zionismo privato verso quei cittadini infelici e mi­norati che la natura ha creato diversi e dipenden­ti dagli altri ( ..) il cui recupero è oggi affidato in prevalenza ad uomini e donne di buona volontà che purtroppo devono condurre lotte inutili e fru­stranti per poter svolgere la loro missione».

Infine, per quanto riguarda gli anziani «molto spesso abbandonati a loro stessi» i parlamentari affermano che «una particolare rilevanza assu­mono quelle iniziative tese a stabilire rapporti na­turali di assistenza e di attenzione fra gli anziani e i bambini».

Che cosa ne pensa Antonio Guidi, Ministro degli affari sociali e della famiglia della mozione presentata dai suoi sostenitori?

 

 

LE IDEE CONFUSE DI TELEFONO AZZURRO

 

Quasi mai Telefono azzurro si è occupato del­le gravissime sofferenze patite dalle migliaia di minori ricoverati, spesso da anni, in istituti di as­sistenza/beneficenza, nonostante che dal 1950 siano note le nefaste conseguenze della caren­za di cure familiari.

Evidentemente, il Prof. Caffo e la sua organiz­zazione non vogliono entrare in conflitto con le istituzioni (Governo, Parlamento, Regioni, Comu­ni, Province, USL) responsabili dell'esclusione sociale dei 50 mila minori ancora rinchiusi in istituzioni totali (1).

Dopo anni di silenzio, Telefono azzurro, nel numero di aprile 1994 del suo mensile affronta l'argomento e sbaglia clamorosamente la lettura della realtà.

Infatti, afferma (Cfr. "In dieci anni 27.000 ab­bandoni") che negli istituti vi sono «35.833 mino­renni adottabili» quando è noto che l'adozione è consentita dalla legge vigente, la n. 184 del 1983, esclusivamente nei confronti dei minori «In situazione di abbandono perché privi di assi­stenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la man­canza di assistenza non sia dovuta a forza mag­giore di carattere transitorio».

Per una organizzazione che pretende di cono­scere a fondo i problemi dell'infanzia e le giuste soluzioni, le idee confuse di Telefono azzurro e la decisione di creare un ghetto a Monza (2) do­vrebbero essere motivi di seria riflessione da parte di tutti coloro che veramente sono "dalla parte dei bambini".

 

 

(1) Cfr. gli articoli apparsi su Prospettive assistenziali: 'Telefono azzurro: come banalizzare la complessità dei problemi sociali", n. 80, ottobre-dicembre 1987; "Telefono azzurro: distorsioni del giornale Avvenire» e "Telefono az­zurro: precisazioni e proposte", n. 82, aprile-giugno 1988.

(2) Cfr. "No al ghetto di Telefono azzurro" in Prospettive assistenziali, n. 104, ottobre-dicembre 1994.

 

 

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