Prospettive assistenziali, n. 102, aprile-giugno 1993

 

 

COSTRUIRE L'AUTONOMIA DELLE PERSONE CON HANDICAP (*)

EMILIA DE RIENZO

 

 

Introduzione

«Io so di essere un ragazzo che ha avuto delle difficoltà nella vita e fino ad un certo punto non mi è piaciuto molto; per questo ho pochi ricordi del passato; ho cancellato tutto, ho messo una pietra sopra ed ora penso solo al futuro». È un uomo di trentasette anni, un insufficiente mentale, che parla della sua storia in "II lavoro conquistato" (1).

Da bambino non aveva potuto frequentare la scuola dell'obbligo, ma soltanto un centro speciale e poi un laboratorio protetto dove erano raccolti handicappati di ogni genere. Nei primi trent'anni della sua vita non gli era stato riconosciuto il diritto di far parte della società se non come un "diverso" che doveva vivere solo "con i diversi".

«Io mi sentivo trascurato dagli altri, io mi sentivo trascurato dalla società. Per me non era giusto... non ho mai chiesto alle assistenti come mai frequentavo quel posto e non una scuola normale, ma questa domanda l'avevo dentro di me...».

E poi inaspettatamente la possibilità di un lavoro che gli ridà la speranza nel futuro, la fiducia negli altri, che lo fa finalmente sentire una persona.

«Bisognerebbe stare sempre insieme, in mezzo alla gente normale che ti aiuta a sentirti bene (...). Adesso sono più contento, è un altro vivere, mi sento utile...».

Ma chi decide che un individuo sia tenuto fuo­ri da un contesto "normale"? Perché a Luca non era stato permesso di percorrere le stesse strade di tutti gli altri? E perché poi a trentatré anni finalmente gli viene riconosciuto il diritto ad una esistenza come tutti e quindi ad un lavoro?

La vita di Luca come quella di tanti altri ci in­terroga, ci mette in questione, ci deve far riflette­re.

La vita di Luca è a cavallo di due epoche, di due mentalità, di due modi di mettersi in relazio­ne con l'handicap": l'uno che prevede la logica della separazione e dell'assistenza, l'altra che riconosce l'handicappato come soggetto di di­ritti.

Certamente in questi anni, c'è stato un muta­mento qualitativo di mentalità e di cultura, si è diffusa maggiore conoscenza e socializzazione della problematica dell'handicap all'interno della società, si sono sviluppate reali dinamiche di in­tegrazione, di comprensione e di accettazione che hanno permesso a chi è portatore di handi­cap di sentirsi più valorizzato come persona.

Ma parallelamente sono sopravvissute vecchie mentalità, troppe questioni fondamentali non sono state risolte e gli stessi interventi al servizio degli handicappati avvertono la fatica di non avere continuità, globalità e supporti ade­guati.

È proprio questo il percorso che voglio svol­gere in questa relazione: l'intreccio di nuove aperture con vecchie e nuove chiusure e il ten­tativo di sollecitarci ad andare avanti con tenacia senza perdere di vista gli obiettivi più impor­tanti.

 

Diversità e normalità: una dicotomia da superare

«Si può vedere una stessa persona come irri­mediabilmente menomata o così ricca di pro­messe e di potenzialità». Così dice il neurologo Sacks ne "L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello".

La prima logica, ancora molto presente nella nostra società, è quella che crea separazione tra chi divide i cosiddetti "normali" dai cosiddetti "handicappati": una barriera che a volte è visibi­le, si materializza nella creazione di istituti, veri e propri mondi che non comunicano se non attraverso rigide regole coll'altro mondo, quello della realtà circostante.

E in questi ultimi anni si sono progettati e rea­lizzati i grossi e costosi complessi destinati al ricovero degli handicappati come "La città della Carità" dell'opera di don Granella. Si sta quindi tentando di rilanciare la mentalità dell'istituzio­nalizzazione della segregazione.

Da anni, invece, grazie ad una sempre più estesa integrazione scolastica, lavorativa e so­ciale, il numero degli handicappati ricoverati in istituto è notevolmente diminuito. Ed è in questa direzione che bisogna andare sostenendo con adeguati servizi i famigliari, aiutandoli ad affrontare il problema con più serenità e strumenti.

In ogni caso per quanti non possono vivere presso la propria famiglia, vanno predisposte piccole soluzioni abitative, quali sono le comuni­tà alloggio o le case famiglia, per un numero li­mitato di ospiti (8-10 al massimo) inserite nei contesti territoriali che permettano il manteni­mento di relazioni personali e sociali.

