Prospettive assistenziali, n. 104, ottobre-dicembre 1993

 

 

L'INSERIMENTO LAVORATIVO DEGLI HANDICAPPATI: UN DIRITTO-DOVERE NUOVI ORIENTAMENTI CULTURALI E OPERATIVI

 

 

Promosso dal gruppo "Handicappati e Società" (*) si è tenuto a Milano il 23 ottobre scorso il convegno sul tema "Il posto di lavoro: un diritto, un dovere. Orientamenti culturali e proposte operative".

Incoraggiante la presenza di oltre 400 perso­ne provenienti da tutta Italia (anche se prevalentemente dal Centro e dal Nord, per ovvi motivi logistici) rappresentative delle diverse aree so­ciali del Paese: associazioni del mondo dell'handicap e del volontariato, molti sindacalisti, operatori dei servizi di territorio, insegnanti di formazione professionale, lavoratori e soci di cooperative, giornalisti, molti familiari di handi­cappati intellettivi.

Filo conduttore del convegno è stato, sin dall'intervento di apertura del mattino di Alessio Zamboni dell'Associazione Papa Giovanni XXIII, l'affermazione del diritto al lavoro, in posti nor­mali, di tutti gli handicappati che hanno capacità lavorative da spendere, ivi compresi gli handi­cappati intellettivi. Di qui insistente è stata la ri­chiesta di un'urgente riforma della legge sul col­locamento obbligatorio (la n. 462/1968), ma con le modifiche che sono state illustrate durante il convegno. Tutti gli interventi hanno infatti de­nunciato le gravi carenze dell'attuale testo de­positato al Senato in data 15 settembre 1993 dal comitato ristretto della Commissione Lavoro.

Nella mattinata, proprio agli handicappati in­tellettivi è stato dedicato un video. "La parola ai protagonisti", così ha presentato Anna Contardi dell'Associazione Bambini Down il filmato, che li ritrae in fabbrica, in negozi, in ospedale, al di­stributore di benzina, nel pastificio... e che dimo­stra sia che sono in grado di lavorare, sia che, nonostante gli impedimenti di legge (fino alla sentenza n. 50/1990 non avevano neppure dirit­to al collocamento obbligatorio) dove vi è stata la sinergia di più parti (Enti locali, operatori, for­ze sociali, sindacato e imprese) il posto di lavoro si è trovato.

È da rilevare con soddisfazione, che da nes­suno degli intervenuti è stato riproposto - come sovente succede - soluzioni "protette" a prete­sto della difficoltà, ancora più evidente in questo periodo, di ottenere posti di lavoro. Invece, in tutto il corso del convegno, si è ragionato in ter­mini costruttivi di ricerca di strategie e metodo­logie per individuare, nonostante tutto, normali ambienti lavorativi. Gli stessi rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil hanno riconosciuto che, in effetti, sono proprio loro, gli handicappati intellettivi, a rappresentare oggi la vera scommessa su cui si devono orientare gli sforzi di tutti.

Non spaventano i 358.000 handicappati di­soccupati, anche se rappresentano ben l'85% degli iscritti al collocamento obbligatorio, se­condo i dati forniti dal Ministero del lavoro relati­vi al 1991 (ultimi dati disponibili). Tantissimi di questi possono lavorare bene e con piena resa produttiva se si realizza il collocamento mirato e cioè la scelta del posto di lavoro compatibile con la loro capacità lavorativa. È il caso della stragrande maggioranza degli handicappati fisi­ci e/o sensoriali. Per queste persone non si do­vrebbe più parlare in termini di "problema", co­me ancora si sente fare, in riferimento al loro collocamento al lavoro.

Tuttavia, nessuno ha negato il rischio che non solo le organizzazioni imprenditoriali, ma anche quelle sindacali, si convincano che in una situa­zione di crisi dell'occupazione come quella at­tuale, una crisi per tutti, non si possa pretendere di inserire al lavoro chi ha maggiori difficoltà di adattamento.

