Prospettive assistenziali, n. 100, ottobre-dicembre 1992

 

 

RIFLESSIONI SULLA MOSTRA "COMPAGNI SILENZIOSI" ORGANIZZATA DAL COTTOLENGO DI TORINO

EMILIA DE RIENZO

 

 

"Compagni silenziosi", questo è il titolo della mostra di fotografie che il Cottolengo ha organizzato al Chiostro dello Juvarra in Maria Vittoria 5 a Torino.

È una mostra che non si può guardare senza riflettere, senza ancora una volta interrogarci su come la nostra società affronta il problema dell'emarginazione.

- Una prima considerazione è sull'ubicazione della mostra stessa. Per raggiungerla, infatti, bisogna salire quattro rampe di scale, il che equivale a dire che gli handicappati non sono invitati. È da sottolineare che nello stesso edificio a piano terra esiste un lungo corridoio dove agevolmente avrebbero potuto essere collocate le fotografie.

- Ci siamo chiesti poi leggendo il titolo di chi i soggetti ritratti fossero "compagni di viaggio"? In genere i compagni di viaggio sono seduti sullo stesso treno, condividono lo stesso spazio, tra di loro ci sono continue interrelazioni volontarie o non. Come si può definire "compagno" chi viaggia su un treno diverso dal nostro, non vive insieme a noi, è fuori dalla nostra storia?

Ci è sembrato, invece, appropriato il termine "silenzioso". La mostra è composta, infatti, da "foto-ritratto", da volti che ci guardano, uomini fuori dal tempo e dallo spazio. Nulla viene detto della loro storia, dei luoghi in cui hanno trascor­so e trascorrono la loro esistenza: dove mangia­no, dove dormono, con chi parlano, dove posso­no passeggiare, cosa possono vedere, con chi possono incontrarsi, insomma come vivono...

Queste persone sono fotografate fuori dal loro attuale contesto di vita, perché?

- Le fotografie sono accompagnate da brevi commenti che a volte ci hanno lasciato quanto meno perplessi.

Partiamo da quello che ci è sembrato il più discutibile come messaggio.

Oddone Camerana dice: «Due secoli - da quando Thomas Jefferson introdusse nella di­chiarazione d'Indipendenza Americana il 2 luglio 1776 il diritto alla felicità - sono trascorsi gon­fiando la insidiosa lista dei diritti: diritto alla salu­te, alla pace, alla sicurezza, al benessere, alla cultura, alla pensione, al successo, alla giovinez­za, alla vecchiaia, al rispetto, alla bellezza, al pia­cere, al riposo, al divertimento, al viaggio, alla va­canza... una mostruosa escrescenza, un cattivo fai da te delle illusioni che ci ha stordito, fian­cheggiato da un tribunale infuriato di pretese. Ma non ha diminuito o risolto il bisogno di essere ca­piti. Poiché questo vivrà e non si deturperà mai in un diritto...».

Cosa volesse veramente dire Camerana non è molto chiaro. Forse avrebbe dovuto fare una di­stinzione tra quelli che sono diritti veri e propri facenti parte della nostra normativa e quelle che sono "pretese" prodotte da una società in cui il consumismo, la pubblicità e i mass media han­no ragione su ogni senso morale.

- Non possono certo essere considerati "escrescenza" o prodotto di un "tribunale infu­riato di pretese" diritti come quello della salute, della pace, della sicurezza, della pensione, ecc.

Non possono essere considerati escrescenze tutti quei diritti sociali che in questi anni sono nati in difesa dei più deboli. Ci riferiamo alla leg­ge 184 del 1983 che ha affermato il diritto di ogni minore ad avere una famiglia, quella d'ori­gine o una adottiva o affidataria.

Ci riferiamo alla legge sull'integrazione scola­stica dei ragazzi handicappati.