Quando poi c'è un vero e proprio abbandono della famiglia o un'impossibilità a seguire il bam­bino handicappato, bisogna prevedere una campagna di sensibilizzazione che miri a trovare altre famiglie disposte a prendere in adozione o in affidamento il bambino.

Ma le barriere sono anche nella nostra mente: gli handicappati in quanto "mancanti di qualco­sa" non sono considerati proprio uomini; non si pensa a loro come ad individui "portatori di una menomazione", ma come ad individui menomati interamente.

Alla parola handicap siamo abituati ad asso­ciare altri concetti che "screditano, declassano" la persona e si mettono quindi in opera discrimi­nazioni che di fatto riducono le possibilità di vita di chi è considerato "diverso" e non gli permet­tono di esprimere quelle che sono le sue poten­zialità. L'handicappato è costretto a combattere tutta la vita dentro i confini angusti del proprio handicap che diventa, oltre che il suo problema, anche la sua prigione.

«Io mi sono sentito trattare in modo diverso, da "handicappato". Ogni tanto sento dire questa pa­rola, l'ho sentita dire spesso alle medie, parlava­no di me, credevano che non capissi. Ma io so che vuol dire mongolo, cretino...». Questa la te­stimonianza di Carlo inserito come handicappa­to nella scuola media.

E il rifiuto si fa sentire nella vita quotidiana, negli atteggiamenti, nei commenti della gente che incontrano gli handicappati.

«Oh mamma mia, verrà mica vicino a me quel­la lì, mi rovinerebbe tutta la giornata!». È una si­gnora che commenta una bambina mongoloide che in spiaggia si sta avvicinando al suo om­brellone.

E Antonio, padre di un handicappato intelletti­vo grave e di una bambina "normale", racconta: «Quando incontriamo qualche conoscente nes­suno si rivolge a lui per fargli magari un compli­mento, per salutarlo, per dirgli due parole... Lui è molto sensibile e se la prende moltissimo. Certe volte arriva qualcuno e lui porge la mano per sa­lutare, ma non gli viene ricambiata. Oppure dan­no un bacino a Serena e non si accorgono che anche lui se lo sta aspettando». E continua di­cendo: «Quando portavo Mauro ai giardini, i pri­mi tempi improvvisamente si faceva il vuoto in­torno a lui, quando le mamme si accorgevano della sua presenza richiamavano i figli e li porta­vano via».

Riconoscere, accettare la propria diversità non deve necessariamente voler dire essere eti­chettati, emarginati, appartenere ad una "cate­goria" che non conosce al suo interno differen­ziazione, che non permette la costruzione di una propria identità, di una propria soggettività, che mette necessariamente chi è definito tale in un ruolo di subordinazione dove sono sempre "i normali", l'altra categoria, a decidere, a stabilire dove e come può avvenire il tuo accesso alla vi­ta.

Accettare il proprio handicap significa, invece, conoscere i propri limiti per poterli affrontare e poter scoprire anche le proprie potenzialità: questo può essere possibile solo se avere delle difficoltà non significa essere isolati dal conte­sto sociale.

 

I primi passi verso l'autonomia

L'autonomia del soggetto handicappato la si costruisce nel tempo, fin da quando egli è bam­bino.

«È indubbio che la madre - dice Massimo Am­maniti - quando si accorge di avere generato un figlio handicappato, senta come morire il figlio che tanto attendeva: questo viene sostituito da uno strano bambino, inatteso, le cui reazioni so­no difficili da comprendere». E a volte il senso di colpa può spingere la madre a dedicarsi in mo­do esclusivo al figlio in una relazione quasi sim­biotica dalla quale il padre tenderà ad escluder­si. Oppure la famiglia nel suo complesso potrà organizzare completamente la propria vita intor­no al figlio handicappato. Questa frattura con il mondo esterno potrà portare ad un vero e pro­prio risentimento contro gli "altri", ritenuti colpe­voli di non fare abbastanza oppure di essere troppo insensibili ai problemi degli handicappa­ti.

La relazione che si stabilisce in questo caso è una relazione fortemente impregnata di sensi di morte. II bambino handicappato, infatti, viene considerato come un essere privo di vitalità, che non è frutto della fertilità della coppia, ma sem­bra nato per punire la madre e per umiliare le sue capacità di generare.

Soprattutto la mamma spesso si comporta come in alcuni casi descritti dalla psicoanalista Mannoni: come una madre sempre presente che ostacola e interviene in qualsiasi tentativo del figlio a rendersi autonomo da lei. Essa lascia il bambino «come un uccello che cova un uovo che non potrà mai dischiudersi».

Se il bambino si sente "fuso e confuso" con la madre, anche la nascita della sua individualità avviene in ritardo e non si costruisce una con­sapevolezza di essere, che «non significa ancora sapere chi si è, ma sapere almeno che si è» (Am­maniti).

