Prospettive assistenziali, n. 104, ottobre-dicembre 1993

 

 

MALATI DI ALZHEIMER: DALL'ABBANDONO ALLA CURA

ANDREA BARTOLI

 

 

Organizzato dall'AIMA (*), ha avuto luogo a Milano nei giorni 2 e 3 ottobre 1992 il convegno "Malattia di Alzheimer e sindromi correlate: dall'abbandono alla cura".

Come hanno messo in rilievo tutti i relatori, la situazione attuale è intollerabile poiché, salvo ca­si del tutto eccezionali, nessun aiuto viene fornito dalle USL ai malati di Alzheimer e ai congiunti che li accolgono a casa loro.

È stato altresì ricordato che la stragrande maggioranza delle USL non riconosce nemmeno la loro condizione di malati (**), e che spes­so i medici di base si disinteressano di questi pazienti, per cui viene disconosciuto il diritto alle cure.

Ne deriva che, nei casi in cui non sia possibile la permanenza al domicilio, i familiari sono costretti a ricorrere al settore privato, con l'esborso di notevoli somme, anche 4-6 milioni al mese.

Inaccettabile la posizione espressa da Giusep­pe Zola, Assessore ai servizi sociali, igiene e sa­nità del Comune di Milano che, pur costretto a ri­conoscere che le persone colpite da demenza senile sono dei malati, ha affermato che è prefe­ribile conservare la competenza del settore socio-assistenziale.

La posizione dell'Assessore Zola, che ignora le disposizioni delle leggi vigenti e contrasta con le esigenze dei pazienti, è stata sostenuta anche da Luciano Di Pietra, Responsabile del Coordina­mento dei servizi sociali della Regione Lombardia.

È auspicabile che l'AIMA e le altre organizza­zioni che si occupano dei malati di Alzheimer non cadano nel tranello della competenza assi­stenziale sostenuta da Zola e Di Pietra e rivendi­chino con forza il diritto dei dementi senili ad essere considerati per quel che sono e cioè per­sone malate, che devono essere curate dal Ser­vizio sanitario nazionale in primo luogo a domici­lio e - occorrendo - in strutture residenziali sa­nitarie.

Sarebbe molto grave rinunciare ai diritti acqui­siti e affidarsi alle aleatorie concessioni di natura assistenziale.

La relazione tenuta da A. Bartoli al convegno di Milano, che riproduciamo integralmente, è un va­lido punto di riferimento per coloro, gruppi e per­sone, che rifiutano assistenzialismo e discrezio­nalità e pretendono cure e rispetto dei diritti san­citi dalle leggi vigenti.

 

Premessa

Quando una persona perde per la prima volta l'orientamento a seguito della malattia di Alzhei­mer, non sa cosa sta accadendo. I medici non possono molto: essi stessi infatti potranno, solo dopo il decesso del paziente, diagnosticare con certezza quale fosse la causa di quel disorienta­mento.

Nonostante quella persona "non sappia" pur tuttavia "sperimenta". Dimenticando dove si tro­va e non riuscendo a trovare, nella realtà che pure conosce, i riferimenti che dovrebbero es­sergli familiari, si avventura verso un periodo caratterizzato da difficoltà estreme, sia soggetti­vamente che oggettivamente.

Molte malattie sono "difficili", molte costringo­no ad una lotta per la sopravvivenza, molte sono sconosciute nella loro eziologia, ma la malattia di Alzheimer ha delle specificità che interrogano in modo particolare.

L'evolversi della malattia porta ad «alterazioni della memoria recente e remota, afasia, disturbi visuo-spaziali e visuo-costruttivi, deficit della ca­pacità di calcolo, di giudizio e di astrazione» (1); ed ancora: «Uno dei primi sintomi di demenza può essere l'incapacità di adattarsi a situazioni poco familiari, che può precedere la perdita di al­tre capacità cognitive acquisite durante la vita, come la gestione dei soldi, l'uso del linguaggio, cucinare, ecc.» (2). Ciò vuol dire che ben presto la persona colpita non riesce a mantenere le re­lazioni con l'ambiente che le sarebbero proprie.

 

Una malattia difficile da capire

Chi subisce l'Alzheimer non può capire quel che accade (perché non lo sa oggettivamente) e perché non riesce (sempre meno è in grado di farlo soggettivamente). È una malattia, per molti versi, non conosciuta e quindi non comprensibi­le, di cui è difficile "farsi una ragione". In questo senso anche le stesse incertezze diagnostiche non aiutano. È noto come si compiano di fre­quente errori di sottovalutazione della malattia sia da parte del paziente («Non vedi che sto be­ne? Che volete? Non vi fidate di me?»), che da parte del medico («Deve essere un disturbo passeggero... e poi si muove bene, questo è t'importante»).

Paradossalmente il testimone privilegiato, non di rado, è un familiare premuroso, o una presen­za amichevole, che percepisce i primi sintomi di errore, disorientamento, perdita di memoria e in­siste per ricostruire un quadro "comprensivo" che fornisca una spiegazione di tutti questi eventi (3).

Sottolineo questo aspetto perché la persona sola, davanti alla malattia di Alzheimer lo è an­cora di più. Chi da solo scopre di essere inca­pace a comprendere e gestire il processo pato­logico è presto sconfitto. Al contrario enfatizzo il ruolo dei familiari o degli amici che abbiano rap­porti frequenti, perché è a partire da questa "comprensione primaria dei sintomi" che si può sperare di percorrere le varie fasi della malattia fornendo al malato le risposte migliori (4).

 

Una incomprensibilità cui si può rispondere

Tali risposte sono possibili accettando di mo­dificare immagini, rapporti e stili di vita. Il malato di Alzheimer cambia in molti aspetti. Dopo breve tempo dall'insorgere della malattia i sintomi si fanno più frequenti e più gravi. Ciò rende difficili i rapporti. Si moltiplicano gli errori. In alcuni casi possono determinarsi situazioni pericolose. Pre­sto, quindi, il malato non può più lavorare.

