Prospettive assistenziali, n. 101, gennaio-marzo 1993

 

 

EUTANASIA ATTIVA, PASSIVA E DA ABBANDONO

MARIA GRAZIA BREDA

 

 

Da alcuni mesi si parla molto "di eutanasia. Non solo più in America, dove il dibattito è iniziato da alcuni anni, ma anche nella nostra Europa e per la precisione in Olanda.

"La buona morte", questo significa il termine in Olanda, può essere praticata dal medico quando il suo malato, in fase terminale, gli chiede di morire.

L'autorizzazione ai medici è arrivata in questi giorni dal parlamento olandese, una votazione che ha suscitato reazioni profonde, anche in Italia (1).

Si è riaperto così l'eterno problema: può la società, con le sue leggi, codificare se e quando un uomo ha diritto o meno di continuare a vivere? E ancora: ha senso parlare e distinguere tra eutanasia attiva e eutanasia passiva?

Senza entrare nel merito specifico della que­stione e tanto meno senza schierarci pro o con­tro una delle due tesi, vorremmo tuttavia porre il problema sull'eutanasia.

Ma di questa pratica, per ora non legale, desi­deriamo porre l'accento su un aspetto più mar­ginale, ma non per questo a nostro parere meno grave, che è l'eutanasia d'abbandono, così co­me è stata definita dal Cardinale Carlo Maria Martini e dal Senatore e filosofo Norberto Bob­bio nel corso del convegno tenutosi a Milano il 20-21 maggio 1988 dal titolo "Anziani cronici non autosufficienti: nuovi orientamenti culturali ed operativi" (2).

 

Eutanasia attiva o passiva? Il dibattito è aperto

Apriamo il volume II del Lessico Universale Ita­liano e leggiamo alla voce eutanasia che: «nel pensiero filosofico si intende la morte bella, tran­quilla e naturale, accettata con spirito sereno e intesa come perfetto compimento della vita; la morte non dolorosa, procurata o affrettata me­diante l'uso di farmaci atti ad alleviare gli spasmi dell'agonia» (...) e ancora «la morte che pone fine alle sofferenze della persona per cui non vi sia più nessuna speranza».

Un esempio.

«Leon Myszka, un sarto di 78 anni, è inciam­pato rovinando giù, fino alla base. La figlia lo ha soccorso, ma si vedeva che era una brutta ferita. E infatti al Kings Hospital di Brooklyn l'operazione al cranio non permette che una dia­gnosi senza speranza. Attaccato al respiratore automatico Leon Myszka ha davanti a sé solo un calvario senza coscienza. I figli chiedono che vengano sospese le cure e l'ospedale rifiuta. Il giorno dopo l'incidente, i tre figli si riuniscono at­torno al letto del padre e decidono di staccargli il respiratore. Quando la vigilanza dell'ospedale ar­riva, per Leon Myszka non c'è più nulla da fare. Non ci saranno arresti, le condanne saranno lie­vissime» (3).

È questo uno di quei casi che rientrano nella definizione di eutanasia passiva, che si ottiene cioè astenendosi dalla prestazione delle cure o con la loro cessazione.

Usata fin dall'antichità e sempre più spesso nella nostra epoca, al punto che in alcuni Paesi sono state presentate proposte di legalizzazio­ne, l'eutanasia passiva comunque - secondo il diritto naturale e secondo recenti pronunce giu­risprudenziali - costituisce ancora omicidio vo­lontario (4).

Fautore indiscusso dell'eutanasia attiva è il professor Leon Schwatzenberg (5) che afferma: «Quando la malattia è inguaribile e non ci sono più mezzi efficaci, quando tutte le ultime cure so­no state fatte, se il malato ripetutamente, respon­sabilmente chiede che venga messa fine ad una vita che per lui non ha più senso, allora il rispetto della dignità di scelta del malato mi sembra es­sere una forma di rispetto della vita» (6).

Per eutanasia attiva si intende, infatti, il cagio­nare volontariamente e con azione diretta la morte di un individuo per sottrarlo alla sofferen­za fisica, su sua precisa richiesta.

Il business realizzato dall'autore del libro "L'addio alla vita" (7), scritto dal dirigente di un'Associazione - Derek Humphry - che si bat­te per l'eutanasia, è quanto mai significativo. Il volume, che ha già superato le centomila copie in America, spiega come fare a togliersi la vita agli aspiranti suicidi, spesso malati in fase ter­minale, prima che la mente perda lucidità e il corpo sia paralizzato dal dolore.