Se lasciati soli, i genitori dei bambini handi­cappati difficilmente riusciranno a vedere le po­tenzialità e i miglioramenti che il proprio figlio potrà avere. Per loro rimarrà, se non sono aiutati fin dal primo momento, «un bambino da assiste­re» tutta la vita.

La famiglia non può e non deve avere da sola la responsabilità di questi ragazzi; se così avvie­ne, capita che anche essa rimanga chiusa nella gabbia che la società costruisce intorno ai "di­versi".

«Sono convinta - dice la psicologa Zagaria - che non si può fare della vera riabilitazione senza aver prima lavorato con i genitori per fare scatta­re un'immagine corretta del figlio che cresce, che cambia, che ha una vita che scorre come tut­ti gli altri, con le difficoltà e i problemi legati alla sua patologia. Il nostro deve essere necessaria­mente un intervento sulla realtà che faccia pian piano scattare dinamiche di cambiamento. È compito della psicologa aiutare a superare le re­sistenze, le paure, a capire i motivi più profondi e a risolverli».

E una madre racconta tutta la sua fatica nel rielaborare i propri vissuti: «Quando torno dai colloqui vengo a casa che sono un tappeto, poi piano piano cerco di tirarmi su, di ripensare alle cose che mi vengono dette... C'è il vuoto dentro di me: non ho un'autonomia interiore».

Ma oggi, sempre più spesso, l'immagine ste­reotipata del genitore ultraprotettivo e ansioso sta diminuendo. Molti genitori sono attivi, lotta­no, hanno imparato a vivere la nascita di un fi­glio handicappato non come una perdita o una sconfitta, ma come una sfida. Anche di fronte a diagnosi non chiare, a inserimenti non facili, si sono informati, si sono uniti ad altri per proget­tare l'avvenire del proprio figlio, la sua autono­mia.

Questo è un grande segnale di novità.

C'è in molti genitori il tentativo autentico di ca­pire e valutare i bisogni dei figli senza lasciarsi condizionare dalle proprie ansie, né dalle ogget­tive difficoltà.

C'è il tentativo di aiutare il proprio figlio a "sfondare" una mentalità dura a morire nella so­cietà, a lottare per affermare i suoi diritti. Questi genitori si sono ribellati all'Inevitabile", hanno cercato percorsi nuovi mai battuti prima ed han­no avuto dei risultati insperabili. Emblematica è in questo senso la testimonianza descritta in "Storia di Nicola" dalla madre adottiva Giulia Basano (2). Lei ci racconta «il risveglio, gra­duale lento ma tenace» del figlio che considera­to irrecuperabile pian piano torna alla quasi nor­malità.

«Il terreno su cui ci muovevamo - ci dice Giu­lia Basano - era del tutto inesplorato, non esiste­vano esperienze passate che servissero di riferi­mento, dovevamo fare da soli, rischiare. Si pro­cedeva per tentativi, si doveva continuamente ve­rificare, resistere (..). Nei primi anni tutti gli sforzi erano concentrati nel fare adattare Nicola alla si­tuazione, agli altri, alle regole (...). Avevamo dedi­cato molto tempo ad aprirgli degli spazi in cui po­tesse muoversi, agire, avere dei rapporti senza essere escluso».

E purtroppo a sostenere nel suo cammino questi genitori non sono troppo spesso gli spe­cialisti. Alcuni, infatti, sono più portati a giudica­re che a comprendere.

«Medici e specialisti - afferma la psicologa Zagaria - spesso abituano le famiglie ed il ra­gazzo handicappato a vedere solo la malattia ed hanno inculcato pesantemente questa mentalità. In queste famiglie quindi i figli sono "malati" pun­to e basta».

Sono di aiuto, invece, quegli specialisti che non rinunciano alla «propria umanità in nome di una presunta professionalità» e i cui colloqui con la famiglia diventano «dialoghi chiarificatori, ri­cerca comune di soluzioni».

«Noi tecnici dobbiamo - dice la psicoanalista Ferretti Levi Montalcini - metterci nei panni delle persone che si rivolgono a noi per poter capire ed educare (...). Non servono a niente parole dif­ficili, interventi calati dall'alto, diagnosi complica­te. Serve qualcuno che ascolti e non pensi di sa­pere già tutto quello che c'è da sapere (..). Se tolleriamo di sentirci incerti e spaventati come ci si sente di fronte a qualcuno che ancora non co­nosciamo, possiamo sperare di essere, a volte, utili».