Quattro i nodi emersi chiaramente dal conve­gno, sui quali ci si deve impegnare per superare la situazione di stallo in cui ci troviamo: un cam­biamento culturale, un'economia più umana, un sindacato diverso, la realizzazione del colloca­mento mirato e, quindi, la riforma della legge sul collocamento al lavoro.

 

Innanzitutto un approccio culturale diverso

Non si può continuare a proteggere indistinta­mente con la stessa legge sia persone con svantaggi sociali (orfani, vedove di guerra, pro­fughi,...), che mantengono a tutti gli effetti una piena capacità lavorativa e totale autonomia, e persone con handicap (fisici, sensoriali, intellet­tivi e psichici) che possono avere piena o ridotta capacità lavorativa, se messi in condizioni adat­te, ma che in ogni caso hanno meno autonomia delle persone dì cui sopra.

Secondariamente si deve superare l'astorico criterio della percentuale di invalidità, che finora ha favorito il collocamento al lavoro, spesso "clientelare", dei falsi invalidi, di coloro cioè che, avendo una percentuale di invalidità minima go­dono a tutt'oggi del collocamento protetto e so­no ovviamente preferiti negli avviamenti al lavoro dagli imprenditori, perché sono validi a tutti gli effetti.

È evidente che non sono questi gli handicap­pati da tutelare, ma quanti realmente hanno og­gettive difficoltà di inserimento al lavoro.

Nel suo intervento Maria Grazia Breda, com­mentando gli attuali testi depositati in Parlamen­to, ha rilevato come si continui a fare riferimento ancora alla percentuale di invalidità, anche se ormai è ampiamente dimostrata la sua ineffica­cia.

Ai fini dell'avviamento al lavoro, infatti, non è sufficiente sapere se la persona ha il 40, il 60, il 100% di invalidità; né se è spastico, cieco, han­dicappato intellettivo. È invece indispensabile accertare - con una apposita commissione - le sue potenzialità e/o capacità lavorative per po­ter individuare il posto di lavoro più idoneo con un progetto di collocamento mirato.

Bisogna valutare il "saper fare" della persona considerata nella sua globalità: autonomia nel lavoro, grado di dipendenza, capacità di com­prensione degli ordini, rendimento.

La valutazione della capacità lavorativa e con­seguentemente del grado di autonomia della persona ci permette anche di superare le attuali differenziazioni presenti tra "invalidi civili, invali­di per infortunio, per malattia, di guerra". Non devono più esserci discriminazioni tra persone che, in presenza di menomazioni diverse, hanno uguale capacità e resa produttiva.

È anche importante definire - secondo i pro­motori del convegno - che vi sono oggettiva­mente handicappati con capacità lavorativa "nulla". Questo permette di riscattare le persone che invece sono in grado di esprimere una ca­pacità e resa produttiva anche piena, fatto non riconosciuto per esempio dalla attuale legge 462/1968, che definisce a priori tutte le persone handicappate "con residue capacità lavorative", quando ciò non è vero.

Inoltre, riconoscere l'esistenza di questi sog­getti (con capacità lavorative nulle) permette di non accettare la previsione, in una legge per il collocamento al lavoro, di soluzioni assistenziali, quali per esempio le attività protette e/o centri di lavoro guidato. La legge deve riguardare perso­ne in grado di lavorare; per gli altri soggetti van­no previsti i centri diurni presenti nelle indica­zioni della legge 104/92 sull'handicap, per i quali va resa obbligatoria per gli Enti locali la lo­ro costituzione.

Comprendere che una persona, anche se handicappata, può rendere al pari degli altri la­voratori, se collocata in modo mirato, o comun­que può garantire una resa produttiva anche se ridotta, ma certa e proficua per l'azienda, è un'acquisizione fondamentale sul piano concet­tuale e condizione indispensabile per un ap­proccio corretto e rispettoso del diritto delle persone handicappate.