 

"Divenuti capaci di padroneggiare la vita, che cosa ci trattiene dal possedere la morte?"

È l'inquietante interrogativo che si pone Giu­seppe Anzani, nell'articolo "La morte self service" apparso su "L'Avvenire" del 10 ottobre 1991. Nello Stato di Washington - riporta l'arti­colo - verrà indetto all'inizio di novembre un re­ferendum per decidere se l'eutanasia deve di­ventare un diritto, per chi la chiede: negli ospedali si dovrà prevedere un reparto organizzato, per uscire dalla vita alla svelta, senza soffrire, senza accorgersi... una puntura in vena e poi l'ultimo sonno.

«Diritto di morire invocando la legge. I fautori dell'eutanasia portano ad esempio i casi-limite: i malati terminali, per i quali la scienza medica non potrebbe offrire che il tormento di terapie scon­fitte, inutilmente dolorose. Ma, al solito, i casi-li­mite sono il grimaldello per far saltare la porta e impadronirsi de! valore della vita...».

Dopo i moribondi incurabili verranno gli han­dicappati, poi i pazzi, poi quelli di razza non pura...? È già accaduto nel III Reich, come ha ricordato il Card. Saldarini, arcivescovo di Tori­no nel corso di un incontro tenutosi a Torino il 12 novembre 1991 sul tema "Cultura popolare e famiglia".

«Una volta ammesso che la vita è un bene di­sponibile (...) chi si arbitrerà di dire (...) che è il momento giusto per decidere di morire?».

Gli elettori di Washington hanno detto no, ri­baltando le previsioni della vigilia, ma non è ne­cessario correre fino a Washington, poiché an­che i medici italiani si sono già pronunciati. Su un campione di 132 anestesisti e rianimatori ita­liani, il 60% si è mostrato favorevole ad una leg­ge sull'interruzione della vita di un malato ingua­ribile giunto alla fase terminale. È il risultato del­la prima inchiesta fra i medici italiani, condotta dall'associazione culturale "Psicoanalisti con­tro": «Rientra nel dibattito sulla proposta di rego­lamentazione dell'eutanasia presentata dal Parla­mento europeo all'inizio di luglio e la cui discus­sione è prevista in settembre. Degli 80 rianimato­ri favorevoli a una legge sull'eutanasia, 60 (il 45,5%) ritengono che debba essere autorizzata sia !'eutanasia attiva (la somministrazione di una sostanza che provoca la morte del paziente) sia quella passiva (la sospensione delle cure); 20 (il 15,101o) sono invece favorevoli soltanto all'euta­nasia passiva». «Quasi tutti - ha osservato il coordinatore della ricerca, Emilio Mordini - hanno ammesso che l'eutanasia è una realtà ne­gli ospedali italiani, e che i rianimatori sono la­sciati soli ad affrontare le situazioni più dramma­tiche» (8).

Su posizioni diametralmente opposte a quelle espresse nella ricerca su citata, è Federico Len­chi di Novara che interviene con la lettera pub­blicata su La Stampa del 26 luglio 1991 dal titolo "La dolce morte non è una salvezza": «Ho occa­sione di leggere periodicamente articoli sull'eu­tanasia e su medici che, con argomentazioni fal­samente umanitarie, se ne fanno paladini. Ho esercitato in passato, per 12 anni, la professione di rianimatore, e avendo assistito molti malati ter­minali posso assicurare di non averne mai incon­trato uno che desiderasse abbreviare di un solo giorno le sue sofferenze per quanto grandi fos­sero. Tutti, indistintamente, anche se depressi o disperati, si aggrappavano alla vita ed alla scien­za medica e fino all'ultimo speravano nell'impos­sibile».

Il dibattito in corso sull'eutanasia assume ri­svolti a volte drammaticamente concreti, perché si incarna in una società fortemente selettiva, dove non c'è posto per chi "fa perdere tempo", denaro e risorse senza capitalizzarle.

«È più giusto spendere tutti i risparmi per tenere in vita la madre novantenne (in America la salute si paga...) o mandare il figlio all'Università?» si è chiesto l'autore di una petizione al Tribunale di Seattle. E gli ospedali - sempre in America - nello scorso mese di maggio a Minneapolis han­no chiesto ai giudici il permesso legale di non curare più i pazienti in stato vegetativo.