La famiglia non deve essere messa ai margini della riabilitazione del bambino handicappato, deve farne, invece, parte integrante. Ma riabilita­zione non deve voler dire porre un'attenzione esclusiva sulle funzioni rallentate, trascurando invece tutto l'aspetto relazionale e comunicativo. Bisogna, infatti, sottolineare l'esigenza di svilup­pare fin dalla nascita una rete di comunicazioni col bambino. Premesse necessarie per questa comunicazione sono: la sensibilità dei genitori ai segnali e alle richieste del figlio, l'accettazione dei suoi comportamenti e la capacità di coope­rare con lui.

E non solo: il bambino deve essere abituato a vivere fin dall'inizio in mezzo agli altri, con i suoi coetanei, nelle diverse situazioni di vita senza mai rinunciare di fronte ai commenti, alle diffi­coltà, di fronte alle nostre paure.

«L'unico modo per modificare la realtà è quella di confrontarsi con essa tutti i giorni».

Sicuramente oggi molti sono concordi nel dire che vivere in mezzo agli altri per chi è handicap­pato è molto terapeutico.

Significativa, invece, ci sembra un'iniziativa del Comune di Torino: il servizio di Consulenza educativa domiciliare che vede impegnati i ser­vizi sanitari, socio-assistenziali ed educativi. Ta­le organizzazione prevede un intervento educa­tivo precoce nella fascia 0-3 anni, in una fase evolutiva in cui sono aperte molte possibilità sul piano dello sviluppo delle potenzialità presenti nel bambino.

L'intervento è rivolto al bambino e nello stesso tempo vuole coinvolgere i genitori in modo da fornire loro gli strumenti per assumere gradual­mente il ruolo di educatori. Si cerca in sostanza di approfondire:

- quali competenze sono compromesse dall'handicap;

- in che modo il bambino può organizzarsi a partire dal suo sviluppo, e come, contro il suo disturbo, può mettere in atto strategie di com­pensazione;

- come il disturbo evolve nel tempo in rappor­to alle diverse fasi dello sviluppo affettivo, cogni­tivo, sociale.

Tutto questo ha come obiettivo, oltre che l'in­tervento eventuale di specialisti, la valorizzazio­ne di momenti della routine quotidiana (quali ad esempio il bagno, l'alimentazione, ecc.) per "in­segnare" alla mamma e al papà ad utilizzarli co­me momenti educativi e di intensa relazione con il bambino.

Uno degli stereotipi da combattere è l'eterno ritornello «a questo punto non c'è più niente da fare». Con questo non si vogliono negare le diffi­coltà, e tanto meno i limiti, ma affermare invece che questi possono essere spostati.

Bisogna uscire dal pregiudizio che sta alla ba­se delle definizioni "incurabile", "ascolastico" o "irrecuperabile" e che definisce un limite di tem­po oltre il quale non è possibile più nessun re­cupero. Non esiste nessun limite ultimo se non nell'idea di chi crede di non poter fare di più o che non sa come fare ad affrontare un problema. Di fronte ai limiti che la realtà, vista in modo statico, ci presenta bisogna avere il coraggio di cercare di spostarli un po' più in là.

Un esempio significativo a riguardo è la storia di Nicola la cui diagnosi della neuropsichiatra, quando il bambino non aveva ancora quattro anni, era stata «un grosso carenziato, un bambi­no da buttare dalla finestra» e che, invece, ora conduce una vita normale, lavora, frequenta amici, è quasi del tutto autonomo.

«Non esiste l'irrecuperabilità - ci dice Giulia Basano -. Qualcosa si può fare sempre. Esisto­no, però i nostri limiti che spesso ci impediscono di superare ostacoli superabili». E i nostri limiti stanno spesso nei nostri pregiudizi: «Le porte della nostra mente - dice Laing - sono le più difficili da aprire» e proprio partendo da questi pregiudizi si riducono le possibilità di vita di chi è considerato "diverso". A volte sono loro stessi che vengono condizionati a tal punto da credere di non poter condurre una vita come tutti gli altri: è la paura degli altri, del giudizio delle difficoltà che pochi ti aiutano a superare.

Così dice il pedagogista francese E. Séguin, che, per primo alla metà del secolo scorso, af­fermò l'educabilità degli handicappati e che scrisse parole ancora incredibilmente attuali: «Se è disteso, fatelo sedere, se è seduto mettete­lo in piedi, se non mangia da solo, tenetegli le di­ta e non il cucchiaio... se non parla e non guarda, parlategli e guardatelo. Nutritelo come un uomo che lavora e fatelo lavorare, lavorando voi stessi con lui... e se in quattro anni non potrete dargli intelligenza né parola, né movimento volontario, la somma di energia che avrete speso con lui, non sarà ancora perduta... starà meglio, sarà più forte, più obbediente, più morale. Vi par poco? E colui che ha fatto tutto quel che può, non ha for­se fatto tutto?».

