Prospettive assistenziali, n. 106, aprile-giugno 1994

 

 

HANDICAPPATI INTELLETTIVI: RUOLO DELLA FAMIGLIA E DELLA SOCIETÀ - ASPETTI ETICI

GIANNINO PIANA (*)

 

 

Le riflessioni che proporrò hanno un carattere molto generale: mi limiterò cioè ad offrire soltan­to dei parametri etici che ci consentono di af­frontare correttamente il problema dell'handicap nella società di oggi, facendo riferimento in par­ticolare alla situazione degli handicappati psi­chici maggiorenni perché di essi soprattutto si tratta in questo incontro.

Cercherò di articolare i punti di riflessioni che proporrò e che dovranno essere confrontati nel dibattito, in due momenti.

Il primo sarà anzitutto dedicato a mettere a fuoco le contraddizioni, le ambiguità, i paradossi della società e della cultura odierna nei confron­ti del problema in esame. Credo sia importante prendere consapevolezza di quanto alcuni pro­cessi di trasformazione sociale e culturale inci­dano sul modo con cui ci si accosta al problema dell'handicap. Passerò successivamente a ipo­tizzare una prospettiva che tenda a comporre in modo equilibrato il coinvolgimento responsabile delle famiglie e quello dell'intera società.

Il problema dell'handicap non può essere in­fatti delegato esclusivamente alle famiglie: re­clama l'assunzione di precise responsabilità so­ciali, soprattutto da parte di chi all'interno della società è deputato alla prestazione dei servizi socio-assistenziali.

 

Le contraddizioni socio-culturali

Una prima forma di ambiguità che caratterizza la società di oggi è data dalla contrapposizione esistente tra il riconoscimento astratto dei diritti dell'handicappato (riconoscimento che si è fatto strada in modo sempre più accentuato in questi ultimi anni soprattutto sul terreno legislativo) e il prevalere di fatto di un atteggiamento di emargi­nazione nei confronti dell'handicappato stesso.

Intendo con questo sottolineare come, a fron­te di un forte avanzamento della cultura dei dirit­ti verso le varie forme di diversità, frutto di una attenzione sempre maggiore nei confronti della persona e della sua dignità, è tuttavia ancora dominante una visione utilitaristica della realtà che dà vita ad una mentalità e ad un costume gravemente penalizzante alcuni soggetti già di loro natura marginalizzati.

Alludo al prevalere di logiche produttivistiche e consumistiche, che finiscono per provocare, consciamente o inconsciamente, una tendenza alla discriminazione tra vita e vita, tra una vita che è degna di essere vissuta e deve perciò es­sere tutelata in tutti i modi e un'altra vita che è invece considerata inutile e improduttiva, e vie­ne dunque marginalizzata dalla società.

Questa mentalità è profondamente diffusa. La nostra società è dominata da scelte di tipo utili­taristico che finiscono per marginalizzare i sog­getti considerati inutili dal punto di vista econo­mico-produttivo.

II problema dell'inserimento dell'handicappato nella società non è pertanto un semplice proble­ma strutturale; è, prima ancora, un problema culturale, cioè di mentalità e di costume. È il problema del consenso sociale alla accoglienza di ogni vita umana, e soprattutto della capacità di promuovere ogni vita umana per ciò che essa significa.

Un secondo elemento di ambiguità su cui vor­rei richiamare l'attenzione è costituito dal fatto che, mentre si afferma sempre più da un lato nella nostra società il valore della solidarietà co­me valore comunemente accettato, emergono dall'altro, in modo sempre più intenso, spinte in­dividualistiche e corporative. Si direbbe che quanto più cresce l'interdipendenza a livello strutturale, e si avverte quindi la necessità di forme di collaborazione e di solidarietà, tanto più emergono a livello culturale tendenze di tipo individualistico e privatistico.

Il termine solidarietà suscitava immediata­mente in passato reazioni di rigetto o quanto meno reazioni critiche, sia nella cultura laica che marxista. Nel primo caso la solidarietà veni­va vista come l'intrusione di un fattore esterno e disturbante nel quadro del processo economi­co, che deve essere guidato, secondo la logica capitalista, dalle sole dinamiche del mercato.

Nel secondo caso la solidarietà era percepita come un tentativo di moralizzazione del sistema che doveva invece essere considerato di per se stesso ingiusto, e perciò da ribaltare.

Oggi, questi pregiudizi sono caduti; e vi è di conseguenza l'acquisizione del valore della soli­darietà in senso sempre più diffuso a livello teo­rico; e tuttavia proprio nel momento in cui si par­la tanto di solidarietà, essa è molto poco vissuta sul terreno della prassi, dei comportamenti, del­la vita quotidiana.

L'affermarsi di forme di chiusura degli indivi­dui o dei diversi soggetti sociali, che tendono a tutelare i loro diritti a scapito dei diritti degli altri, determina una lotta tra corporazioni con il pre­valere delle corporazioni forti su quelle deboli.