Sempre riguardo alle persone handicappate la legge quadro 104/1992 afferma: «la rimozione delle cause invalidanti, la promozione dell'auto­nomia e la realizzazione dell'integrazione socia­le ...» e nel punto c) ribadisce la necessità di «ga­rantire l'intervento tempestivo dei servizi tera­peutici e riabilitativi che assicurino il recupero consentito dalle conoscenze scientifiche e dalle tecniche attualmente disponibili, il mantenimento della persona handicappata nell'ambiente fami­gliare e sociale, la sua integrazione e partecipa­zione alla vita sociale».

Nel 1982, inoltre, su iniziativa dell'ONU si è te­nuta a Vienna un'assemblea mondiale sui pro­blemi della condizione degli anziani. L'assem­blea alla quale hanno partecipato 134 paesi, si è conclusa con l'adozione di un "Piano di azione mondiale per l'invecchiamento" . II 30 gennaio 1992 il Parlamento italiano ha così approvato il progetto obiettivo "Tutela della salute degli an­ziani" in cui tra gli altri punti si afferma il diritto alle cure sanitarie domiciliari che permettono appunto alla persona anziana malata cronica non autosufficiente di continuare a vivere nel proprio ambiente.

- Non ci si può nascondere che l'affermazio­ne di nuovi diritti metta in questione vecchi privi­legi di cui beneficiavano altre persone. Alcuni diritti possono essere realizzati solo se vengono imposti ad altri, compresi gli organi pubblici, un certo numero di obblighi che ne permettano l'at­tuazione.

È innegabile che purtroppo molti dei diritti suddetti siano oggi ancora troppo soltanto sulla carta, ma sta a noi difenderli, lottare perché ven­gano predisposte tutte le misure necessarie per renderli attualizzabili.

Come dice il Cardinale Arcivescovo di Milano Martini: «Tutto questo ha evidentemente bisogno di un supporto legislativo e istituzionale, di un trasferimento di risorse economiche indirizzate a tale priorità sociale e al decisivo criterio di salva­guardare e proteggere maggiormente i più debo­li» e continua dicendo: «Non possiamo procla­mare il valore intangibile della vita senza poi im­pegnarci a qualificare, in umanità e dignità, quel­la dei più deboli che vivono al limite della dispe­razione o della solitudine o dell'abbandono!» (1).

- Abbiamo, invece, avuto la sensazione che il messaggio della mostra fosse solo un valorizza­re l'impegno che il Cottolengo mette nei con­fronti dei poveri, senza indicare la possibilità di nuove strade, anzi in un certo senso escluden­dole.

Giovanni Trovati nel commentare una delle fo­tografie dice: «Perché Signore a me hai dato la luce dell'intelligenza e l'hai negata a questa per­sona che tu mi dici di considerare fratello? ( ..) Aiutami a capire questo mistero». Questo e altri commenti nella mostra denunciano lo sgomento che proviamo di fronte alla sofferenza, alla mise­ria, alla diversità. Uno sgomento che però gene­ra solo un moto interiore e non il desiderio di cambiare una società troppo chiusa nella difesa dei privilegi di chi ha di più. Ancora Trovati, infat­ti, dice: «Questa persona, che la fede di Dio Pa­dre mi dice essere mia sorella, non può lasciarmi tranquillo. lo ho quello che lei non ha: un mistero di Dio che forse non comprenderò mai, ma che mi impone di averla sempre presente perché condizioni la mia condotta...».

- Nessuno certamente mette in discussione l'amore che anima religiosi e laici volontari all'in­terno delle istituzioni che si occupano dei più deboli. Questo è un fatto che riguarda la co­scienza individuale e non spetta a nessuno giu­dicare. Ma un atto d'amore, a nostro avviso, per essere tale, non deve aver paura di mettersi in discussione alla luce di nuove conoscenze e dell'evoluzione della storia e soprattutto non de­ve creare assiomi quali quello lanciato da L. Mondo su "La Stampa": «L'amore non fabbrica ghetti».

Non si può negare che l'amore che anima quelli che operano nel Cottolengo sia ispirato ad una posizione di fondo: difendere i deboli da una società considerata troppo cattiva per po­terli integrare, accettare al suo interno. È bene quindi, creare una struttura dove essi possano essere curati, amati, accuditi lontano dal male che oggi è così presente nella nostra società.