Questa impossibilità comporta delle conse­guenze pesantissime dal punto di vista dei rap­porti sociali (il lavoro è luogo di relazioni e defi­nisce ciascuno nel suo ruolo sociale in modo sostanziale) (5), ma non di meno conto sono le conseguenze economiche.

Anche quando la malattia si presenta in per­sone che avevano già dismesso gli impegni pro­fessionali, essa genera delle enormi difficoltà sociali ed economiche. L'incapacità di relazio­narsi e di gestire la propria vita costringe gli al­tri, coloro che "sono vicini", ad una decisione: prendersene cura? E in caso come? Non di ra­

do questa decisione spetta ai figli nei confronti dei genitori (6) (ma può accadere anche a geni­tori molto anziani nei confronti di figli 50-ó0enni) e comporta una modificazione profonda dei ruo­li e dei comportamenti (7). Questa trasformazio­ne e questa decisione impegnano anche i rap­porti amichevoli.

Chi vuole mantenere un rapporto con un ma­lato di Alzheimer deve accettare le modificazioni che la malattia impone dal punto di vista biologi­co, psicologico e sociale (8). A queste condizio­ni le risposte migliori possono essere trovate, superando una serie di difficoltà e ritrovando un senso ad una condizione per taluni "senza sen­so". È purtroppo, però, ancora troppo raro il ca­so di persone che accettano di proseguire dei rapporti amichevoli con le persone colpite dalla malattia di Alzheimer ed i loro familiari.

Una modificazione che la malattia introduce nel comportamento è la difficoltà di comuni­care. I cambiamenti sono introdotti senza che vi sia una testimonianza diretta, dall'interno.

Significativamente mentre per alcune malattie e disabilità possediamo delle testimonianze, delle descrizioni "dall'interno", a volte anche ef­ficaci sul piano letterario (9), per la malattia di Alzheimer questo non può avvenire. Chi ne è colpito non può contemporaneamente vivere la malattia e descriverla. È un viaggio senza ritor­no, non c'è possibilità di feedback. È una malat­tia che non consente al soggetto l'auto-riflessio­ne sul suo stato, e quindi lo priva della sua ca­pacità di comunicare (10).

 

Una malattia "senza senso"?

Ciò non è vero per molte altre patologie che pure risultano gravi e ancora non curabili. È no­to a tutti il problema AIDS. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, si sono moltiplicate le descrizioni della malattia anche da un punto di vista soggettivo. Sono stati evidenziati i molti "percorsi" possibili che un malato può immagi­nare di vivere a seconda del contesto in cui si trova. Non sono mancati anche gli approcci cul­turali (11) e non è irrilevante il dibattito sulla di­mensione sociale della malattia.

Essendo l'AIDS in alcuni casi correlata a par­ticolari stili dì vita essa viene considerata facil­mente come una malattia "con un senso". Il ca­so estremo è quello di coloro che individuano in essa una punizione divina per i comportamenti illegittimi (credendo così di spiegare qualcosa a proposito di droga e omosessualità, ma metten­do in difficoltà gli emofiliaci e le popolazioni afri­cane colpite).

Anche altre malattie, come il cancro ai polmo­ni, sono oggi, diffusamente, collegate ad un sen­so (in questo caso però fondato su dati scientifi­ci). La ragione, o una concausa, del tumore ai polmoni è stata identificata nel fumo. Lo stile di vita, quindi, produce la malattia e le dà "un sen­so". Per molti sembra importante "sapere cosa accade e perché". Che in un caso si scelga un appiglio moralistico ("L'AIDS colpisce i colpevo­li"), ovvero uno scientifico ("Hai il cancro ai pol­moni perché hai fumato") non cambia di molto la natura del ragionamento.

Lo sforzo è quello di attribuire un senso a par­tire da un nesso causale (ed in questo senso evidentemente esiste una differenza profonda nei due esempi prima citati). Per la malattia di Alzheimer questo non è ancora possibile. Al mo­mento presente non è possibile attribuirle "un senso", cioè un significato particolare, una ra­gione che non sia meramente descrittiva.

Anche un fattore come lo stato socio-econo­mico (pur così significativo in altri casi) non ri­sulta essere un indice di previsione adeguato (12). Non conoscendo le cause non si riesce ad attribuire un senso al suo evolversi. Ci si limita a prendere atto provando a capire e a curare.

 

Negare o assumere?

Tale mancata risposta contribuisce ad un processo sociale di grande interesse. È l'oscil­lazione tra negazione e abbandono da una parte, e presa in carico dall'altra. È da notarsi però che la cura, unica risposta razionale e vali­da sul piano etico, sembra ad alcuni priva di senso proprio per questo mancato riconosci­mento del "perché" della malattia. Inguaribile è davvero incurabile? (Si rimanda su questo al di­battito in corso sul "ripensamento" della stessa medicina) (13).

L'altro atteggiamento sensato é evidentemen­te la ricerca. Laddove esistono dei confini così insoddisfacenti di conoscenza, la ricerca è l'uni­ca risposta dotata di senso che possa in qual­che modo far prevedere per il futuro soluzioni migliori. Tale ricerca ha però lo svantaggio, ri­spetto ad altri settori, che l'immagine culturale della malattia non è così vivida come quella di altre patologie. In qualche modo la quantità e la qualità della ricerca sono proporzionali alle aspettative che la società esprime.

Paragonando la ricerca sull'Alzheimer con quel che è avvenuto e sta avvenendo per i tumo­ri e l'AIDS emerge immediato il divario. È indi­spensabile riformulare l'immagine culturale del­la malattia. Tale immagine dovrà essere rispetto­sa della malattia così come oggi è conosciuta, nei suoi aspetti drammatici e nei suoi limiti.