Anche il coma profondo rientra tra gli argo­menti spinosi e dibattuti. Quando la morte cere­brale può essere davvero definita tale?

Negrina Negrello (9) solleva il problema del­l'illegalità che - a suo parere - imperversa negli ospedali: certificazioni di morte, espianti, vengono praticati contro la volontà dei soggetti, o le macchine vengono staccate per arbitrio medico.

Questi sono i casi che rappresentano la pun­ta più evidente di quel problema che a noi pare molto più vasto, perché coinvolge migliaia di persone malate (giovani, adulti, anziani) che, pur non trovandosi in condizioni estreme - e cioè tra la vita e la morte - come lo sono per l'appun­to le persone in coma profondo o nella fase ter­minale della vita, sono ugualmente malate e in­guaribili.

Ci riferiamo per esempio ai malati di Aids, e a tutte quelle persone anziane, malate gravemente con patologie croniche e invalidanti, irreversibili e, per questo, ridotte ad uno stato di non più au­tosufficienza, che le rende dipendenti in tutto e per tutto dagli altri.

 

Gli ospedali e l'abbandono dei malati cronici non autosufficienti

Il giorno 7 gennaio 1991 la signora E.G.R. di anni 81, operata al femore, assolutamente inca­pace di muoversi e stare in piedi da sola, è stata spedita a casa sua, dove vive sola e priva di pa­renti anche prossimi.

L'ospedale dell'Ordine Mauriziano di Torino, presso il quale era stata ricoverata per l'inter­vento necessario a causa di una brutta caduta in casa, non ha esitato a dimetterla, pur cono­scendo le sue precarie condizioni abitative (alloggio, piccolo, riscaldato con stufa a gas, impossibilità a muoversi e quindi a procurarsi il necessario per mangiare). Né ha considerato lo stato di salute della signora che, oltre all'im­mobilizzazione degli arti inferiori, dovuta all'in­tervento subito e alla mancanza di fisioterapia necessaria, presentava già piaghe da decubito al calcagno e segni evidenti di confusione men­tale.

È accaduto ad una signora anziana che, se non fosse caduta, probabilmente avrebbe conti­nuato a vivere dignitosamente con la solidarietà dei vicini di casa, che nulla poteva però fare di fronte ad una condizione così grave, bisognosa di assistenza e cure 24 ore su 24.

Il sociologo Antonio Censi ben evidenzia come il fenomeno debba essere affrontato con urgenza, perché non riguarda - come a torto si pensa - solo i vecchi che sono poveri. «L'emergenza cronici è un problema che interes­sa vasti strati della popolazione e attraversa settori diversi del nostro sistema di sicurezza so­ciale. A pagare i costi del ritardo tecnico, orga­nizzativo e culturale del sistema non sono soltan­to gli anziani, ma anche i loro familiari e gli ope­ratori.

«L'anziano ricoverato in ospedale, non auto­sufficiente è considerato una presenza scomoda e ingombrante per la semplice ragione che evi­denzia in modo inequivocabile la contraddizione di un modello assistenziale costruito in funzione delle esigenze del paziente "acuto". Il nostro si­stema ospedaliero sembra di fatto ignorare i cambiamenti della domanda di assistenza sanita­ria (compresa quella ospedaliera) prodotti dal processo di invecchiamento della popolazione. Le ragioni con le quali i responsabili dei reparti ospedalieri tendono a dimettere i pazienti anzia­ni non autosufficienti cronici sono discutibili sia sotto il profilo tecnico scientifico che sotto il pro­filo giuridico. Sotto il profilo strettamente tecnico le ragioni che vengono addotte per giustificare le dimissioni di un anziano dell'ospedale sono:

«a) la necessità di impedire che i posti letto ospedalieri siano tutti occupati dai cronici;

«b) l'affermazione secondo cui le leggi stabili­rebbero che gli ospedali sono riservati agli am­malati acuti. Sulla base della legislazione vigente il diritto al ricovero ospedaliero "senza limiti di durata" non è condizionato da alcun requisito di "acuzie" della malattia, ma bensì dal requisito della necessità di cure o accertamenti "non nor­malmente praticabili a domicilio";

«c) la non guaribilità delle situazioni di cronici­tà e di non-autosufficienza e quindi l'inutilità de­gli interventi medici, infermieristici, riabilitativi. A questa obiezione si può rispondere che inguari­bile non è sinonimo di incurabile. La cura può es­sere finalizzata a ridurre le sofferenze o a rallen­tare il processo di perdita dell'autonomia» (10).