Sta qui la spiegazione dei processi di margi­nalizzazione di alcuni soggetti, in primo luogo degli handicappati.

Infine deve essere rilevato un terzo aspetto di ambiguità del contesto socio-culturale in cui vi­viamo: esso è rappresentato dal conflitto persi­stente tra pubblico e privato: conflitto che ha connotati sia di ordine culturale che strutturale.

Anche nel nostro paese è venuta sviluppan­dosi una cultura del pubblico che tendeva a ri­durre il pubblico a ciò che è direttamente gover­nato dallo Stato e, in contrapposizione ad essa, una cultura del privato tendente a escludere l'esigenza di un intervento delle istituzioni pub­bliche. È proprio questa dialettica che spiega certi processi a cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni.

Pensate come, da un lato sta ritornando la concezione di uno Stato che tutela semplice­mente i diritti di libertà, e come, dall'altra, sia tut­tavia presente una visione dello Stato sociale come Stato assistenziale, che presenta limiti consistenti in termini di burocratizzazione, di clientelismo e di assistenzialismo.

La tentazione è oggi, in presenza di una cultu­ra del privato e di una visione sempre più indivi­dualistica della vita, che si butti via con l'acqua anche il bambino; che cioè non venga soltanto messa sotto processo una certa forma di Stato sociale, quella assistenzialistica, ma si giunga alla negazione della necessità stessa dello Stato sociale.

La riforma dello Stato sociale non implica un ritorno indietro, bensì un balzo in avanti verso prestazioni nuove e più avanzate, con una mag­giore attenzione a misurarsi in termini concreti con la dialettica tra privato e pubblico già richia­mata.

Ciò che occorre oggi ripensare è il rapporto tra soggetti sociali, che dal basso costruiscono processi di cambiamento, e istituzioni pubbli­che. In un certo senso, questo ci costringe a ri­prendere coscienza dell'importanza che hanno i due grandi principi su cui è venuta costruendosi la dottrina sociale della Chiesa: il principio di sussidiarietà che sottolinea come la società de­ve potersi esprimere attraverso i soggetti che la compongono, e il principio di solidarietà che im­pone allo Stato di intervenire per offrire servizi è possibilità di realizzazione soprattutto a chi, ine­vitabilmente in una dinamica di libero mercato, finirebbe per essere emarginato.

Sono questi alcuni dati di riflessione sulla si­tuazione attuale che spiegano perché diventa difficile affrontare correttamente il problema dell'handicap, e in senso più allargato di tutti i soggetti deboli presenti nella nostra società.

 

Le prospettive di cambiamento

Che fare allora di fronte a questo? Quali sono le strade da percorrere se si vuole dare soluzio­ne al problema degli handicappati psichici mag­giorenni?

II primo dato positivo, presente all'interno del­la nostra società, è il recupero della centrali­tà della famiglia come soggetto primario nell'azione a favore dell'handicappato.

Da questo punto di vista è cresciuta in questi anni una sensibilità delle coscienze che rappre­senta un segno dei tempi e che ha prodotto co­me conseguenza la progressiva limitazione della istituzionalizzazione attraverso il ricovero.

È evidente che l'inserimento dell'handicappa­to in famiglia ha a suo vantaggio una serie di elementi che non meritano neppure di essere ri­cordati, tanto sono evidenti. Nel contesto fami­liare è, infatti, possibile lo sviluppo di relazioni personali, con il superamento del senso di ab­bandono vissuto spesso in termini drammatici.

E ancora, all'interno della famiglia si supera quello stato di sradicamento dell'handicappato dal contesto territoriale, che lo penalizza grave­mente: il territorio rappresenta un humus vitale per la persona. D'altra parte, questa sensibilità maggiore delle famiglie non deve farci dimenti­care le grosse difficoltà che esse incontrano. Ne segnalo qui alcune. L'handicappato intellettivo comporta una notevole limitazione della possibi­lità di espressione dei soggetti che compongo­no la famiglia, in particolare, dei genitori: limita­zioni di ogni genere, ma soprattutto legate al coinvolgimento psicologico con ricadute negati­ve sui rapporti interni.

La nascita di un handicappato genera sensi di frustrazione, qualche volta addirittura di colpa, determinando l'oscillazione della coscienza fra il bisogno di accettazione e la tentazione del rifiu­to.

Questi sentimenti continuano a permanere perché la situazione familiare, per quanto con­trollata, è pur sempre una situazione di famiglia a rischio. La famiglia dell'handicappato diventa, in qualche misura, famiglia handicappata, soggetta cioè ad un insieme di processi che rendo­no particolarmente difficoltoso l'intrecciarsi del­le relazioni: è la stessa vita di coppia che deve in questi casi ristrutturarsi, mentre le relazioni con l'esterno diventano difficili anche semplice­mente per difficoltà di tempo.