 

Una malattia da accettare nelle sue dimensioni reali

Per l'Alzheimer non c'è paura del contagio e quindi il pericolo non è avvertito in termini di so­pravvivenza. Piuttosto è diffuso il timore da parte di familiari, parenti, amici, persone in qualche modo coinvolte nell'assistenza, di vedere com­promessa la propria "qualità di vita". Non si ha paura della malattia in se stessa, ma si teme il senso di oscura incomunicabilità che può tra­smettere ed il peso che l'assistenza può com­portare (14).

Sarebbe invece opportuno che tale patologia fosse conosciuta nelle sue dimensioni reali e che fosse soprattutto colta dalla parte del mala­to e non di altri. In questo senso deve ancora essere fatto un lavoro di ricerca ulteriore. Per il momento ci si limiterà ad approfondire alcuni aspetti della dimensione sociale che alcuni tratti particolari della malattia mettono in evidenza.

 

Fattore di ulteriore gravità: il pericolo

Il malato di Alzheimer può operare in modo pericoloso per sé e per gli altri. AI senso di diffi­coltà insito in una malattia di cui ci si riesce diffi­cilmente a "farsi una ragione" si aggiunge il pe­ricolo che il malato può rappresentare per sé e per gli altri. Presto non può più compiere talune usuali operazioni senza pericolo. Guidare, cuci­nare, lavorare diventano attività pericolose.

Nel caso di persone che abbiano incarichi tecnici è evidente il pericolo insito in un errore di impostazione del lavoro. Nel caso di persone abituate a vivere in casa da sole quello di lascia­re aperto il gas, l'acqua, l'elettricità.

Al pericolo bisogna rispondere con il control­lo. Le forme di tale attività di tutela sono eviden­temente molto diverse e risultano fortemente in­fluenzate dall'ambiente in cui il malato si viene a trovare. A casa propria, con propri familiari, tale controllo sarà compito di qualcuno (in genere il coniuge). Nonostante gli sforzi per non rendere tale attività opprimente per il malato, può acca­dere che ci siano delle ribellioni, che cioè tale controllo venga percepito come una effettiva ri­duzione della propria libertà.

 

Tutela e rispetto delle volontà

Si pone, in questi casi un problema che di­venterà ancor più evidente con l'aggravarsi del­la malattia: il rispetto della volontà. Come abbia­mo già sottolineato, in una fase estrema il mala­to di Alzheimer non è in grado di comunicare le sue necessità.

Qualcuno deve interpretare i suoi bisogni e deve prendersene cura, rispettando e facendo rispettare diritti e volontà. Tanto più una persona non è più in grado di autodifendersi tanto più il sistema sociale dovrebbe essere in grado di ri­spettare le norme giuridiche che tutelano i sog­getti deboli. Tanto più i soggetti deboli esprimo­no con difficoltà le loro personali volontà quanto più andrebbero rispettate, tenendo conto del quadro giuridico e di ciò che hanno espresso, nel tempo della consapevolezza, in termini di preferenze, di gusti, di convincimenti.

È utile ricordare quanto dichiarato dalla OMS: «L'assistenza dovrà essere strutturata in modo da non togliere prematuramente al paziente tut­te le opportunità di scelta, decisione e pianifica­zione personale, ad esempio, come passare la giornata... Ai fini della gestione, ciò significa che un ambiente prevedibile contribuirà a fare in modo che il demente utilizzi le sue capacità co­gnitive il più a lungo possibile» (15).

 

Fattore di ulteriore gravità: la cronicità

Per cronicità si intende quella condizione di permanente stato patologico che si prolunga nel tempo. Taluni, giustamente, sostengono che la distinzione tra fase acuta e cronica della malat­tia non rende ragione di quel processo continuo e mutevole di riacutizzazione che è l'ammalarsi.

Nella persona colpita dalla malattia di Alzhei­mer questa cronicità assume tratti peculiari. In­fatti la descrizione stessa della malattia in fasi, ne sottolinea l'andamento temporale, e ne sotto­linea soprattutto, l'esito infausto. II tempo in que­sto caso non aiuta.

Al contrario, con il suo scorrere si possono notare i peggioramenti, le riduzioni, le perdite ulteriori, senza che si sia riusciti a contrastare, in maniera efficace, questi eventi. È vero che al­cune tecniche di riorientamento possono aiuta­re (16); è vero che scrivere i nomi sugli oggetti in casa può contribuire ad alleviare la fatica del caos semantico (17); ma il tempo svolge il suo corso inesorabilmente verso un peggioramento. E tale condizione "peggiore" si determina prima­riamente e sempre più gravemente nelle funzio­ni superiori.

Prima di perdere il movimento, il malato sem­bra perdere se stesso. Il tempo non aiuta a ritro­varsi, e non facilita neanche il compito di chi non vuole perdere colui o colei cui è legato. II tempo porta via, attraverso la malattia di Alzhei­mer, lasciando il corpo preda di molte acuzie.

In un malato cronico, come quello colpito dal­la malattia di Alzheimer, molte sindromi collate­rali possono presentarsi in modo devastante. E le risposte di un organismo nel caos sono ina­deguate. Innanzi all'intreccio di cronicità e acu­zie che si manifesta tutti, malato, medico, fami­liari, persone a diverso titolo coinvolte, non pos­sono che assumere un atteggiamento di pazien­te ricostruzione, di cui si conosce la fine, ma che si deve necessariamente, pervicacemente, riprendere.

 

Una malattia di tutti

Un altro elemento che caratterizza la malattia è la sua "democraticità". È una malattia di tutti. Ed è frequentemente, fatto non irrilevante, una malattia di coloro che hanno lavorato, che han­no vissuto una vita attiva, che sono stati con gli altri. Sono proprio persone "comuni" quelle che, spesso all'improvviso, si scoprono non più in grado di comportarsi come pochi mesi prima.