 

La scuola

L'integrazione nella scuola dell'obbligo con tutti i suoi difetti ha segnato con la legge 118 del 1971 la prima tappa nella formazione di una cul­tura diversa sull'handicap.

Bisogna però combattere contro la tendenza purtroppo ancora abbastanza diffusa, di utilizza­re l'insegnante di sostegno per "tener fuori" l'handicappato, magari con la scusa di un inse­gnamento più individualizzato, più mirato alle sue difficoltà e contro il rischio di formare, sotto mentite spoglie, classi speciali.

L'inserimento diventa allora di fatto solo un parcheggio: la presenza dell'handicappato vie­ne in qualche modo negata.

Sicuramente per l'handicappato, come del re­sto per ogni bambino, c'è bisogno di un lavoro individualizzato. Ma l'individualizzazione non de­ve escludere la socializzazione, il confronto, la possibilità di relazioni e di scambi di esperienze.

Non è, infatti, possibile apprendere al di fuori dei rapporti sociali, che rappresentano una con­tinua fonte di stimoli e di motivazioni per l'ap­prendimento. Non bisogna creare luoghi e spazi sociali solo per gli handicappati trascurando i loro desideri, le loro motivazioni, la loro spinta a comunicare.

Ormai da tempo si è dimostrato ampiamente che non è possibile isolare l'obiettivo didattico da quello dell'inserimento nella società. Lavo­rando sulla sfera affettiva, relazionale succede il più delle volte che si sbloccano potenzialità in­tellettive che invece sembravano precluse e vi­ceversa.

È importante per tutti e a maggior ragione per chi ha un handicap sentirsi riconosciuto e com­preso come persona, esprimere e condividere con altri le proprie angosce, parlare dei proble­mi, trovare negli altri un atteggiamento di solida­rietà. E tutto questo è possibile là dove c'è un la­voro serio e attento sull'integrazione. La scuola può essere sicuramente in questo senso un luo­go privilegiato d'incontro.

D'altro canto la presenza del ragazzo portato­re di handicap stimola il gruppo a riconoscere le diversità individuali, a tenerne conto e a soste­nere il diritto ad esistere e a partecipare di ogni componente del gruppo. La scuola diventa un luogo dove ogni allievo può imparare ad osser­vare, a comprendere i bisogni di chi è sempre stato considerato diverso, si può imparare ad aiutarlo nella realizzazione delle condizioni che gli consentono di mettere in atto le sue possibili­tà di sviluppo.

 

Quando l'handicappato diventa adulto

Per il portatore di handicap porre fine alla di­pendenza può essere più difficile, non solo per­ché egli stesso può sentire il bisogno di un ap­poggio supplementare, ma anche perché deve combattere contro il bisogno degli altri di pro­teggerlo, di sovrapporsi a lui, dì aiutarlo a tutti i costi per sentirsi in pace con se stessi.

Spesso i genitori e la società nel suo com­plesso hanno difficoltà nel riconoscere che i portatori dì handicap possano avere un futuro evolutivo, che possano cambiare, diventare adulti; per molti rimangono sempre bambini da proteggere, da assistere, senza possibilità di autonomia.

Autonomia vuol dire avere un pieno controllo verso le cose, l'ambiente fisico, lo spazio tempo­rale, la manualità, la capacità di comunicazione; deve mirare all'orientamento nel mondo, anzitut­to l'ambiente prossimo.

Ogni individuo costruisce nella propria mente, fin da bambino, una rappresentazione del mon­do che costituisce una "mappa ambientale e co­gnitiva" indispensabile.

L'handicappato, che viene chiuso in istituto o comunque vive separato dal contesto sociale, è come un individuo "incapsulato" in una struttura che lo protegge da ogni problema, che non lo sottopone a confronti, ma che, non offrendogli stimoli, non gli permette neanche di vivere.

Gli handicappati che, invece, hanno frequen­tato una scuola, che hanno avuto in qualche modo possibilità di cimentarsi col mondo, oggi si trovano in una situazione di svolta: bisogna attrezzarsi perché il processo iniziato non venga bloccato da una società che offre, dopo la realtà scolastica, pochissime soluzioni, possibilità di vita reali. Molti handicappati purtroppo sono ri­masti delusi dalla scuola, abbandonati dopo averla frequentata.

 

Il lavoro

Fino ai 14 anni le famiglie di ragazzi handicap­pati trovano quindi bene o male delle soluzioni nella scuola. In questi primi anni i ragazzi pos­sono sperare di condurre una vita che si avvici­na a quella dei coetanei. Con il passare del tem­po, invece, la distanza tra la loro vita e quella dei coetanei tende ad aumentare.