Se ammettiamo che quell'handicappato -può lavorare al pari di un altro, diventa difficile spie­gare come mai, anche nei momenti di emergen­za come ora, ogni venti posti di lavoro "recupe­rati", un posto non viene destinato ad un handi­cappato che sa svolgere quella stessa mansio­ne.

 

Rendere più umana l'economia e più giusta la società

Di qui il richiamo a quei valori fondamentali per l'uomo, a sostegno anche sul piano etico, oltre che culturale, del diritto-dovere al lavoro degli handicappati, cui si richiama nel suo inter­vento Mons. Giampaolo Crepaldi, Direttore dell'Ufficio politiche sociali e del lavoro della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

«Se non ci interroghiamo sul tipo di società che vogliamo costruire per il bene dell'uomo, qualunque uomo, in nome della dignità dell'uomo - ha rammentato Mons. Crepaldi - i rimedi che stiamo individuando sono solo palliativi. Al di là degli aggiustamenti indispensabili, ma insuffi­cienti, è urgente ridefinire i fondamenti di una so­cietà in cui ogni uomo sia riconosciuto e abbia il suo posto. (...) Purtroppo la nostra società - ha continuato - è una società sempre più governata da ragionieri e ai ragionieri, si sa, non interessa salvaguardare la dignità dell'uomo, ma salva­guardare esclusivamente i bilanci. Ma il diritto al lavoro la società lo deve ad ogni uomo; è solo at­traverso l'attività con gli altri uomini che ciascuno si struttura personalmente con la sua opera e ac­quista così un'esistenza sociale riconosciuta. Il dibattito sul lavoro deve prevedere l'ascolto di chi dal lavoro è escluso (...). È questa una que­stione morale con cui deve fare i conti la nostra società». Mons. Crepaldi conclude con la lettura di una pagina dell'Enciclica "Laborem exer­cens": «Sarebbe radicalmente indegno dell'uo­mo ammettere alla vita della società - e dunque al lavoro - solo i membri pienamente funzionali perché così facendo si ricadrebbe in una grave forma di discriminazione, quella dei forti e dei sa­ni, contro i deboli».

«Ma non ci sono i sani che escono prima dalla crisi e poi, se ce ne ricordiamo ancora, si darà lavoro agli handicappati - ha esordito l'On. Au­gusto Battaglia -. No! Questa volta dobbiamo marciare tutti insieme, verso una società più giu­sta e più solidale, che dia spazio, emancipazione, lavoro per tutti». Ha anche ricordato come non vi siano mai stati, neppure in passato per gli han­dicappati disoccupati, tempi migliori di quelli at­tuali.

«Anzi, paradossalmente dal 1981, Anno inter­nazionale dell'handicappato, furono promosse una serie di misure restrittive con tagli ai servizi e ridimensionamento delle prestazioni per gli han­dicappati che culminarono nell'articolo 9 del de­creto 638 che con il blocco dello scorrimento, determinò una brusca frenata nel collocamento» (...). «Dal 1982 al 1992 si perdono infatti ben 61.325 posti di lavoro. Da 295 mila del 1992 si scende a circa 239 mila nel 1990, a 234.457 nel giugno del 1992: una vera e propria emorragia. Crescono invece i disoccupati fino alla cifra re­cord di 375 mila, il 90% dei quali invalidi civili».