Coloro che la malattia di Alzheimer rende di­pendenti non lo erano prima, e, con molta pro­babilità, erano anche orgogliosi della propria autonomia. È noto come siano colpiti soggetti con vissuti psicologici e storie professionali molto diverse.

È noto come i fattori ereditari non siano così rilevanti. Si tratta di una malattia per tutti, o "di tutti", ma ciò non è così noto. Molti rifiutano la malattia ma piuttosto che rifiutare questa possi­bilità sarebbe più ragionevole, oltre che valido sul piano etico, prendersi cura di coloro che og­gi sono colpiti. Ragionevole è altresì provare quindi, attraverso la ricerca, la cura e l'amiche­vole compartecipazione a vincere l'incomunica­bilità che questa patologia sembra imporre.

Anche per questo motivo il passaggio dall'ab­bandono alla cura deve essere non solo affidato alle singole persone coinvolte nella malattia ma diventare costume diffuso (18). Ciò è indispen­sabile proprio perché la malattia, per le sue ca­ratteristiche di incomunicabilità dall'interno, im­pone una più rilevante assunzione di responsa­bilità dall'esterno.

 

La crisi della comunicazione tra il soggetto, se stesso e il mondo

Il soggetto colpito da malattia di Alzheimer vi­ve la crisi delle relazioni attive e passive che lo coinvolgono nell'ambiente. Come chiunque al­tro, nel corso della sua vita, ha costruito relazio­ni, ha collocato se stesso/a in un contesto so­ciale. L'insieme delle relazioni interpersonali, af­fettive, economiche, professionali, culturali co­stituisce, inestricabilmente, la vita stessa del soggetto (19).

Corpo e storia sono il soggetto stesso, con le sue relazioni tra sé ed il mondo. Ma quando una persona è colpita dalla malattia di Alzheimer una delle prime conseguenze è la riduzione della ca­pacità di stabilire nuovi rapporti, ovvero di modi­ficare in modo positivo quelli esistenti.

Si possono quindi osservare due conseguen­ze sul piano delle relazioni sociali del soggetto malato. Da una parte non si accresce il numero, lo spessore, la significatività delle relazioni so­ciali; dall'altra molte di quelle già impostate si deteriorano.

 

Una riduzione comunicativa "totale"?

Ci chiediamo: la riduzione di tale capacità è così rilevante da farla scomparire? La posizione che si vuole proporre è un no radicale. Per quanto possano ridursi le attività di modificazio­ne del mondo da parte del soggetto malato, e la vita si riduca vistosamente dal punto di vista de­gli ambienti vivibili e visitabili, non si giunge mai, fino alla morte del soggetto, e per alcuni versi anche dopo, alla sua totale riduzione comunica­tiva.

Tale assunto fondamentale si fonda evidente­mente sulla considerazione della natura stessa dell'essere umano, e conseguentemente dei suoi diritti.

Ogni uomo ha valore per la sua esistenza in­dipendentemente dal suo valore sociale, o an­cor meno dalla quantità/qualità delle sue rela­zioni sociali. La plasticità ridotta non riduce a zero il significato della persona.

Si dovrebbe piuttosto riflettere su quanto tate plasticità sia condizione bio-psico-sociale che può far emergere risorse vitali, anche comuni­cative, inaspettate. Non è senza senso ricordare che per molte patologie sono state provati gli ef­fetti positivi di un semplice interessamento attivo da parte di una persona vicina.

La capacità di comunicazione e adattamento di una persona malata dipende significativa­mente dall'ambiente e dagli stimoli che questo può offrire (20). Dipende, come è evidente, an­che dalla capacità dell'ambiente di cogliere i se­gnali comunicativi espressi in ogni modo dalla persona malata. Non a caso organi di stampa internazionali hanno dato ampio rilievo alla "scoperta" che un ambiente umano, anche in ospedale, contribuisca alla cura in modo signifi­cativo (21).

 

Il linguaggio del corpo

Anche il corpo parla; e nel caso delle persone colpite da malattia di Alzheimer ciò è ancora più evidente. La comunicazione pur ridottissima si mantiene fino al decesso. Ciò è tanto più vero quanto più la persona è guardata con rispetto ed attenzione. E ciò è tanto più significativo se si tiene conto che la malattia di Alzheimer non si può raccontare.

Come detto per la sua stessa natura tale pa­tologia impedisce una comunicazione ordinaria, e quindi facilmente intellegibile. È per questo che attraverso le abituali vie di comunicazione dì massa possono "passare" solo immagini di volti silenti, a volte apparentemente vuoti, a volte se­reni, a volte angosciati. Chi è malato non può comunicare razionalmente, con i linguaggi ver­bali che ci sono propri. Ciò che comunica è il suo corpo, è il suo volto, è la sua storia, per chi la conosce, l'apprezza e la stima.

 

L'incomunicabilità da superare dall'esterno

Se la malattia non la si può descrivere dall'in­terno, esistono però delle efficaci comunicazioni dall'esterno. Chi ha vissuto come testimone la malattia - un familiare, un amico, una persona che per lungo tempo ha assistito un malato di Alzheimer - può raccontare tutto questo.

La testimonianza di coloro che hanno conti­nuato a credere nella possibilità di una comuni­cazione effettiva è, alle volte, sorprendente. Ho già sottolineato altrove l'importanza della pre­senza interessata come chiave per una più im­mediata diagnosi della malattia, ma va eviden­ziato anche quanto sia decisiva la comprensio­ne di quel che accade quando una persona è già malata, lungo il procedere della malattia per capire cosa vive, come lo viva, cosa possa aiu­tare e cosa, invece, crea problemi aggravandoli.