Per queste persone malate, inguaribili, soffe­renti, non c'è dibattito. C'è l'omertà, il silenzio, il rifiuto soprattutto di considerarle un tema di di­scussione medica. La loro condizione non è ri­tenuta - ingiustamente - una condizione di ma­lato grave.

Così, mentre per i malati in fase terminale o in coma profondo almeno si discute animatamente sull'eutanasia, naturalmente per il loro bene, per non farli soffrire, per le persone - adulte o an­ziane - croniche e non più autosufficienti non si discute neppure. È già scelto.

Non si ha neppure il coraggio di proporre l'eutanasia, di provvedere direttamente all'elimi­nazione "fisica" della persona; la si allontana dall'ospedale condannandola, così, a una lunga sofferenza, che anticipa spesso di molto la stes­sa morte, perché non sono più assicurate le cu­re e le prestazioni sanitarie, che sono indispen­sabili per poter mantenere un livello dignitoso di vita e per limitare in tutta la misura del possibile il dolore e la sofferenza.

Una volta scaricata dall'ospedale, la persona anziana cronica non autosufficiente è abbando­nata ai suoi familiari (quando ci sono), che a loro volta sono lasciati soli dal servizio sanitario na­zionale (11); oppure viene ricoverata in strutture non adatte, sovente anche fuori dalle norme più elementari di sicurezza e garanzia, come sono le pensioni "abusive", tristemente riportate pe­riodicamente alla ribalta dai giornali (12). Sembra così assodato che, per chi è anziano cronico e non più autosufficiente, malato di Aids, malato di Alzheimer, malato inguaribile... sia praticamente impossibile morire con dignità e con la certezza di poter contare su una fine naturale, umanamente accettabile, come la tera­pia del dolore garantisce, per esempio, ai malati oncologici.

Anche se l'assunzione di certi farmaci può costare indirettamente qualche giorno di vita in meno, è comunque una soluzione che permette di morire umanamente: essa non dovrebbe es­sere negata, così come non dovrebbero essere negate le cure sanitarie ai malati cronici e non più autosufficienti.

«A chi è vecchio, malato e povero in America non resta che spararsi» si legge in un articolo di Siegmund Ginzberg pubblicato su l'Unità dei 18.9.1991.

Non crediamo nel modo più assoluto che sia questa una risposta accettabile.

«Bisogna ben vigilare peraltro, che coloro che hanno realmente bisogno non vengano strumen­talizzati diventando occasione di sperperi e di profitto per organizzazioni intermedie prive di scrupolo e inclini all'interesse privato e bisogna oltretutto vigilare, in uno Stato sociale, ispirato al­la giustizia e all'equità, che non si insinuino pro­poste ispirate all'utilitarismo cinico, per cui, quando il malato diventa oneroso e inguaribile lo si metta in lista d'attesa per un abbreviamento eutanasico della vita allo scopo di realizzare ri­sparmi dei quali, in questi anni spensierati, mai ci si è fatti carico» (13).

 

La negazione contemporanea della malattia

Rifiutare di riconoscere lo status di malato alla persona che si trova in condizioni di cronicità e di non autosufficienza, autorizza i medici a sot­trarsi ad ogni responsabilità nei suoi confronti e permette a chi governa di operare risparmi con­siderevoli negando a queste persone gli stessi diritti previsti per gli altri cittadini malati e, quin­di, gli stessi servizi.

Il continuo impegno del Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti di Torino si è a lungo diretto a promuovere, per esempio, for­me innovative di intervento in favore di queste persone allo scopo anche di individuare presta­zioni differenziate, che non comportino unica­mente il ricovero ospedaliero o in struttura analoga. Da qui è scaturito il primo (e purtroppo per ora unico) servizio di ospedalizzazione a domicilio, che - oltre a dimostrare concreta­mente che "l'ospedale" pub trasferirsi a casa dell'ammalato - secondo noi ha affermato ancor più che le persone anziane malate croniche non autosufficienti sono, dunque, davvero delle per­sone malate, curabili con una spesa non rile­vante. Infatti il servizio di ospedalizzazione a do­micilio, che cura gli anziani cronici non autosuf­ficienti dimessi dagli ospedali, è un servizio sa­nitario.