Per i più gravi, dopo i 14 anni, si ricorre sem­pre più spesso a forme di assistenza che richie­dono la segregazione dell'handicappato in un centro di riabilitazione, in qualche istituto.

Ci possiamo trovare quindi di fronte ad una si­tuazione in cui l'handicappato viene escluso in modo definitivo dalla società.

Non si cambia mai per semplice maturazione interiore; cambiare è un processo mentale di autorealizzazione. Si cambia sempre in virtù di qualcosa che dall'esterno viene a far parte della nostra vita; cambiare se stessi è un'operazione di scambio; un arricchimento e un rimaneggia­mento di sé in rapporto a nuove esperienze fat­te. Per cambiare bisogna poter avere un proget­to, un fine. Bisogna dare anche agli handicap­pati gli strumenti e le opportunità adeguate per poter progettare la loro vita anche se nei limiti del loro handicap.

Le barriere architettoniche ancora molto pre­senti nella nostra società, l'arroganza con cui occupiamo i posteggi riservati e posteggiamo sui marciapiedi o dove sono presenti scivoli per le carrozzelle, ci dicono tutto sulla nostra man­canza di sensibilità alle esigenze di chi ha diffi­coltà.

Per costruire dei progetti reali e non fittizi sul futuro degli handicappati è importante fare una distinzione tra i soggetti portatori di handicap.,

Gli handicappati fisici hanno bisogno di strut­ture, di strumenti, di abilità da parte di chi li ac­coglie che vadano incontro alla loro menoma­zione; diverso sarà il discorso per i ciechi, per i sordi, per gli spastici, ecc. Ma non basta che ci sia solo uno specialista o che siano eliminate le barriere architettoniche (cose che ancora oggi non vengono quasi mai attuate). Bisogna che tutta la comunità dimostri partecipazione, desi­derio di voler comunicare con loro, sensibilità e sappia quindi integrarli a tutti gli effetti nel gruppo.

Un problema diverso è quello che riguarda i ragazzi handicappati psichici o intellettivi. Anche tra loro bisogna saper fare delle distinzioni chia­re tra chi ha una insufficienza mentale lieve e chi invece ha un deficit grave o gravissimo o una malattia mentale.

Per i meno gravi oggi, là dove c'è la volontà, si aprono nuove possibilità:

- l'inserimento nei corsi di qualificazione pro­fessionale;

- l'inserimento nelle scuole superiori;

- l'inserimento nei corsi prelavorativi.

Ma l'inserimento in queste scuole deve mirare all'acquisizione di abilità che rendano possibile un futuro inserimento lavorativo.

«Solo col lavoro - dice la psicologa Zagaria - il rispettare l'orario, il vestirsi in un certo modo, il lavarsi, tutto ciò che è proprio della ritualità quo­tidiana assume un suo significato riabilitativo, ri­dà significato all'esistere, alle relazioni; infatti, è proprio nel posto di lavoro che costruiscono dav­vero dei rapporti, che imparano ad aver rispetto della propria persona».

Cominciano a sentirsi come gli altri, ad uscire da quello stato di dipendenza in cui erano stati relegati fino ad allora: comincia il vero cammino verso l'autonomia. Ma soprattutto il lavoro ha un compenso, uno stipendio come tutti gli altri, dà il senso di appartenere ad una società da cui pri­ma molti si erano sentiti esclusi. Non è tanto avere dei soldi da spendere quanto il poter por­tare il proprio contributo in famiglia che conferi­sce a questi soggetti la dignità che prima non veniva loro riconosciuta.

Nella realtà in cui è stato realizzata l'inseri­mento lavorativo di insufficienti mentali lievi, è stato verificato che essi producono realmente, non sono più soggetti passivi assistiti dalla società, ma soggetti attivi che rendono un servizio utile alla comunità.

E per chi non può affrontare un lavoro vero e proprio bisogna porsi il problema di allargare le possibilità di autonomia.

È importante, quindi, riconoscere e accettare la diversità come punto da cui partire per imma­ginare il proprio futuro e darsi degli obiettivi rea­listici.

Non è detto che sempre si possa raggiungere una totale autosufficienza o riuscire a fare a meno della solidarietà degli altri o dei legami af­fettivi.

Molto interessante è l'esperienza che l'équipe del territorio svolge in un comune della cintura di Torino coordinata dalla Zagaria. I ragazzi, che non riescono a raggiungere una piena capacità lavorativa, non svolgono un lavoro vero e pro­prio, ma sono inseriti in ambienti lavorativi parti­colarmente sensibili. Fanno un orario molto ri­dotto, compiono lavori semplici, ma vivono in un ambiente normale, imparano a prendere i mezzi pubblici, a rispettare gli orari. In questo inizial­mente sono seguiti da un educatore del territo­rio fino a quando non se la cavano da soli.