L'On. Battaglia prosegue affermando che «pa­radossalmente gli anni del calo dell'occupazione sono stati gli stessi che hanno visto crescere nel complesso della società italiana una forte do­manda di lavoro e di integrazione. Perché, pur con le molte e note carenze il processo di cresci­ta anche qualitativo dei servizi di riabilitazione e di formazione non si è bloccato. Un'opera di sen­sibilizzazione capillare è stata condotta da ope­ratori, enti locali, sindacati, ma soprattutto da un ricco e variegato mondo associativo che andava aggregandosi intorno ai bisogni nuovi della per­sona handicappata. Ma più che le parole hanno contato i fatti. Hanno contato i settemila e più ra­gazzi che ogni anno escono dalla scuola dell'ob­bligo forti di anni di integrazione e di studio. I cir­ca ventimila giovani che ogni anno frequentano corsi di formazione professionale e che sono i veri protagonisti di tante esperienze innovative, che con la formazione in azienda, con l'ausilio di nuove tecnologie hanno dimostrato che in pre­senza di stati di insufficienza mentale medio gra­ve e di pesanti limitazioni fisiche possono essere espresse capacità lavorative, a volte insospetta­te. I tirocini in azienda, i servizi di inserimento la­vorativo, le cooperative sociali, le borse lavoro sono solo alcuni degli strumenti messi in atto a volte inventati per facilitare l'accesso al lavoro dei giovani con handicap».

Oggi il conflitto è tra un pezzo di società che è andata avanti sulla strada del diritto e della soli­darietà ed un sistema istituzionale che tarda ad adeguarsi, un mondo imprenditoriale, cultural­mente arretrato, incapace di misurarsi con il nuovo. È questo conflitto che va superato per arrivare ad un sistema di collocamento più mo­derno, ad una nuova legge che dopo venticin­que anni sostituisca la 482, guardando ai pro­gressi dei servizi, alla nuova cultura dell'handi­cap, al meglio della legislazione e delle espe­rienze dei paesi della comunità europea.

E questo è un interesse di tutti, non solo degli handicappati.

Ma la mancanza di una coscienza politica ma­tura in tal senso traspare ancora dai testi pre­sentati per la riforma del collocamento al lavoro. Essi non tengono affatto conto delle esperienze realizzate nel Paese di collocamento mirato di handicappati, benché questi dimostrino che con tale modalità è possibile rendere più estendibile il collocamento al lavoro di molti più soggetti e, quindi, nei fatti si rendono produttive persone che, altrimenti, sono a carico dello Stato, fruitori di pensione di invalidità e di servizi assistenziali.

Ad eccezione del testo n. 2399 presentato dall'On. Battaglia e altri, continuano a mantenere intatta - se non a peggiorare - l'attuale impo­stazione puramente impositiva, che non consi­dera né le capacità della persona, né la loro compatibilità con il posto di lavoro, impostazione peraltro sconfessata da tutti coloro che operano nel settore, imprese comprese.

A questo proposito, alcuni hanno rilevato pro­prio l'assenza degli imprenditori al convegno. Ma da parte degli organizzatori si è trattato di una scelta voluta, in quanto non si riteneva que­sta la sede più idonea per un confronto. Il con­fronto è, infatti, da ricercare, ma nell'ambito del­le realtà locali, dove è opportuno seguire (al di là dell'occasione del convegno) le concrete azioni delle imprese.

È sembrato invece più opportuno al gruppo "Handicappati e società" stimolare un dibattito con il sindacato, gli operatori e le forze sociali per poter offrire ai partecipanti una conoscenza più approfondita che fosse utile ed esportabile nella propria realtà.

Conoscere i diversi livelli della contrattazione, le responsabilità del sindacato, il suo ruolo me­diatorio: questi gli obiettivi che ci si è posti e che, ci sembra, siano stati in parte raggiunti.

È innegabile, infatti, e la maggior parte degli interventi del dibattito non ha mancato di evi­denziarlo, che spetti proprio al sindacato il po­sto principale nella difesa dei posti di lavoro per gli handicappati, ruolo, purtroppo, non ancora assunto in modo cosciente e consapevole, salvo le eccezioni che vi sono, ma che purtroppo non costituiscono ancora la regola.