Si tratta di notizie indispensabili per l'imme­diato e per il futuro. Per l'immediato per poter sostenere coloro che, allo stesso modo e nello stesso momento, sono impegnati in questo tipo di assistenza (es. gruppi di auto-aiuto). Ma è an­che un lavoro di accumulazione culturale che può sfociare in quella nuova consapevolezza collettiva nei confronti della malattia, di cui emerge ormai la necessità.

 

Una nuova rappresentanza per chi non può autodifendersi

Ma chi parla dell'Alzheimer non lo ha. Questo pone, sul piano delle relazioni sociali, alcuni problemi ulteriori di rappresentanza, analoga­mente a quanto accade nelle situazioni limite nelle quali si trovano i cittadini in condizioni di estrema debolezza.

Nella sua fase più grave un malato di Alzhei­mer non riesce a comunicare neanche le sue necessità vitali. Non può dire: "Ho fame". Non può dire: "Ho sete". Non perché non abbia fame o sete ma perché non riesce più ad articolare il pensiero e la comunicazione verbale a tale sco­po. Non riesce neanche a comunicare sempre in modo intenzionale attraverso il suo corpo.

Diversamente da quel che accade in malati molto gravi che non abbiano perduto del tutto le facoltà superiori anche se fortemente impossibi­litati, la malattia di Alzheimer riduce fortemente questa intenzionalità.

Chi assiste un malato di questo tipo si trova quindi abbastanza presto (ed estensivamente) a rappresentarne tutti gli interessi. Non si tratta di gestire semplicemente il suo patrimonio (così come il nostro ordinamento giuridico, così patri­monialista, prevede). Si tratta di avere cura dell'intera situazione personale: dalle attività di vita quotidiana, alle relazioni affettive, dai rap­porti sociali, a quelli economici.

 

La dimensione "politica"

Questa tutela è compito, non solo di chi si prende cura del singolo malato ma anche di quelle forme associative che promuovono la di­fesa dei diritti delle persone deboli.

Si tratta di un lavoro a due vie: promozionale e di singoli casi. Il livello promozionale è, almeno in Italia, svolto da associazioni (22), gruppi, or­ganismi che, individuata una esigenza e/o un di­ritto delle persone deboli, lavorano culturalmen­te e politicamente perché:

1. la formulazione di tale esigenza e di tale dirit­to sia comprensibile e sia condiviso;

2. tale esigenza e/o diritto trovi una sua corri­spondente formulazione sul piano della nor­ma giuridica.

I due passaggi sono l'uno all'altro indispensa­bili. Infatti si tratta di:

- studiare e definire il problema secondo i vin­coli culturali e giuridici al momento operanti;

- farlo conoscere nella sua rilevanza;ù

- imporre l'applicazione di norme stabilite che non vengono rispettate;

- predisporre modifiche dell'apparato giuridico se necessario;

- individuare le strategie per tale compito;

- realizzare il cambiamento culturale come premessa per la trasformazione giuridica;

- definire il nuovo quadro giuridico;

- far approvare dagli organi competenti tale nuovo quadro;

- difendere e migliorare l'assunto legislativo.

Tutti questi passaggi risultano indispensabili per garantire un effettivo rispetto dei diritti e del­le esigenze delle persone che non sono in gra­do di autodifendersi. Si tratta di un tipo di inter­vento che non può essere messo in relazione con forme di difesa sociale previste istituzional­mente (es.: il difensore civico o i Tribunali per i diritti dei malati).

Non si tratta infatti di interventi esclusivamen­te difensivi, interni alla struttura che si dovrebbe controllare (interventi che risultano frequente­mente privi di potere reale).

 

La rilevanza giuridica

Ciò che il lavoro promozionale può fare è far diventare patrimonio consapevole di una mag­gioranza quei che è chiaro, inizialmente, solo ad una minoranza. Accettando il gioco democratico delle opinioni, l'attività promozionale tende a de­finire dei contenuti culturali perché siano condi­visi prima e poi codificati giuridicamente.

Tale necessità è determinata dalla disparità di potere reale tra persone sane e persone malate, tra persone deboli e persone forti, tra persone che hanno volontà, potere, possibilità e persone che non ne hanno.

Nel momento in cui, su una questione definita, si riesce a stabilire un effettivo principio di pari­tà, secondo il quale alle persone in difficoltà, so­prattutto se incapaci di auto-difendersi e di co­municare, devono essere garantiti gli stessi di­ritti garantiti agli altri (e quindi non solo generi­camente í diritti umani, ma anche i più vincolanti diritti soggettivi previsti dagli ordinamenti giuri­dici), ecco che tale definizione deve essere san­cita giuridicamente.

Bisogna evitare che gli inevitabili ripensamen­ti, ritorni, riesami delle situazioni conducano ad una diminuzione dei diritti delle persone più de­boli. L'apparato legislativo garantisce dalle flut­tuazioni degli umori collettivi, permettendo una barriera di principi e norme che possono essere invocate per la difesa dei soggetti più deboli.

 

La dimensione "pubblica»

Il lavoro promozionale è per sua natura "pub­blico" nel senso che tende a rendere noto quel che non io è. Innanzitutto viene reso noto il pro­blema, vengono poi fatte conoscere posizioni diverse da quelle maggioritarie, viene quindi av­viato un dibattito sulle possibili soluzioni.

È proprio nell'area pubblica che il lavoro pro­mozionale svolge la sua funzione. Si potrebbe anche dire che il lavoro promozionale trasforma i casi singoli in casi emblematici, nel senso che aiuta ciascuno a rivendicare per sé ed il proprio congiunto (quando questi non può farlo da solo) la forza di una proposta culturale, di un approc­cio diverso al problema, di una soluzione alter­nativa. È in alcuni casi (anzi forse frequente­mente) un lavoro che evidenzia conflitti.