 

Il tempo libero

Vi è una fase nella quale il giovane affronta la propria indipendenza nei confronti della famiglia e comincia con le proprie risorse a cercare di inserirsi nella realtà sociale. Più difficile è que­sto passaggio per il ragazzo handicappato che sente che la sua separazione della famiglia è inevitabilmente densa di pericoli.

Per gli handicappati è molto importante la fun­zione del gruppo per il senso di appartenenza che fornisce e l'amicizia, l'essere accettati in modo totale da qualcuno come persona.

Per la maggior parte dei portatori di handicap il tempo libero è un tempo "vuoto", riempito mol­to spesso dalla televisione. I più fortunati riesco­no a frequentare gruppi parrocchiali o associa­zioni giovanili impegnate socialmente. I meno fortunati centri d'incontro per handicappati. Per molti il sabato e la domenica, i giorni festivi sono momenti di grossa solitudine.

«Io sono al mare - dice un ragazzo down - ma sono solo, non ho la compagnia di nessuno, ma non importa, me ne sto tranquillo e vedo la televisione». E questo ragazzo scrive tutto un quaderno di lettere a varie persone in cui tra­spare con evidenza il senso di solitudine, il desi­derio di un amico vero, a cui parlare di sé, dei suoi problemi, a volte della sua tristezza, un ami­co per cui essere importante: un amico che pe­rò esiste solo nella sua fantasia. Nessuna di queste lettere, infatti, è mai stata spedita.

I ragazzi "normali" spesso non hanno tempo, sono assorbiti dalla loro vita, dalla scuola, dalla ragazza, dalle loro attività.

Ma anche qui qualcosa sta cambiando e qualche segno positivo si sta cominciando a ve­dere, ma non si può lasciare tutto solo alla buo­na volontà. Occorre fare un lavoro di sensibiliz­zazione che favorisca il cambiamento di menta­lità nella gente e scelte politiche che prevedano e studino attività nel tempo libero a cui possano partecipare i portatori di handicap. «Bisognereb­be avere una fantasia più collettiva per smuovere questa situazione; è un problema che andrebbe affrontato in primo luogo a livello culturale, con i media, con campagne pubblicitarie... Dobbiamo trovare dei modi di fare cultura in questo campo».

Ciò che di fatto separa gli handicappati dagli altri è la mancanza di esperienze comuni: viag­giare col treno, conoscere il centro della città, fare acquisti in modo autonomo. Le loro tasche sono quasi sempre vuote e si può dire che viva­no davvero quando queste si popolano di porta­fogli, chiavi, scontrini, biglietti del tram.

 

La sessualità

Un momento sicuramente critico per molti handicappati è quello della pubertà. Se è diffici­le per tutti abbandonare il mondo dell'infanzia per entrare in quello dell'adulto, lo è a maggior ragione per chi può sentire questo momento quasi come minaccia. Accettare il proprio cor­po, prendere coscienza di se stessi può non es­sere facile per chi non ha conferme dalla socie­tà che lo circonda. La rappresentazione del Sé, cioè il modo con cui l'handicappato si vede, è fortemente condizionata dal rifiuto che percepi­sce negli altri.

Roberto, affetto da una tetraparesi spastica piuttosto grave, racconta: «Evitavo lo specchio, rifiutavo di guardarmi, avevo paura della mia im­magine perché non mi accettavo. Poi finalmente ho capito che non era così importante avere un fisico diverso dagli altri; quello che contava era la mia intelligenza, la mia sensibilità. Insomma ho fi­nalmente cominciato a percepirmi come perso­na, una persona come tutti gli altri. Potevo anch'io avere dei rapporti, vivere, pensare in mo­do autonomo». Ma è stata questa una matura­zione lenta, dolorosa per Roberto e non tutti rie­scono ad arrivarci.

Parlare della sessualità dell'handicappato o della possibilità che si crei una famiglia o per lo meno trovi altre soluzioni di vita, come andare ad abitare con i coetanei, appare ancora molto difficile. Diventa più facile se coloro che vivono intorno a lui sanno valorizzare le parti sane e non considerano chi ha un handicap "un eterno bambino".

Il fatto che il portatore di handicap non sia an­cora considerato una persona come tutti gli altri è evidente quando ci si trova davanti a giovani che si amano e che desiderano sposarsi. In queste circostanze la mentalità che più diffusa­mente emerge è che gli handicappati «osino troppo, non si accontentino di quello che viene loro dato».