 

Come può cambiare il sindacato

Dall'intervento di Luca Pancalli, responsabile del settore handicap per la Uil, il panorama emerso non è dei più entusiasmanti. Egli non ha mancato dì sottolineare "i mancati appuntamenti del sindacato" a partire anche dalla capacità di difesa dei diritti degli stessi handicappati assun­ti: eliminazione delle barriere architettoniche, mezzi di trasporto insufficienti e, spesso, inesi­stenti; la "beffa" dell'art. 33 della legge 104/92, che solo in questi giorni è stato in parte reso esigibile. Non ha poi mancato di sottolineare co­me non sia sufficiente parlare di "solidarietà" - riferendosi all'intervento in particolare di Mons. Crepaldi - quando da parte degli stessi orga­nismi ecclesiali, che dovrebbero dare il buon esempio, ci si rifiuta di assumere persone han­dicappate, seppure con capacità lavorative pie­ne, adducendo il pretesto di non essere soggetti al collocamento obbligatorio.

«Quanto il sindacato sia veramente convinto di dare battaglia per il diritto al lavoro degli handi­cappati - ha sostenuto Corrado Mandreoli, re­sponsabile regionale delle politiche sociali per la Cgil lombarda - lo si misura non tanto nelle di­chiarazioni, ma nei contratti. Un punto cruciale è infatti la contrattazione. Ma ancora oggi nei con­tratti non c'è nulla, salvo un vago richiamo al ri­spetto della 482/1968, che non trova però alcuna verifica o controllo sindacale».

Secondo Mandreoli, sono due i livelli di con­trattazione sui quali il sindacato deve comincia­re ad agire: il livello nazionale e quello di cate­goria e di territorio. «A livello nazionale finora - constata amaramente Mandreoli - abbiamo per­so tutte le occasioni di trattare nello stesso tavolo in cui si poteva trattare nell'emergenza occupa­zione, l'emergenza nell'emergenza, che è la di­soccupazione cronica degli handicappati. Dimen­ticarsi in queste occasioni di questa fetta di citta­dini, conferma, purtroppo, che il diritto al lavoro degli handicappati non è vissuto nell'insieme del­la strategia del sindacato in generale».

Siamo ora in piena campagna di rinnovo dei contratti nazionali, ed è in questa sede che deve essere inserito nella piattaforma quanto è ne­cessario per difendere il diritto al lavoro di que­ste persone ed attivare l'inserimento mirato, che è la modalità vincente per garantire il successo dell'avviamento al lavoro.

Secondo Mandreoli, un'altra battaglia che spetta al sindacato è quella di rivendicare, nei confronti degli Enti locali, un servizio di inseri­mento lavorativo efficace, che davvero sia un re­ferente per costruire il collocamento al lavoro.

Il sindacalista evidenzia inoltre la necessità di prevedere corsi per delegati finalizzati alla crea­zione di quadri intermedi, che assicurino all'in­terno dell'azienda «chi si rende responsabile sul piano delle relazioni» di quella persona. «Biso­gna rendersi conto - dice Mandreoli - che molto si è fatto per l'handicap fisico e sensoriale; certa­mente ci sono ancora difficoltà, ma sono supera­bili. Il problema più grosso è comunque l'inseri­mento di handicappati intellettivi. La concorren­zialità in azienda e il clima di pesante ristruttura­zione pongono questi soggetti molto, molto ai margini del contesto produttivo, se non c'è una rete che li salvaguardi, come potrebbero essere, appunto, persone qualificate per rispondere di questo».

Ma vi sono anche altri elementi che possono indicare un rinnovamento nel sindacato. «Finora - aggiunge Luigi Viviani, responsabile del mercato del lavoro della Cisl - chi si inte­ressa di queste tematiche all'interno del sindaca­to è il dirigente delle politiche sociali, ma questo è un problema che deve essere assunto e affron­tato dai dirigenti, che seguono il mercato del la­voro».

Condividiamo tale affermazione, perché rite­niamo che il vero riscatto dell'handicappato dal mondo assistenziale e l'inserimento a pieno tito­lo nella società, non può che passare anche da questi riconoscimenti formali, cui ne deriva però un comportamento sostanzialmente più favore­vole alla difesa dei suoi interessi.