Erroneamente si può ritenere che il lavoro promozionale ne faccia nascere, ma questo giu­dizio deve essere superato in una ricomprensio­ne più realistica dei meccanismi che vengono messi in movimento. Infatti i conflitti sono già nella situazione (ad es. un malato grave, cronico contro il primario di un reparto d'ospedale che vuole dimetterlo senza curarsi delle alternative, e viceversa).

II lavoro promozionale offre solo uno sbocco espressivo, una possibilità alternativa. Il conflit­to, prima dell'intervento promozionale, non emerge, perché la persona in difficoltà è inca­pace di proporre (e quindi pretendere) soluzioni diverse. Il conflitto esplode (come conflitto di po­tere) quando una soluzione alternativa migliore, fondata e convincente è possibile (anche se il primario può non essere d'accordo).

 

La dimensione "privata"

Per ciò che riguarda i casi singoli, si noti che per quel che riguarda l'Alzheimer non sono pro­ponibili soluzioni di tipo partecipativo così come invece può accadere per altri tipi di lungode­genze.

La perdita di facoltà superiori, infatti, impedi­sce al soggetto la rappresentanza diretta dei suoi bisogni, delle sue necessità, ed ovviamen­te, anche delle sue lamentele e dei consigli.

Il caso singolo rimane quindi affidato a chi lo ha in cura, a chi ne ha la tutela (non solo giuridi­ca), a chi ne può far conoscere le volontà. An­che in questo caso il rapporto con "il pubblico" è fondamentale, ma assume un senso del tutto diverso.

Chi si prende cura di una persona malata di Alzheimer, infatti, finirà per gestire interamente la sua situazione, per prendersi in carico ogni ti­po di problemi. Dato che, progressivamente, una persona così malata non può svolgere queste funzioni da sola, qualcuno dovrà sostituirla. Questa sostituzione non è facile né da un punto di vista operativo (che fare e come farlo), né dal punto di vista del senso (perché farlo, che sen­so ha).

Ciascuno è centro di se stesso. Usualmente decide dove andare, con chi vivere, cosa man­giare, tenendo conto, evidentemente di tutte le mediazioni necessarie per sopravvivere nella realtà. Ciascuno è consapevole, più o meno, delle sue possibilità e delle sue aspettative. L'in­treccio di queste determina decisioni, scelte, progetti.

Per un malato di Alzheimer tutto questo diven­ta difficile, confuso, alle volte impossibile. Eppu­re, tanto più la condizione di malattia è grave e le funzioni sono compromesse, tanto più biso­gnerebbe fare progetti, elaborare strategie, identificare errori, decidere meglio, riprovare, sostenere.

La malattia di Alzheimer sembra provocare nella gestione dei casi singoli una sorta di lavo­rio impotente: si fanno molte cose ma non acca­de nulla, ci si dà da fare mala situazione non migliora. È quindi da dire che per la particolarità della patologia la gestione dei casi singoli nella malattia di Alzheimer ben difficilmente può esse­re affidata ad un singolo.

 

L'intreccio

Si può sostenere che mentre pochi (anche uno solo) nella rappresentanza promozionale si occupano di tanti (tutto l'insieme delle persone non in grado di auto-difendersi), nel caso singo­lo, molti debbono occuparsi di una sola persona per garantire un livello adeguato di cure. II medi­co, il terapista, l'infermiere, l'assistente domici­liare, i familiari, gli amici, sia a casa che nelle strutture, sono coinvolti nello sforzo di garantire al malato una buona qualità di vita.

È chiaro che questa contemporanea presen­za di più figure, attorno ad un singolo caso, im­pone una funzione di regia. Questa può essere svolta, a mio giudizio, dal medico come dal fami­liare, dall'amico come dall'operatore, purché ne abbia le capacità. Si tratta di una funzione non esclusiva ma inclusiva, che deve far ruotare in­torno al paziente tutte le risorse necessarie per­ché si trovino le risposte migliori. È l'auto-poiesi di cui si parla sempre più frequentemente e che non può (è sempre un giudizio di chi scrive) essere solo ridotta ad una specifica professio­nalità.

 

Famiglia e piccole residenze: in ogni caso i centri diurni

I protocolli per l'ospedalizzazione a domicilio prevedono che ci sia la disponibilità della fami­glia ad assistere il proprio congiunto in casa (23). Anche la sola moglie, o il solo marito, con l'aiuto dell'équipe sanitaria, può prendersi cura di situazioni di non autosufficienza anche gravi.

Ciò non è più vero però nel caso dell'Alzhei­mer. Una singola persona non può prendersi cura di un malato di Alzheimer per tutto il decor­so della malattia. La scelta di proporre soluzioni di sostegno (centri diurni), ovvero di sostituzione della famiglia nella assistenza (piccole case al­loggio di 8-10 persone), prendono le mosse dalla considerazione di questa difficoltà.

Il rifiuto di soluzioni istituzionalizzanti nasce dalla convinzione che sia semplicemente im­possibile curare, nel senso di "aver cura", pren­dere in carico il caso singolo di una persona colpita da malattia di Alzheimer, in ambienti ina­datti. La scelta di istituzionalizzare è frequente­mente la scelta di custodire, di non curare (24).

Nonostante il caos (anzi proprio a motivo di questo) che la malattia produce (biologicamen­te, psicologicamente, socialmente) non si può accettare una scelta meramente custodialistica.

Apparentemente razionale sul piano economi­co (il costo della cura a casa o in piccole istitu­zioni può in alcuni casi essere superiore alla non cura in mega-istituzioni) non è convincente sul piano etico e su quello scientifico (25).

In una situazione in cui si conosce poco di quel che è la malattia, di quel che accade, di quel che si vive, non offrire le possibili risposte positive è inaccettabile. Si rimanda evidente­mente ad un universo di valori etici che, ancora una volta, sottende le scelte nei confronti delle persone in difficoltà, soprattutto quando non so­no in grado di auto-difendersi (26).