Ed allora non si parla più di integrazione nella società del singolo individuo, ma semmai di inte­grazione di tutta l'istituzione all'interno della città da cui però si difende.

È, forse, questa la logica che fa dire a Oddone Camerana che «il ricoverato della Piccola Casa della Divina Provvidenza è un cittadino di Torino che abita in via Cottolengo n. 14. Egli abita lì co­me altri abita altrove. È solo una questione di re­capito...».

E su questi soggetti così «indifesi, perduti che non crescono mai, si chinano le suore che vivono così il loro sentimento di maternità» che in que­sto modo affermano quel «diritto a essere capiti» di cui parla Camerana che «non si deturperà mai in un diritto»!

Insomma, ci sembra allora di capire che per handicappati, vecchi, malati la cosa migliore non sia essere soggetti di diritto, ma avere la fortuna di poter essere accolti al Cottolengo o in qualche struttura dove suore amorevoli si occu­peranno di loro dalla nascita fino alla morte. In questo modo, allontanati da una società cattiva, entreranno in una buona, studiata apposta per loro.

Forse, è anche vero che in questo modo la società dei "privilegi" potrà finalmente dimenti­carsi di loro, delegarli ad un piccolo "esercito" di volontari a cui i più deboli dovranno per sem­pre essere riconoscenti.

È chiaro, infatti, che "chiudere" in una struttu­ra significa escludere dalla vita, non lasciarsi implicare, lasciare ad "altri", i "più buoni, gli eroi, i santi..." il compito di occuparsi di loro. A1 mas­simo possiamo offrirci come "volontari" per po­ter continuare, però, la nostra vita di sempre ac­cettandone le regole anche se sdegnosamente non ci piacciono, ma che comunque consideria­mo irreversibili.

Noi, invece, condividiamo la posizione del cardinale Arcivescovo di Milano Martini che di­ce: «Ho più volte affermato l'urgenza di "dar voce a chi non ha voce": nel nostro caso significa apri­re e difendere, per i fratelli con handicap gravi e per le loro famiglie, orizzonti di vita proprio sul luogo e nell'ambiente in cui vivono». Per questo sottolinea la necessità di «valorizzare modalità di intervento quali: comunità di vita, comunità allog­gio, comunità di pronto intervento, famiglie affi­datarie, piano di assistenza domiciliare, centri educativi diurni» (2).

E conclude affermando che «tali interventi hanno il merito culturale e sociale di riportare sul territorio le problematiche dell'handicappato gra­ve, di non sradicarlo dal suo contesto di vita, di creare adeguata solidarietà alle famiglie, di svi­luppare una forte creatività e integrazione, di porre in primo piano interrogativi che cercano di capire cause e responsabilità per poter sviluppa­re un concreto progetto di prevenzione. E, so­prattutto, rispondono a una visione di umanità, solidarietà, rispetto della vita, che raggiunge una profonda radicalità» (3).

- Le esperienze hanno dimostrato che molti handicappati considerati "irrecuperabili" hanno trovato persone che nei loro diversi ruoli sociali hanno saputo vedere anche negli handicappati più gravi non "persone irrimediabilmente meno­mate" ma persone "comunque ricche di poten­zialità". È sicuramente questo il caso di Roberto e Piero usciti proprio dal Cottolengo e la cui testimonianza è raccolta in Prospettive assisten­ziali (5); è il caso della storia di Nicola, un bam­bino di quattro anni, considerato da infermieri e dottori "una bestiolina", "un bambino da buttare dalla finestra" e di cui, invece, la mamma adotti­va ha visto «un risveglio graduale, lento, ma te­nace» (6). È la testimonianza di insufficienti mentali, soggetti affetti da mongolismo che, gra­zie a nuove leggi, a genitori tenaci, alla profes­sionalità e all'impegno di operatori sociali e la­voratori sono riusciti ad entrare nei circuiti nor­mali della vita. È la testimonianza anonima di molti e molti altri casi che ancora non sono stati raccontati, ma che oggi vengono vissuti nella scuola, nei posti di lavoro, nelle famiglie...