Recuperiamo senz'altro tutto l'apporto che la famiglia, quando c'è, è in grado di assicurare al malato, anche anziano, ma il servizio di ospeda­lizzazione a domicilio prestato a questi pazienti dimostra altresì che non basta la "buona volon­tà" della famiglia per curarli: sono indispensabili prestazioni mediche, medico-specialistiche, in­fermieristiche, riabilitative che nessun familiare può inventarsi, né obbligatoriamente conoscere e attuare.

Per ora ci si trova in una condizione di disu­guaglianza. Non a tutti i cittadini anziani cronici non autosufficienti è riconosciuto il diritto ad es­sere curati a casa, come in ospedale. L'ospeda­lizzazione a domicilio, anche se costa meno del ricovero ospedaliero stenta a decollare e la fa­miglia è abbandonata a se stessa come leggia­mo nella lettera al giornale che riportiamo tratta da La Stampa del 7 giugno 1991:

«Mio padre, già afflitto da morbo di Parkinson, a seguito di una operazione d'urgenza è com­pletamente immobilizzato nel letto. Per evitare di fargli finire i suoi giorni in un pensionato, lo teniamo in casa ed è accudito giorno e notte da mia madre (fin che ce la fa: ha 74 anni) e da una collaboratrice a pagamento. Non muovendosi più, è pieno di piaghe da decubito (schiena, fian­chi, gambe, piedi) che man mano si espandono. Deve essere medicato 2 volte al giorno e a que­sta incombenza provvede mia madre, io (nei giorni festivi e quando posso) e, saltuariamente, un infermiere a pagamento, in quanto l'infermie­ra, mandata dal Servizio Sociale, viene solo un'ora al giorno, ovviamente mai di sabato e di domenica, e solo quando ha tempo (ha troppi malati da accudire). Il colmo è che i! Servizio Sa­nitario, invece di fare di tutto per incentivare chi si tiene il malato in casa (si pensi a quanto costa al giorno un degente in ospedale), passa, per il materiale di medicazione, 300.000 lire ogni 3 mesi. Con il consumo che abbiamo di garze e di cerotti e altro materiale, le 300.000 lire bastano sì e no per un mese. La pensione che prendono i miei genitori basta appena a pagare la collabora­trice e l'infermiere. La pensione di invalidità chissà tra quanti anni arriverà. Ha un senso tutto questo?».

Segue la firma

 

È per queste ragioni che le perplessità sin qui sollevate circa l'eutanasia sono a nostro parere estensibili anche all'altro aspetto del problema, che è appunto quello sommerso e dimenticato dei vecchi cronici e non autosufficienti.

Queste persone, senza scegliere di morire, di fatto finiscono prima la propria esistenza, per omissione voluta di cure e interventi sanitari da parte di chi è tenuto, per legge, a mantenerle in condizioni di vita accettabile (14).

E in questi casi non possiamo parlare neppu­re di "buona morte".

 

Morire perché lo decide chi comanda

La dimissione di un malato cronico non auto­sufficiente non è eutanasia?

Esistono molti modi per morire, ma la forma insolita e quanto mai crudele, che sta sicura­mente prendendo piede nella nostra epoca è il morire perché si è abbandonati e non seguiti e riguarda - come abbiamo cercato di motivare fin qui - il caso della persona inguaribile.

La pratica dell'eutanasia non è ancora accet­tata come lecita, anche se lo ripetiamo, l'Olanda per ora è il Paese con la legge più permissiva nel mondo in tema di interruzione volontaria della vita. Né sono mancati esempi tristemente famosi, quale quello delle infermiere di Vien­na (15).

In Italia, in ogni caso, è vietato sopprimere la persona gravemente malata con l'eutanasia. Tuttavia, un sistema analogo, meno violento e meno evidente, ma non per questo meno effica­ce, a noi pare che sia proprio quello che viene realizzato con le dimissioni (o il non ricovero) in ospedale di persone malate croniche non auto­sufficienti. È la morte lenta, la morte per abban­dono, la morte per sottrazione delle cure (non quelle fondamentali legate ad una macchina che ti tiene in vita), ma quelle ugualmente importanti per poter terminare in modo, il più possibile in­dolore, l'esistenza.