«Vi sono in questo momento particolari cate­gorie che puntano anche con esempi eclatanti (Crotone, Napoli, Torino, Marghera) ad attirare l'attenzione sul proprio problema e ciò rischia - ha continuato Viviani - di portarci a trascurare chi, come gli handicappati, non hanno strumenti per attirare i media. Questo può essere evitato se lo stesso sindacato segue e affronta i problemi di entrambi».

I risultati finora ottenuti non hanno permesso di superare, ad avviso di Viviani, il carattere an­cora sperimentale degli inserimenti, che non so­no ancora una linea permanente che orienta l'insieme della contrattazione del sindacato. Ma si può cambiare, egli dice. Così, come si sono fatti accordi generali nell'inserimento dei lavora­tori normali, l'inserimento dei lavoratori handi­cappati può diventare un ambito di intervento in­terconfederale.

Dentro le attuali trasformazioni del mercato del lavoro, sostiene Viviani, ci sono possibilità per creare opportunità lavorative nuove anche per gli handicappati. Ma ciò comporta necessa­riamente un ripensamento del sindacato, com­presa la necessità di un impegno a modificare la legge attuale sul collocamento al lavoro che così com'è non aiuta affatto tali soggetti.

 

Il collocamento al lavoro mirato

Si pone però, a questo punto, la necessità di affrontare il quarto nodo che è la realizzazione del collocamento mirato. Chi valuta l'handicappato? Chi attiva e segue gli inserimenti? Chi li prepara?

Adriano Cassulo, presentando la sua espe­rienza nell'Agenzia del lavoro di Trento, eviden­zia, quale elemento fondamentale del colloca­mento mirato, la costruzione di un progetto, che veda le diverse parti sociali operare insieme (soggetti interessati, Enti locali, Uffici di colloca­mento, imprenditori, sindacato) per il raggiungi­mento dell'obiettivo: un unico servizio incaricato appositamente di seguire e favorire il colloca­mento lavorativo degli handicappati.

Questa proposta coincide con la richiesta avanzata dal gruppo "Handicappati e società" contenuta nel documento distribuito ai parteci­panti del convegno, che ritiene indispensabile porre in capo all'Ente locale la responsabilità del servizio di inserimento lavorativo, d'intesa, naturalmente, con l'Ufficio di collocamento.

Il servizio per l'inserimento lavorativo dovreb­be avere il compito di:

- svolgere tutte le necessarie attività tecniche per l'inserimento lavorativo e per i tirocini di la­voro degli handicappati;

- collaborare con il settore della formazione professionale per l'individuazione dei contenuti e delle modalità dei corsi di formazione profes­sionale e/o prelavorativa e per le iniziative di ag­giornamento professionale;

- collaborare con gli uffici provinciali del lavo­ro e della massima occupazione per l'inseri­mento lavorativo e per i tirocini di lavoro degli handicappati;

- ricercare i posti di lavoro più idonei per gli handicappati.

Poiché i soggetti handicappati sono persone in cerca di occupazione lavorativa, il personale dovrebbe essere messo a disposizione dal set­tore dell'Ente locale responsabile in materia di lavoro e formazione. II settore socio-assistenzia­le dovrebbe, invece, garantire agli handicappati che risultano privi di capacità lavorativa, a cau­sa della gravità delle loro condizioni, i necessari servizi diurni e domiciliari di cui necessitano.

Purtroppo, è andata in parte delusa l'attesa nei confronti dell'intervento del responsabile dell'Enaip, Tom Emmeneggei, che ha sostituito Francesco Calmarini, poiché non ha affrontato i nodi, che i promotori avevano suggerito, rite­nendoli tra i più urgenti di questo scenario. In­nanzitutto, il rapporto tra formazione professio­nale e scuola superiore. Se è logico che, in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 215/ 1987 sia garantito il diritto allo studio di tutti gli handicappati, dovrebbe essere altrettanto chia­ro che tale diritto deve essere compatibile con le capacità del giovane.