L'accentramento di interesse sul figlio handi­cappato, che ha bisogno di particolari forme di assistenza, di solidarietà e di aiuto, impegna in modo assai ampio le risorse della famiglia so­prattutto dal punto di vista psicologico. Per que­sto è essenziale il coinvolgimento sociale.

È giusto che la famiglia ridiventi il perno, il luo­go da cui partire senza per questo penalizzare quelle famiglie che non sono in grado di soppor­tare il peso di tali situazioni; ma si tratta di non abbandonarla, di non lasciarla sola, si tratta cioè di creare attorno alla famiglia una ampia solida­rietà sociale, di dar vita ad una cultura dell'inte­grazione sociale dell'handicappato, per la quale egli viene percepito come un soggetto di cui de­ve prendersi cura l'intera società.

La socializzazione del problema implica l'atti­varsi di una serie di forme di solidarietà pratica­te dalla società, ma è soprattutto necessario l'intervento delle istituzioni pubbliche.

Dire che è la società che deve farsi carico dell'handicappato, non significa certo demanda­re tutto alle istituzioni pubbliche: importante è sotto questo profilo l'azione del volontariato, laddove si crea una interazione tra soggetti so­ciali e istituzioni pubbliche e ciascuna di queste realtà si assume la propria parte di responsabi­lità.

Le istituzioni pubbliche devono fornire i fon­damentali servizi, che supportino la famiglia nel gravoso compito di sostenere soggetti che vivo­no in condizioni di disagio. In questo contesto va collocata l'iniziativa di oggi che tende a sottoli­neare l'importanza dei centri diurni come soste­gno alle famiglie e come alternative al ricovero.

La drammaticità della situazione dell'handi­cappato intellettivo maggiorenne è sotto questo profilo particolarmente rilevante. I problemi dell'inserimento sociale sono maggiori dopo l'età scolare. C'è stata, infatti, in questi anni, a li­vello istituzionale, una politica che si è impegna­ta a fornire una serie di servizi nei confronti de­gli handicappati minorenni. Si pensi, ad esem­pio, all'inserimento scolastico.

Lo spazio dell'handicappato maggiorenne è invece del tutto vuoto: mentre è cresciuta l'at­tenzione sul piano istituzionale nei confronti dell'handicappato minorenne, non altrettanto questo è avvenuto a proposito dell'handicappa­to maggiorenne. Qui dunque i problemi familiari sono più gravi anche per l'invecchiamento dei genitori, e per il diverso modo di vivere la pro­pria esperienza da parte dell'handicappato.

La scelta di potenziare i centri diurni è quindi la strada da percorrere se si vuole ovviare alle difficoltà ricordate, poiché questi centri si rap­portano strettamente alle famiglie e creano le condizioni per una alternanza sia pure tempora­neamente ridotta.

Non va inoltre sottovalutato il fatto che l'handi­cappato, che vive permanentemente all'interno delle famiglie, ha delle possibilità di socializza­zioni limitate le quali vengono invece ad allar­garsi grazie alla presenza di operatori sociali specializzati.

I centri diurni perciò, oltre ad essere un sup­porto alla famiglia, sono anche un elemento di crescita educativa. Di qui l'esigenza della loro diffusione come offerta di prestazioni che non può che essere del tutto gratuita; anche perché, i costi del ricovero sono molto maggiori dei costi di tali centri.

Spero di avere offerto qualche stimolo, che ci aiuti a cogliere nella sua globalità il problema. Vorrei chiudere ricordando che la soluzione può venire solo dalla correlazione che si istituisce tra il rinnovamento di mentalità, cioè la trasfor­mazione del modo di pensare e di sentire di tutti, e una politica che a livello istituzionale diventi sempre più capace di interpretare le esigenze dei soggetti handicappati. Se vogliamo davvero uscire fuori dalla condizione di difficoltà in cui versiamo, dobbiamo far leva su una profonda trasformazione culturale, ma dobbiamo anche impegnarci in una azione politica che mobiliti sempre nuove energie perché i diritti dell'handi­cappato non siano soltanto astrattamente rico­nosciuti, ma si giunga alla creazione di servizi che mettano in grado I'handicappato di svilup­pare la propria piena identità.

 

 

(*) Docente di Teologia alla Facoltà di Urbino. Relazione tenuta all'incontro/dibattito "Perché non devono essere versati contributi dai parenti di handicappati intellettivi maggiorenni ricoverati o assistiti da enti pubblici: aspetti etici e giuridici" (Torino, 16.10.1993) organizzato da UTIM - Unione per la tutela degli insufficienti mentali, CSA - Comi­tato per la difesa dei diritti degli assistiti con l'adesione di CO.GE.HA. - Collettivo genitori di handicappati USSL 28, G.R.H. - Genitori ragazzi handicappati USSL 26, La Scintil­la - Associazione genitori di handicappati USSL 24.

 

 

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