La morte che si verifica per decisione di que­sti "altri", che possono decidere della nostra persona non è un fatto nuovo. La storia è piena di esempi, tristi quanto questo. Ci sono altre

morti inflitte da chi ha il "potere" di decidere sul­la vita degli altri, trovandosi in posizione avvan­taggiata. Le minoranze etniche da sempre sfrut­tate fino alla loro scomparsa, le popolazioni sot­toposte a lavori estenuanti in condizioni di vita impossibili, la miseria, la sottoalimentazione, la deprivazione anche delle più elementari forme di igiene. Persone usate fino allo stremo delle lo­ro forze, perché ritenute - da chi comanda - inutili e, quindi, non degne di vivere.

Analogamente non possiamo che allarmarci nel verificare in chi ci amministra una tendenza evidente a scegliere l'eutanasia d'abbandono quale tecnica sommersa per l'eliminazione di chi, malato, cronico, inguaribile è ritenuto - ille­galmente - privo di diritto in campo sanitario, in pieno contrasto con quanto prevede la legisla­zione vigente (16).

Vorremmo aprire, al riguardo, una riflessione che parte dal recente pronunciamento della Commissione europea in merito all'eutanasia. Sul problema della malattia terminale e della morte, la Commissione europea Ambiente e Sa­nità ha scritto una risoluzione molto inquietante, così come viene rilevato da Laura Cima (17). Il passaggio cruciale del testo recita: «In mancan­za di qualsiasi terapia curativa e dopo il fallimen­to delle cure palliative e ogni qualvolta un malato pienamente cosciente chieda in modo insistente e continuo che sia fatta cessare un'esistenza or­mai priva per lui di qualsiasi dignità, ed un colle­gio di medici constati l'impossibilità di dispensa­re nuove cure specifiche, detta richiesta deve es­sere soddisfatta, senza che in tal modo sia pre­giudicato il rispetto della vita umana».

Gli interrogativi sollevati da Laura Cima non sono pochi: «Che cosa significa mancanza di qualsiasi terapia curativa e fallimento delle cure palliative ed istituzione di un collegio dei medici che constati questa mancanza e questo fallimen­to?».

«Questa mancanza e questo fallimento devono assolutamente riferirsi alla scuola di medicina a cui la persona ammalata è stata affidata. La man­canza di cura, il fallimento terapeutico, il giudizio del collegio dei medici può essere perciò deter­minato da un'appartenenza e potrebbe anche non coincidere o coincidere parzialmente con la posizione e il giudizio di un collegio di medici, appartenenti ad altra scuola».

D'altronde come si può stabilire "la pienezza della coscienza" così difficile da accertare an­che in una persona sana?

«Le parole dell'ammalato che chiedono la fine, quanto sono invece contestuali, indotte dal tro­varsi in un ospedale, nelle mura dell'estraneità, perciò resistenti a comunicare il conforto degli affetti più cari?».

«L'esistenza priva di dignità, cui si riferisce il testo della Commissione europea, è determinata dalla sofferenza o anche, soprattutto, dal luogo in cui l'ammalato è costretto dalla sua situazione? Dall'accanimento terapeutico che spesso riduce la persona ad oggetto di sperimentazione? L'es­sere curata in casa, nel luogo degli affetti, indur­rebbe nella persona che soffre quella percezione di assenza di dignità, di cui parla il testo? Oppure l'intimità del luogo e delle persone determinereb­be altro?».

Conclude, Laura Cima, con il chiedersi se non sia fondamentale un'altra concezione del vivere e il lavoro di una politica che voglia supportarla.

 

Oltre l'eutanasia e l'accanimento terapeutico

Come si misura la civiltà di un Paese che mal­tratta i propri vecchi, quando sono malati ingua­ribili e dipendono in tutto e per tutto dagli altri, anche per le più piccole azioni quotidiane? Qua­le democrazia può essere mai quella che non sa garantire il rispetto dei diritti e delle esigenze - peraltro sanciti dalle leggi vigenti - a questa mi­noranza di cittadini non più in grado di difender­si, né tanto meno di protestare?

Non è nostra intenzione, lo ripetiamo, entrare specificamente nel merito del dibattito sull'euta­nasia; ma come viene rilevato bene in "Testimo­ni" (18), a monte della richiesta di eutanasia, c'è quasi sempre la mancanza o l'insufficienza di una risposta sociale.