Invece, in assenza di risposte formative come i corsi prelavorativi, che sono alla portata dei giovani handicappati intellettivi (non così lievi da poter essere inseriti nelle classi comuni, ma neppure così gravi da finire nei centri assisten­ziali), la scuola superiore in questi ultimi anni ha offerto una risposta, anche se non sempre la più idonea.

In secondo luogo, avremmo voluto conoscere come la formazione professionale si sta attrez­zando per venire incontro alle nuove esigenze, come intende occupare il suo ruolo e difendere il diritto ad essere formati al lavoro sia per gli handicappati fisici e sensoriali, in grado di se­guire i corsi con opportuni sostegni, sia per gli handicappati intellettivi con corsi idonei alle loro capacità; come intende porsi, infine, tra chi ritie­ne inutile formare chi poi difficilmente troverà la­voro (handicappati, soprattutto intellettivi) e an­teporre la superqualifica a scapito della forma­zione di base.

 

La cooperazione

Una risposta, anche se parziale, di formazione professionale può essere data dalla coopera­zione, dice Massimo De Rosa, Vice presidente nazionale della Federsolidarietà/Confcooperati­ve. Nel suo intervento ricorda come negli ultimi­ anni proprio le cooperative abbiano inserito per­sone handicappate non solo in attività stabili di lavoro, ma anche in modo temporaneo, con lo scopo di far acquisire una capacità lavorativa ed una professionalità spendibili nel mondo del lavoro.

Ha evidenziato due altri aspetti importanti: - la cooperativa, per realizzare finalità di soli­darietà sociale, deve essere un'impresa, e cioè deve saper organizzare e gestire con efficienza tutte le risorse. Anche il volontariato deve indivi­duare una idonea collocazione in modo da assi­curare veri inserimenti lavorativi. «Occorre supe­rare la logica assistenziale che caratterizza pur­troppo ancora troppo spesso - ha ribadito De Rosa - molti interventi delle cooperative di soli­darietà».

Per tali ragioni, De Rosa manifesta piena sod­disfazione per l'inserimento delle cooperative al pari delle altre imprese nelle iniziative concer­nenti le politiche attive del lavoro, inserimento che è anche un mezzo per eliminare le caratte­rizzazioni assistenziali. Al di là degli aspetti eco­nomici, rileva giustamente il dato squisitamente politico, che equipara le cooperative agli altri enti economici.

Al relatore il gruppo "Handicappati e società" aveva chiesto di sviluppare due aspetti che pur­troppo non sono stati affrontati. Il primo riguar­dava le modalità in base alle quali le cooperative si pongono rispetto al rischio oggettivo di diventare l'unica proposta di inserimento lavorativo, non solo per gli handicappati, ma anche degli altri soggetti con problemi sociali (tossicodipen­denti, detenuti), trasformandosi di fatto in am­bienti di concentrazione degli emarginati. Al ri­guardo, i promotori del convegno ritengono, in­vece, che il collocamento al lavoro debba ri­guardare sia le cooperative che le altre imprese. Inoltre, si deve tener conto delle differenti capa­cità lavorative e delle diverse autonomie dei soggetti inseriti.

Il gruppo "Handicappati e società" sostiene, altresì, che il collocamento mirato deve essere inteso sia come "la persona giusta al posto giu­sto", sia come inserimento delle persone con difficoltà o di limitata autonomia e diversa capa­cità lavorativa, perché venga effettivamente ga­rantita all'impresa una produttività accettabile e ai soggetti una vera integrazione sociale.