- Nel vedere le fotografie della mostra ci siamo chiesti se almeno alcuni di quei volti non avrebbero potuto avere una vita diversa da quella a cui sono stati destinati e che è stata scelta per loro. Difficilmente, infatti, una persona sceglie in presenza di alternative valide di vivere in un istituto. Nessuno di noi progetta per la pro­pria vita, soprattutto se in difficoltà, una soluzio­ne che lo escluda dalla propria famiglia e dal proprio ambiente.

- Rimane comunque vero quello che dice il Cardinale Martini che le esperienze positive «so­no insufficienti per rappresentare una reale in­versione di tendenza al processo di emarginazio­ne o di affidamento del soggetto grave all'istituto, come unica risposta alla mancanza di risorse adeguate sul territorio» (7).

- Certo se la società è come la vede Guido Ceronetti nell'introduzione al catalogo della mo­stra «un polipaio» in cui «l'avvelenamento - egli dice - comincia presto, anzi subito: la casa, la famiglia, la città avvelenano», l'unica soluzione è la fuga e rinchiudere in una fortezza chi è più debole per difenderlo.

Altra, invece, è la posizione di Bobbio che di­ce: «Mi sento abbastanza tranquillo nell'afferma­re che la parte oscura della storia dell'uomo sia ben più ampia di quella chiara. Ma non posso ne­gare che una faccia chiara sia apparsa di tanto in tanto, sebbene per breve durata. Anche oggi che l'intero corso storico dell'umanità sembra minac­ciato di morte, vi sono zone di luce di cui il più convinto pessimista non può tener conto». E ve­de come zone di luce proprio «l'interesse cre­scente di movimenti, partiti e governi, per l'affer­mazione, il riconoscimento, la protezione dei di­ritti dell'uomo» (8).

Zone di luce sono quelle che vedono molti uo­mini impegnarsi perché i soggetti più deboli possano essere restituiti alla società dopo che per molti secoli ne sono stati esclusi. L'atteggia­mento pessimistico, senza speranza, quasi ca­tastrofico di certi intellettuali, che di fatto non ve­dono mai i cambiamenti in positivo, non fa che ritardare con il loro scetticismo, la loro indolen­za e immobilità la realizzazione di quei mezzi che potrebbero assicurare la realizzazione con­creta di una società migliore.

A questi intellettuali chiederemmo meno pressapochismo negli interventi, più preparazione sui problemi che vogliono trattare e meno discorsi edificanti dal punto di vista letterario, ma poco co­struttivi sul piano delle proposte. Chiederemmo di produrre una cultura più impegnata e più corag­giosa per promuovere una nuova mentalità, un nuovo modo di essere che contrastino quei di­svalori che hanno fatto della nostra società quel "mondo avvelenato" di cui parla Ceronetti.

Il fotografo in un'intervista a La Stampa ha affermato che dietro ogni volto ritratto al Cottolengo c'è una storia, dei sentimenti, delle emozioni: perché non raccontarli, perché non far conoscere alla gente il mondo di sofferenza che sta dietro a quegli occhi al di là della troppo facile e spesso discutibile e irriverente retorica dei commentatori?

 

 

 

(1) Carlo Maria Martini, Presentazione del volume di E. De Rienzo - C. Saccoccio - M.G. Breda, Il lavoro conquista­to - Storie di inserimenti di handicappati intellettivi in azien­de pubbliche e private, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991, pp. 266.

(2) Ibidem.

(3) Ibidem.

(4) Ibidem.

(5) Cfr. "Nuovi" istituti, vecchia emarginazione e gli stes­si danni. La storia di Roberto e Piero per continuare a riflettere, in Prospettive assistenziali, n. 78, aprile-giugno 1987.

(6) G. Basano, Storia di Nicola - Le conquiste di un bam­bino handicappato grave nel racconto della madre adotti­va, Rosenberg & Sellier, Torino, 1989.

(7) Ibidem.

(8) N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.

 

 

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