Parimenti, a monte degli interrogativi che ci stiamo ponendo sull'eutanasia, va fatta una se­rie di analisi sulla mancanza di risposte sanitarie e sociali efficienti ai bisogni espressi dai malati cronici non autosufficienti che, analogamente ai malati in fase terminale, ad esempio per cancro, devono essere messi in condizione di veder esercitato il loro diritto alla cura, nonostante sia decretata la loro inguaribilità. Esiste un diritto a vivere, prima ancora di un diritto alla scelta di come morire.

L'eutanasia da abbandono, per mancanza di interventi sanitari e cure adeguate, porta ad una morte che non ha nulla di civile e di digni­toso.

Ci scandalizziamo per la scomparsa dei lupi in Abruzzo. Gridiamo giustamente per gli eccidi di popoli lontani. Che cosa stiamo facendo, pe­rò, per difendere il vecchio, paralizzato, impossi­bilitato a muoversi, spesso con piaghe da decu­bito e incontinenza?

Qui non è in gioco il diritto di scegliere di mo­rire. Qui si tratta di poter esercitare il diritto di continuare a vivere, anche quando si è colpiti da malattia inguaribile.

Domani può toccare a noi, che senz'altro de­sideriamo diventare vecchi. Per questo non bi­sogna lasciare che il servizio sanitario continui a non volersene occupare. Dobbiamo costruire un futuro che ci garantisca il rispetto come perso­na, tanto più se finiremo per essere persone de­boli e alla mercé degli altri. È meglio contare su diritti certi, esigibili per i quali vanno gettate le basi ora, prima che sia troppo tardi.

Nessun reddito medio può sostenere per anni la cura privata di una persona malata inguaribile e non autosufficiente.

Oggi paghiamo i nostri contributi per poter essere tutelati proprio in queste emergenze, un domani. Ma se non siamo in grado di ot­tenerle, come è il caso dei vecchi cronici non autosufficienti di oggi, chi mai ci potrà tute­lare?

Proviamo a immaginare noi stessi:

- o cardiopatici, con i reni affetti da gravi alte­razioni circolatorie, con aneurisma aortico, ca­paci di muoverci con difficoltà e solo se aiutati a causa di una paralisi;

- o affetti da insufficienza respiratoria con bi­sogno di ossigenoterapia, impediti anche nelle più semplici attività domestiche, soggetti a som­ministrazione continua di endovenose di bron­codilatatori;

- o con gravi problemi agli occhi in seguito a processi infiammatori che portano alla cecità, o con disturbi e netta riduzione dell'udito, o con deterioramento neuropsichico e incontinenza sfinterica urinaria e fecale;

- o con tumore alla mammella con ulcere e emorragia che richiedono medicazioni quotidia­ne e trasfusioni;

- o affetti da miloma multiplo, che necessita di diversi cicli di chemioterapia, con dolori molto forti, insufficienza renale, anemia e con necessi­tà di esami anche complessi, terapia di suppor­to con trasfusioni di sangue, fleboclisi con nu­trienti e farmaci analgesici.

Possiamo dire di non avere bisogno di cure sanitarie? Possono, anche nelle migliori delle ipotesi, i nostri familiari prestarci tali e tante cure mediche senza l'aiuto concreto di perso­nale sanitario esperto e professionalmente ca­pace?

No, non possono. Né possiamo sentirci sicuri in eventuali case di riposo e istituti assistenziali, che non sono soggetti, come le strutture sanitarie, al rispetto di parametri precisi di personale sanitario e di prestazioni (19).

Difendere quindi chi, già oggi, non vede rico­nosciuto questo suo bisogno di cura nonostante sia inguaribile, significa ipotecare nella stessa misura anche il nostro futuro di vecchi, forse malati e forse non autosufficienti. Rimuovere non serve. Far finta che a noi non capiti è com­portarsi da irresponsabili. Perché quando suc­cede è troppo tardi.

Cominciamo con il difendere le situazioni che conosciamo (20), con avviare attività di difesa come patronati, gruppi, associazioni, partiti...

Pretendiamo che chi è malato, sia bambino, giovane, adulto, anziano, in quanto malato abbia pari diritti, indipendentemente dall'età, dal tipo di malattia, dal fatto che sia acuto, cronico, lungo­degente.

Non abbandoniamo i vecchi malati cronici non autosufficienti di oggi; solo così possiamo pensare di non venire a nostra volta abbando­nati domani.