Il secondo aspetto riguarda gli incentivi. Se­condo il gruppo "Handicappati e società" gli eventuali incentivi (intesi non solo come dena­ro, ma anche come agevolazioni fiscali, conces­sione di appalti, ecc.) devono essere previsti nella legge di riforma del collocamento non solo alle cooperative, ma a tutte le aziende consimili per dimensione. Essi devono essere concessi solo nel caso che siano inserite persone con ri­dotta capacità lavorativa (handicappati intelletti­vi, handicappati fisici e/o sensoriali con limitata autonomia), anche per il fatto che altrimenti per tali soggetti il collocamento al lavoro sarà diffi­cilmente realizzato.

 

Conclusioni

Dal convegno è emerso che vi è, almeno da parte di chi è coinvolto in questa realtà, la co­scienza che sia necessario continuare per la piena affermazione del diritto ad un posto di la­voro in un normale ambiente lavorativo per quanti, anche se handicappati, hanno capacità lavorative piene o ridotte e quindi sono titolari del diritto/dovere al lavoro. Ma è altrettanto chiaro che ci si scontra con un ritardo legislati­vo, a cui si accompagna troppo spesso il disim­pegno degli Enti locali, in particolare di quelli responsabili in materia di lavoro (che preferiscono, quando lo fanno; delegare l'assistenza) e del sindacato che, salvo singoli casi, non ha an­cora acquisito questa nuova dimensione di im­pegno.

Gli anni dell'integrazione scolastica hanno prodotto una sempre maggiore richiesta di lavo­ro, come logica conclusione per un pieno inseri­mento sociale. Ma, sovente, la società non è an­cora pronta.

Accogliamo la sfida dell'emergenza occupa­zione - si è detto da più parti - e adoperiamoci perché sia comunque portata avanti la riforma del collocamento al lavoro. Le proposte avanza­te dal gruppo "Handicappati e società", elabora­te tenendo conto dell'esperienza pluriventenna­le degli inserimenti lavorativi realizzati nel Paese con l'applicazione della 482/1968, sono un pri­mo contributo da cui partire.

Ai partecipanti è stato quindi richiesto di im­pegnarsi, ciascuno per il proprio ruolo, presso il Presidente della Repubblica, che ha mandato ai convegnisti un telegramma di solidarietà, e presso i Parlamentari che hanno presentato al Senato e alla Camera proposte di legge per la riforma, perché sia ripreso il dibattito alla luce di quanto è emerso nel corso del convegno.

Nel contempo, è indispensabile che quanti operano nel settore, in primo luogo i diretti inte­ressati ed i familiari degli handicappati intelletti­vi, acquisiscano una maggiore consapevolezza del diritto al lavoro e diventino forza contrattuale anche nei riguardi degli Enti locali e del sinda­cato.

In attesa della riforma, si può superare il limite attuale della legge sul collocamento, che impo­ne all'azienda soggetti senza tenere conto della loro idoneità a quei determinati posti di lavoro, attivando l'inserimento mirato previsto sia dalla legge 56/1987 per le imprese private, sia dal­l'art. 42 del decreto legislativo n. 29/1993 per le Amministrazioni pubbliche.

Ci attendiamo quindi - quale segno tangibile di interesse da parte del Governo, delle forze politiche e sindacali - il rispetto della quota pre­vista dalla legge per l'occupazione degli handi­cappati (invalidi civili) in tutte le iniziative attivate per promuovere e incentivare l'occupazione di tutti.

 

 

(*) Costituitosi nel 1988, formato da volontari, sindacali­sti, operatori, insegnanti, rappresentanti di associazioni dell'handicap, il Gruppo si è posto l'obiettivo di centrare la sua azione sul rafforzamento del diritto al lavoro degli han­dicappati con capacità lavorative. I documenti elaborati dal Gruppo sono i seguenti: "Quali valori, quali diritti, quali do­veri", 1988; "Quali strategie per il lavoro", 1990; "I diritti ir­rinunciabili e le condizioni per renderli esigibili", 1992; "Proposte per la nuova legge sul collocamento al lavoro degli handicappati", 1992.

 

 

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