 

Non c'è bisogno di nuovi esperti

Rispetto ai casi singoli le persone che ne han­no cura svolgeranno, per conto di colui che è impossibilitato a farlo, il lavoro di tessitura co­municativa che ciascuno, usualmente, compie da sé. Decideranno quando e come compiere operazioni come il vestirsi, il dormire, il mangia­re, il lavarsi, l'assunzione di medicine. Deciderà altresì come impostare i rapporti affettivi, sociali, come incontrare qualcuno.

Progressivamente, come abbiamo visto, la possibilità di auto-decisione si riduce, mentre si allarga lo spazio di decisione di altri nella pro­pria vita. Questo carica di responsabilità chi si prende cura di un non-autosufficiente.

Come in molte altri casi di minorità, la persona non è più in grado di definire, e comunicare, co­sa sia "meglio" per sé e di conseguenza non può decidere. Chi lo fa al suo posto deve tra­sformarsi in un "esperto"?

Come i genitori non debbono essere dei pe­dagogisti per educare i propri figli, biologici o adottivi che siano, sani o malati, dotati o meno, così non è necessario essere degli esperti per prendersi cura di altri (in questo caso poi esper­ti di quale disciplina? medici? infermieri? edu­catori? assistenti sociali?). C'è un ruolo che dif­ficilmente può essere ridotto in termini di speci­fica professionalità, rientrando piuttosto nel­l'area delle relazioni affettive, dotate di senso morale. Il luogo naturale di questo processo è la famiglia, intesa come ambito affettivo, relaziona­le e non ridotta a meri rapporti giuridici tra pa­renti (27).

In questo senso sono di grande rilievo anche le esperienze di convivenza che ricostruiscono il tessuto familiare tra persone anziane e giovani che non si erano conosciuti prima. È questa fa­miglia, tessuto di relazioni affettive dotate di senso, che deve essere sostenuta perché pos­sa reggere all'impatto di nuovi compiti.

 

Per una politica di sostegno alla famiglia di fatto

La famiglia coinvolta, in questo caso non sarà solo quella ridotta al coniuge convivente. Non è infrequente il caso di figli che scelgono di parte­cipare alla cura di un congiunto malato (28) (al­meno in Italia) (29), e si possono trovare prege­voli esperienze di famiglie di fatto composte da persone giovani e anziani che condividono un luogo come la loro casa (30).

È qui da sottolineare che mentre non hanno speranza di successo quelle iniziative punitive che vogliono costringere le famiglie all'assisten­za, sono da incoraggiare tutte le forme di soste­gno alle famiglie che possono e scelgono di oc­cuparsi direttamente di persone in difficoltà.

Si tratta di un fenomeno che evidentemente trascende il caso della sola malattia di Alzhei­mer comprendendo piuttosto tutte quelle situa­zioni in cui la dipendenza impone una presa in carico complessiva e l'istituzionalizzazione s'è rivelata deleteria.

 

Emblematicità degli aspetti sociali della malattia di Alzheimer

Il caso delle persone colpite da malattia di Alzheimer è in questo senso emblematico. Per i motivi sopra accennati (difficoltà di comprensio­ne della malattia, scarsa comunicazione sul vis­suto di questa, scarsa presa sull'opinione pub­blica perché malattia dei vecchi e non contagio­sa) l'opinione pubblica italiana ha sottovalutato la rilevanza del fenomeno.

Analogamente ha fatto, fino al recente Pro­getto Obiettivo "Tutela della salute degli anzia­ni" (31), anche il Servizio Sanitario Nazionale. Non si è trattato solo di ritardi ma anche di peri­colose omissioni. In diverse situazioni il malato di Alzheimer non è stato riconosciuto tale, prefe­rendo piuttosto delle definizioni inaccettabili sul piano etico, giuridico e medico (32).

 

Superare una crisi profonda

Dal punto di vista sociale tale fenomeno non può che preoccupare anche perché si inserisce in uno più ampio andamento delle società occi­dentali che risultano impreparate ad affrontare le sfide che le modificazioni dei profili salute­malattia hanno introdotto in questi anni recenti, non solo e non tanto sul piano economico-orga­nizzativo quanto su quello etico, culturale e poli­tico. Non solo è in crisi un paradigma medico esclusivamente volto alla eziologia, è in crisi un intero sistema sociale che non riesce a farsi ca­rico della rilevanza di senso che l'aumento delle malattie cronico-degenerative porta con sé (33). È chiaro che la negazione del malato di Alzhei­mer come malato è un caso limite, ma non trop­po. Condivide, in questo, la sorte di molti malati non autosufficienti, anche acuti. Malati di AIDS, di tumore, di altre sindromi degenerative vengo­no sempre più frequentemente deospedalizzati ed estromessi dal circuito sanitario (34).

La mancata attivazione di strutture idonee vie­ne a giustificare l'espulsione di migliaia di citta­dini che pure avrebbero diritto, oltre che l'esi­genza, di trattamenti sanitari.

Prima che una decisione del singolo medico questo tipo di impostazione riflette un atteggia­mento culturale diffuso, socialmente accettato.

È questo contesto che deve mutare ed è a partire da questo mutamento concettuale che si potrà sperare di affrontare una malattia, tuttora così difficilmente dominabile (35).

 

 

 

(*) Associazione Italiana Malati di Alzheimer.

(**) Cfr. il documento "Per il diritto alla cura delle perso­ne colpite da malattia di Alzheimer" in Prospettive assisten­ziali, n. 94, aprile-giugno 1991.

(1) Documento del Gruppo Nazionale per il diritto alla cura delle persone colpite da malattia di Alzheimer, in Pro­spettive assistenziali, n. 94, aprile-giugno 1991.

(2) A.S. Henderson, I disturbi demenziali, in J.H. Hender­son e altri (a cura di), I disturbi mentali degli anziani, OMS, Ginevra, 1989.

