Prospettive assistenziali, n. 103, luglio-settembre 1993

 

 

LE POLITICHE SOCIALI OLTRE LA CRISI

VINIClO ALBANESI (*)

 

 

Abbiamo assistito, negli ultimi dieci anni, alle politiche sociali in Italia, nella loro lenta, ma pro­gressiva involuzione.

Se, ad una prima visione delle cose, sembrerebbe che il "pacchetto sociale" abbia fatto no­tevoli progressi con l'emanazione di leggi di singoli comparti: ci riferiamo alle leggi in materia di tossicodipendenza (162/90), alla legge quadro sul volontariato (266/91), a quella sui primi inter­venti a favore dei minori a rischio (216/91), alla legge sulla disciplina delle cooperative sociali (381/91) e alta legge quadro sull'handicap (104/ 92), in realtà non è difficile rendersi conto di trovarsi di fronte a quella che il Censis ha chiamato "riformismo mancato".

La legge finanziaria ogni anno tende al conte­nimento della spesa sociale: i tagli riguardano sempre i settori socio-sanitari e socio-assisten­ziali, poco tutelati da categorie forti.

Ritorna con forza la prassi dell'istituzionalizzazione e della repressione nei confronti del disa­gio e dei "diversi". La prevenzione diventa un miraggio, senza effettiva incidenza. Le riforme strutturali sono sempre più lontane (si pensi alla riforma dell'assistenza) e inaccessibili.

Le politiche della privatizzazione sono sempre più favorite, vuoi per efficienza, vuoi per risparmio, contribuendo allo smantellamento della rete pubblica nei servizi, là dove esiste.

Il ritorno del pietismo, quale risposta ai disagi, è sotto gli occhi di tutti, con le varianti degli sponsor e delle campagne di sensibilizzazione televisiva, quasi che i "poveri" non abbiano diritti e siano invece solo possibili destinatari di pietà.

I processi di innovazione dei servizi - se non addirittura la loro nascita - sono affidati alle buone volontà di tecnici o di qualche "buon am­ministratore".

La separatezza tra il sociale (poco o nulla tutelato) e il sanitario gioca sull'incertezza degli interventi, soprattutto in quei settori dove la separatezza è gravemente limitante di interventi ri­solutori (handicap, salute mentale, tossicodi­pendenze).

L'incertezza delle professioni non crea riferimenti sicuri per l'approntamento di servizi efficaci ed efficienti.

Il Sud, sempre più solo ed abbandonato, con la conseguente ristrettezza di risorse e di speranze.

 

La società opulenta

Se volessimo riassumere, quasi con uno slo­gan, le forme prevalenti di risposta al disagio, potremmo definire il momento attuale come quello dell'abbandono.

In questo scorcio di primi anni '90, rallentato lo sviluppo economico fino alla recessione, sconfitta la tensione sociale, consolidato lo stile dell'autotutela in termini di lobbies, la tutela dello svantaggio e del sofferente è sempre più spes­so trascurata.

La logica della società opulenta (o che alme­no vuole rimanere tale) si è fatta terribile: ognu­no corre verso la propria sicurezza che ritiene sempre e comunque giusta, essendo material­mente e qualitativamente infinita, calpestando, ignorando, correndo, non preoccupandosi di ciò che avviene per chi si ferma, per chi stà male, per chi non tiene il passo: ricorrendo a immagi­ne biblica, "I'orfano, la vedova, lo straniero".

Il tutto scandito e ossessivamente spacciato per parità formale: tutti i cittadini hanno uguali diritti. È prevalente la giustizia commutativa: la difesa di ciò che è proprio. Nessuno si chiede se ciò che ha è troppo, se è giusto, se trascura qualcuno: ieri si chiamava la giustizia del vinci­tore, oggi può dirsi giustizia dei "diritti acquisiti".

Il nodo centrale che impedisce una forte poli­tica sociale non è - come a volte si dice - l'inef­ficacia delle leggi o l'incapacità della burocra­zia, o la mancanza delle risorse: il moloch è la ri­chiesta infinita di tutela per i tutelati.

 

Guerra tra poveri

L'abbandono si misura nella contraddizione e nella scarsità delle risposte delle forze politiche. La politica non rappresenta più i cittadini nei loro bisogni reali; rappresenta, purtroppo, i pro­pri committenti. Il disfacimento della rappresen­tanza è la conseguenza dell'affollamento di inte­ressi. Da qui nasce la corruzione, la rissosità, la precarietà, in ultima analisi, l'ingovernabilità.

Le forme di rivolta contro i devianti e i deviati sono la chiara dimostrazione che l'oggetto delle richieste della popolazione non è il benessere sociale, ma la propria pace e sicurezza.

Occorre denunciare con forza l'abbandono in atto, con chiarezza e con forza: prima di tutto perché le forze sociali, politiche e religiose del paese si rendano conto dell'abbandono; in secondo luogo per richiamarle alla propria responsabilità di essere correi di tale abban­dono.

La coscienza sociale non è più disposta ad essere solidale: stretta nella morsa della rincor­sa, si sente anch'essa svantaggiata.

Ogni "categoria" lotta per la maggiore sicu­rezza: uno spiraglio, un brandello che accresca la tutela, in una giungla che diventa sempre più selvaggia.

I poveri sono costretti alla guerra reciproca: è scontro di culture, di lingue, di provenienze, ma, alla fin fine, di tutele.

L'abbandono si registra anche a livello rela­zionale: il ritorno delle forme istituzionali di ac­coglienza, gli abbandoni veri e propri, l'incapa­cità della reciprocità sono segni evidenti della disgregazione dei tessuti interpersonali.