Non deleghiamo ad altri: è nel nostro interes­se per curare noi stessi o i nostri parenti; pre­tendiamo dalle nostre USL che sia attivato il ser­vizio di ospedalizzazione a domicilio (21), servi­zio diretto non solo agli anziani, ma a chiunque - bambino o adulto - sia in condizioni di malat­tia tali da richiedere il ricovero, ma possa essere ugualmente curato a domicilio con beneficio di tutti.

Coinvolgiamoci in prima persona negli ambiti che più ci appartengono come cittadini, nelle circoscrizioni, negli organi di partito, nelle asso­ciazioni, nel sindacato (non basta difendere la "pensione" se dobbiamo pagare tre volte tanto per avere un'assistenza sanitaria).

Per non morire d'abbandono non si può solo sperare che non ci capiti; bisogna agire quando si è ancora attivi per modificare i comportamen­ti, le azioni di chi ci amministra e/o agisce senza rispettare le leggi e certamente continuerà a far­lo se - democraticamente - non gli sarà impo­sto di smettere.

 

 

 

 

(1) Cfr. A. D'Amico, "II diritto di morire" divide anche l'Ita­lia, in La Repubblica, 11 febbraio 1993.

(2) Nel volume AA.V.V., Eutanasia da abbandono, Rosen­berg & Sellier, Torino, 1988, sono riportate le relazioni e gli interventi tenuti al convegno.

(3) Romeo Bossoli, I confini della vita, "Donna moderna", 6 ottobre 1991.

(4) Grande Enciclopedia, volume VIII, voce eutanasia.

(5) Leon Schwartzenberg, medico, parlamentare euro­peo del gruppo socialista, ispiratore del documento di­scusso a Strasburgo.

(6) Cfr. nota 2.

(7) Cfr. La Stampa, 10 agosto 1991; Final Exit è il titolo originale.

(8) Cfr. "I medici italiani e la legge sull'eutanasia", La Stampa, 27 luglio 1991.

(9) Cfr. "II coma profondo non è ancora morte", La Stam­pa, 24 luglio 1991.

 (10) Cfr. Antonio Censi, Anziani non-autosufficienti: il dramma dei diritti negati, "Prospettive sociali e sanitarie", n. 16/1991.

(11) Il servizio di ospedalizzazione a domicilio, benché previsto nel progetto obiettivo anziani del Ministero della sanità, non è tuttavia realizzato nelle USSL nonostante sia economicamente più vantaggioso del ricovero (il costo giornaliero è di circa 70-80 mila lire contro le 300 mila del posto letto ospedaliero).

(12) Cfr. Le pensioni lager di Torino, "Prospettive assi­stenziali", n. 93, gennaio-marzo 1991.

(13) Cfr. A Fiore - F. Sgreccia, Sanità, etica, austerità, in "Medicina e Morale", 1992/5.

(14) Cfr. F. Santanera - M.G. Breda, Vecchi da morire, Rosenberg & Sellier, Torino, 1987, pag. 117 e seg. e l'arti­colo "Il Fatebenefratelli di Venezia viola il diritto alla cura di una anziana cronica non autosufficiente: la Magistratura non processa l'ente, ma i familiari", in Prospettive assisten­ziali, n. 95, luglio-settembre 1991.

(15) "Vienna: condannate le infermiere assassine", in Prospettive assistenziali, n. 95, luglio-settembre 1991.

(16) Cfr. F. Santanera - M.G. Breda, Vecchi da morire, op. cit., pag. 39-41.

(17) Eutanasia secondo la Commissione europea, in "Rocca", 15 agosto - 1 settembre 1991.

(18) Oltre l'eutanasia, Testimoni, n. 14, 30.7.1991.

(19) Cfr. "Perché l'anziano malato cronico non autosuffi­ciente deve restare a carico del sistema sanitario naziona­le e non del settore assistenziale', in Vecchi da morire, op. cit., pag. 39.

(20) Cfr. per una corretta difesa dei diritti, F. Santanera - M.G. Breda, Per non morire d'abbandono, Manuale di auto­difesa per pazienti, familiari, operatori e volontari. Prefazio­ne di Norberto Bobbio, Rosenberg & Sellier, Torino, 1990.

(21) Cfr. F. Fabris - L. Pernigotti, Cinque anni di ospeda­lizzazione a domicilio - Curare a casa malati acuti e cronici: come e perché, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990.

 

 

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