(3) J.H. Weakland, John J. Herr, L'anziano e la sua fami­glia, NIS, Roma-Firenze, 1986.

(4) PP. Donati (a cura di), Salute, famiglia e decentra­mento dei servizi, Franco Angeli, Milano, 1988.

(5) C. Saraceno (a cura di), Età e corso della vita, II Muli­no, Bologna, 1986.

(6) L. Boccacin, Gli anziani e la salute: il sostegno delle reti familiari, in La ricerca sociale, n. 43-44, Franco Angeli, Milano, 1990.

(7) E. Scabini, PP. Donati (a cura di), Vivere da adulti con i genitori anziani, Vita e Pensiero, Milano, 1989.

(8) B. Camdessus, Les crises familiales du grand agé, ESL Ed., Paris, 1989.

(9) L. Sdraffa, L'uomo orizzontale, ISE, Firenze, 1989.

(10) N. Rigaux, Raison et deraison: discours medicai et demence senile, De Boeck, Bruxelles, 1992.

(11) D. Sontag, Le metafore dell'AIDS, Einaudi, Torino, 1990.

(12) D. Paccagnella, Nuovi rischi e patologie nella transi­zione epidemiologica verso il 2000, in PP. Donati (a cura di), La cura della salute verso il 2000, Franco Angeli, Mila­no, 1989.

(13) M. Trabucchi, Invecchiamento della specie e vec­chiaia della persona, Franco Angeli, Milano, 1992.

(14) L. Mace, P. Robin, The-36-Hour-Day, The John Hop­kins University Press, Baltimore, 1981.

(15) A.S. Henderson, I disturbi demenziali, in J.H. Hen­derson et al. (a cura di), I disturbi mentali degli anziani, OMS, Ginevra, 1989.

(16) U.P. Holden, R.T. Woods, Reality Orientation: Psyco­logical Approach to the Contused Elderly, Churchill Living­stone, Edimburg, 1982.

(17) Caring for the Person with Dementia, Alzheimer's Disease Society, London, 1984.

(18) B. Veysset, Dépéndence et vieillissement, L'Harmat­tan, Paris, 1989.

(19) Danilo Giori (a cura di), Vecchiaia e società, Il Muli­no, Bologna, 1984.

(20) C. Iandolo, L'approccio umano al malato, Armando, Roma, 1983.

(21) L. Belkin, Hospital Study Tests Benefits of Giving Comfort with Care, The New York Times, September 26, 1992, p. 1 and 24.

(22) Tra le più significative si segnalano:

- "W gli anziani", Associazione per la vita e la difesa dei diritti degli anziani, Piazza Sant'Egidio 3, 00153 Roma;

- CSA - Coordinamento Sanità e Assistenza fra i movi­menti di base, via Artisti 36, 10124 Torino;

- ADA, Associazione per i Diritti degli Anziani, via Po 162, 00198 Roma;

- Centro Diritti del Cittadino, via del Velabro 5, 00186 Roma;

e specificamente per ciò che riguarda le persone colpite dalla malattia di Alzheimer:

- AIMA - Associazione Italiana Malattia di Alzheimer, via Revislate 13, 28010 Veruno (No).

(23) F. Fabris, L. Pernigotti, Cinque anni di ospedalizza­zione a domicilio, Rosenberg & Sellier, Torino, 1990.

(24) M. Pagani, P. Baroni, La vita oltre il muro, Rosen­berg & Sellier, Torino, 1990.

(25) C. Iandolo, C. Hanau, Etica ed economia nell'azien­da sanità, Franco Angeli, Milano, 1992.

(26) Cfr. Documenti del Gruppo Nazionale "Diritti ed esi­genze delle persone non autosufficienti": 1) Diritti ed esi­genze delle persone gravemente non autosufficienti; 2) Criteri-guida per gli interventi sanitari relativi alle persone gravemente non autosufficienti ed indicazioni in merito agli interventi domiciliari, semiresidenziali, residenziali; 3) 140.000 posti letto per anziani della legge finanziaria 1988: emarginazione dei più deboli o rispetto dei loro diritti?; 4) La lungodegenza nella legge n. 545/85 ed il D.M. del 13.9.88; 5) Prima intervenire a casa; 6) Le Residenze Sani­tarie Assistenziali; 7) Prendersi cura delle persone anziane anche alla luce del progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani". Tutti i testi sono stati pubblicati su numero­se riviste, ma risultano integralmente disponibili per i tipi di Prospettive assistenziali, via Artisti 36, 10124 Torino, che ne ha curato la pubblicazione dal 1987 ad oggi.

(27) PP. Donati, La famiglia come relazione sociale, Franco Angeli, Milano, 1989.

(28) PP. Donati (a cura di), Primo rapporto sulla famiglia in Italia, Ed. Paoline, Cinisello, 1989; PP. Donati (a cura di), Secondo rapporto sulla famiglia in Italia, Ed. Paoline, Cini­sello, 1991.

(29) C. Hanau (a cura di), I nuovi vecchi: un confronto in­ternazionale, Maggioli Ed., Rimini, 1987.

(30) Comunità di Sant'Egidio, L'età più lunga, Ed. Paoli­ne, Cinisello, 1991.

(31) Ministero della Sanità, Progetto-obiettivo “Tutela della salute degli anziani", 1992.

(32) Delibera della Giunta della Regione Piemonte n. 333-8499 del 2 agosto 1991 sui non autosufficienti "sani".

(33) PP. Donati (a cura di), La cura della salute verso il 2000, Franco Angeli, Milano, 1989.

(34) AA.VV., Eutanasia d'abbandono - Anziani cronici non autosufficienti: nuovi orientamenti culturali e operativi, Ro­senberg & Sellier, Torino, 1988.

(35) Cfr. la nota 1.

 

 

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