Sembra una cosa strana che essi possano provare dei sentimenti: rabbia, dolore, gioia, simpatia, antipatia, amore o che addirittura pro­gettino di vivere apertamente la loro sessualità nel matrimonio.

È proprio di questi giorni l'episodio di due spastici che scoprono di amarsi e decidono di sposarsi: sono autosufficienti anche finanziaria­mente perché hanno una pensione e quindi possono farcela. Ma la decisione ha scatenato l'opposizione di tutti i famigliari, nonché del par­roco che ha trovato varie scuse per rimandare la cerimonia.

 

L'intervento pubblico

È chiaro che il discorso di integrazione degli handicappati nella società va sorretto da leggi che affermino i loro diritti e che prevedano an­che controlli reali sul rispetto delle leggi stesse.

La finalità della legge-quadro (1992) era quel­la di riordinare tutte le disposizioni legislative esistenti in materia di handicap. In particolare la legge doveva segnare il superamento di una concezione secondo cui l'handicappato è un soggetto di assistenza prevedendo da una parte tutti quegli interventi atti a garantire una piena o sufficiente autonomia (sostegno al nucleo familiare, abolizione delle barriere architettoni­che, interventi educativi dopo la scuola dell'ob­bligo, formazione prelavorativa, inserimento al lavoro...) lasciando in carico all'assistenza solo quei problemi difficili da risolvere per la loro gravità.

La promozione dell'autonomia e la realizzazio­ne dell'integrazione sociale sono obiettivi che la legge si propone, ma essa non segna un signifi­cativo passo in avanti rispetto alle leggi prece­denti. Nessuna prescrittività è, ad esempio, pre­vista rispetto al sostegno alla famiglia o agli in­terventi a livello domiciliare per gli handicappati gravi.

Nessun incentivo viene dato per assumere l'effettivo inserimento lavorativo in aziende pub­bliche o private degli handicappati con ridotte capacità lavorative per i quali il lavoro può per­mettere l'uscita dall'assistenza.

Non vengono quindi date indicazioni precise (sia giuridiche che finanziarie) per l'attuazione dei diritti che vengono riconosciuti alle persone handicappate. Si dice cioè che i vari organismi "possono" nei limiti del bilancio e non "devono".

 

Comunicare

Come conclusione vorrei fare un'ultima consi­derazione a partire da ciò che mi ha raccontato la madre di una ragazza down.

«Alcuni dicono di non sapere cosa dire a que­sti ragazzi, perché non si rendono conto che so­no persone come noi. Qualcuno mi chiede: "Ma come mi devo comportare?". Io rispondo: "Parla­gli come parli con me, digli qualsiasi cosa"».

Parole semplici, ma che dicono tutto. La stes­sa ragazza, ci racconta la madre, le dice spesso di una signora amica: «Io non so perché per quella signora ho un affetto così grande...!» e il segreto ce lo spiega la madre stessa: «Le vuole bene perché si sente accettata da lei, perché le parla insieme, le dà retta: basta quello». Ma per­ché questa comunicazione non è sempre così semplice, anche quando non si può parlare di un vero e proprio rifiuto?

Forse una possibile spiegazione sta proprio nel nostro modo di vivere. La società moderna non sembra conoscere il presente, ma soltanto un divenire senza meta che annienta nella fuga­cità ogni tappa ed ogni senso del cammino, consegnandoli ad un dileguare, a un continuo non essere. Per tutti c'è anche nel linguaggio più comune solo mancanza di tempo e fretta... "Non ho tempo" è una risposta classica di fronte al non compimento delle nostre relazioni o dei nostri desideri più profondi.

Negli handicappati invece il senso del presen­te è molto vivo e quello che ci consegnano co­me valore importante- è la scoperta della lentez­za come indispensabile prerogativa per l'ascolto e la costruzione di rapporti veramente e profon­damente validi. Chi non ritrova questo valore dif­ficilmente saprà ritrovare il dialogo, non quello che scavalca l'altro, ma quello che si mette in ascolto degli altri e di se stesso.

 

 

 

 

(*) Relazione tenuta al Seminario di studi sociali (Ca­strovillari, 18-19 dicembre 1992).

(1) E. De Rienzo - C. Saccoccio - M.G. Breda, Il lavoro conquistato. Storie di inserimento di handicappati intellettivi in aziende pubbliche e private, Presentazione di Carlo Ma­ria Martini, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991.

 (2) G. Basano, Storia di Nicola. Le conquiste di un bambi­no handicappato grave nel racconto della madre adottiva, Rosenberg & Sellier, Torino, 1a  ristampa 1989.

 

 

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