Le persone si sentono sempre più sole e in­comprese: chi non ha sufficienti energie e capa­cità di relazione viene scaricato nella problema­ticità e nella solitudine.

Soltanto in presenza di bisogni che colpisco­no direttamente le famiglie si sente la necessità di un cambiamento di relazioni. La solidarietà non è vissuta come gesto quotidiano.

Siamo dunque in presenza non già di "modali­tà" di diritti di cittadinanza, ma della loro nega­zione.

Il grido di allarme non è strumentale: è vero nella drammaticità delle situazioni e delle man­cate risposte, che quotidianamente sperimentia­mo.

Episodi gravi, circostanziati, in ambienti pure attenti, dimostrano che l'abbandono non solo è possibile, ma è in atto.

 

Il cittadino volontario

Nel 1988 il CNCA fece un'approfondita rifles­sione sul "cittadino volontario".

Partendo dall'esperienza di condivisione e di impegno in frontiera di molti gruppi e comunità, auspicava un nuovo modo di essere cittadini. Nel definire l'azione volontaria identificava in es­sa il nuovo modo di essere cittadini.

«In un contesto di servizio o di lavoro deve po­tersi collocare la prassi di familiarità, di condivi­sione, di volontarietà che è sempre del nostro modo di fare convivenza.

Il rispetto delle norme non può e non deve im­pedire il clima di forte relazionalità che caratte­rizza lo stare insieme.

La nostra convinzione è che c'è sempre una dimensione di volontariato intesa come promo­zione, coscienza critica, impegno al di là delle regole, da proporre in una società che interpre­ta i doveri dei cittadini in senso restrittivo e mo­netaristico.

Questo è i1 vero cittadino che può esprimere la propria volontarietà nell'adempiere (non dopo aver adempiuto) i doveri del proprio stato e civi­li».

Era un messaggio che auspicava il chiudersi della forbice tra doveri e diritti, tra chiedere e ri­cevere, innescando nella stessa persona (il cit­tadino, la cittadina) la capacità di affrontare e ri­solvere i problemi, pur comprendendo la neces­sità di risorse specifiche (servizi), quali risposte ai bisogni.

Era e rimane il sogno di una società giusta e solidale, nella quale il concetto stesso di diritto travalica verso un impegno e una capacità di essere "accanto all'altro", per aiutare e aiutarsi nelle difficoltà, convinti che nessuna rete di ser­vizi, per quanto allargata ed efficiente può col­mare tutti i vuoti che la condizione umana, in al­. cune circostanze, pone.

In questo quadro erano dettate le caratteristi­che del nuovo modo di essere cittadini: il rispet­to della persona e della sua storia, la centralità della relazione, l'affettività, la partecipazione, il pluralismo, il corretto uso delle risorse.

Si auspicava una "nuova cittadinanza".

Il primo principio indicato era quello di vivere il quotidiano solidale non già come eccezione, ma come normalità: accogliere, condividere, partecipare non era l'eccezione, ma il normale. Da qui il rifiuto della "mercificazione" delle ri­sposte, della dipendenza, della manipolazione dell'informazione.

La creazione insomma di un mondo dove, at­traverso e per mezzo delle relazioni sociali, po­teva realizzarsi la condizione di essere apparte­nenti a un territorio e partecipi dei problemi pri­ma e delle risposte poi, in una interscambiabilità che vede, di volta in volta, ciascuno bisognoso e volontario.

Sembra un messaggio lontano. Crediamo in­vece sia ancora più urgente oggi, di fronte all'aggravarsi di forme di autotutela, a svantag­gio dei molti tutelati.

 

Proposte

In questa prospettiva sono da riconsiderare i modelli di sviluppo delle risposte sociali. Non crediamo alla cosiddetta impresa sociale, che ritaglia un proprio spazio di intervento tra lo Stato e il mercato.

Molti gruppi di volontariato, anche cattolici, di fronte alla crisi dello Stato, stanno suggerendo l'affidamento delle risposte sociali, soprattutto quelle rivolte alle persone, ai propri organismi. È una strada pericolosa perché reintroduce, an­che se con varianti, la distinzione tra pubblico e privato, quasi che soltanto il privato efficiente, anche se non speculativo, sia in grado di essere all'altezza delle risposte.

Crediamo invece nell'agenzia sociale che ha come presupposto il principio che tutto è pub­blico, anche se non tutto è statuale. In questo schema il principio ispiratore è che ogni proble­ma sociale è un problema di tutti, che ogni ri­sposta ai bisogni è una risposta di tutti, che ogni soluzione è la soluzione di tutti, in quanto tutti si rendono partecipi del bisogno e della possibile risposta.

Nell'agenzia sociale dovrebbero dunque an­dare a confluire tutte le risorse di analisi del bi­sogno, di prevenzione al bisogno stesso e di ri­sposte, siano esse derivanti dagli apparati dello Stato, che dai gruppi di volontariato, che dai sin­goli cittadini.

Nell'agenzia sociale dovrebbero essere com­posti tutti i problemi derivanti dalle dicotomie pubblico/privato, obbligatorio/volontario; gratui­to/oneroso, istituzionale/spontaneo, perché il "momento della risposta" è un momento com­plessivo a cui partecipano, ciascuno per la pro­pria parte, tutti i componenti di un territorio: pri­vati cittadini, istituzioni, organismi di volontaria­to, organismi sociali.

Pur rimanendo tutto ciò un sogno, preferiamo lavorare con queste idealità, convinti che, nono­stante le contraddizioni, la razionalità umana e sociale prevarranno.

 

 

(*) Presidente del CNCA, Coordinamento nazionale co­munità di accoglienza.

 

 

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