Prospettive assistenziali, n. 98, aprile-giugno 1992

 

 

IMPARARE PER VIVERE: HANDICAPPATI INTELLETTIVI A SCUOLA DI AUTONOMIA

 

 

Imparare, malgrado il deficit intellettivo e l'età adulta, è possibile. È stata questa l'affermazione intorno alla quale si è svolto a Roma, il 29 maggio, il convegno "Imparare per vivere - Handicappati mentali adulti a scuola di autonomia", organizzato dalla Comunità di S. Egidio e dalla Cooperativa Pulcinella.

I principali temi trattati sono stati:

- l'esigenza di una educazione individualizzata che superi la dicotomia tra una presunta educazione standardizzata per i "normali" e una educazione speciale per i "diversi";

- l'attenzione particolare alla fascia d'età che vede, dopo la scuola dell'obbligo, gli handicappati intellettivi abbandonati in un vuoto di proposte mirate all'integrazione;

- l'esigenza di educare all'autonomia per la conquista di più ampi margini di libertà persona­le, compresa quella fondamentale di evitare l'istituzionalizzazione quando viene a mancare il sostegno della famiglia.

 

Educare per gettare un ponte

Ha aperto i lavori Mauro Laeng, Ordinario di pedagogia all'Università di Roma "La Sapienza" con una relazione dal titolo: "Margini di educabi­lità in handicappati mentali".

«L'educazione ha una antichità e una priorità fondamentale nei confronti della scuola; esiste educazione ovunque esiste una relazione inter­personale», - ha detto il relatore. Affrontando poi il tema della educazione speciale, ha ricor­dato che «nell'ottica di una pedagogia separata, è fatale cadere in una classificazione tipologica ulteriore, mettendosi su una strada senza fine (...). O l'educazione è individualizzata sempre, o non è educazione completa, perché non rende un servizio appropriato, equilibrato, aggiustato sulle necessità della persona».

I tre "traguardi" dell'educazione individuati dal prof. Laeng sono: l'autosufficienza, l'autonomia e la libertà.

Autonomia vuol dire avere un pieno controllo verso le cose, l'ambiente fisico, lo spazio tempo­rale, la manualità, la capacità di comunicazione. Deve mirare all'orientamento nel mondo, anzitut­to verso l'ambiente prossimo. «Qualunque sog­getto, normale o con deficit, viene costruendo fin dalla tenera infanzia una rappresentazione del mondo, una specie di doppio del mondo nella propria testa, che costituisce una mappa am­bientale e cognitiva indispensabile».

In anni passati l'handicappato chiuso in istitu­to o nella scuola speciale costruiva la sua "map­pa" in modo falso, incapsulato in una pseudo­struttura, ma indolore, protetto da problematici confronti. «Oggi, nella scuola aperta a tutti viene indubbiamente favorito, ma nello stesso tempo avverte tutta una somma di possibilità che gli so­no interdette. Sarebbe però, palesemente distor­ta ed assurda la conclusione di chiudere gli han­dicappati in un falso mondo per proteggerli; bisogna piuttosto andare fino in fondo, e non in­terrompere lo sforzo educativo alla fine della scuola».

Gli handicappati che hanno frequentato, negli ultimi 20 anni, regolarmente le scuole si trovano ad una svolta, vivono una crisi a cui «dobbiamo essere preparati come società e come singoli».

È necessario perseguire - ha continuato il prof. Laeng - una «terapia del successo, che in­coraggi la persona a proseguire, ad autoaffer­marsi».

Autosufficienza ed autonomia, dunque, e, in­sieme ad essa, l'affermazione della libertà della persona che si fa attività creativa: «La libertà vera della persona si realizza in due aspetti: l'at­teggiamento di cooperazione e quello di autoge­stione».

I margini di educabilità sono dunque maggiori di quanto da più parti si creda. «Quando noi ci troviamo di fronte a un soggetto che ha dei limiti, l'importante è gettare il ponte, ma appena questo esiste, occorre andare a individuare le possibilità alternative, quella somma di energie riposte, se­grete, non sempre visibili... il cui studio dovrebbe essere il primo compito dell'educatore... Un uo­mo, anche nelle condizioni più gravi, conserva la forza interiore delle motivazioni... ed usa tutte le proprie risorse per realizzarsi appieno».

 

Insegnare a chi? Cosa? Come?

"L'esperienza delle scuole dell'autonomia" è stato il tema della relazione di Bruna Cicconi, della Comunità di S. Egidio. Dopo aver parlato dell'educazione come necessità nei confronti delle persone con deficit intellettivo, la relatrice ha ripercorso in breve l'esperienza della Comu­nità di S. Egidio e quella della Cooperativa Pulci­nella: «Il servizio oggi raggiunge più di 700 han­dicappati mentali, nella stragrande maggioranza adulti, che vivono per lo più in famiglia, ma anche in istituto, a Roma ed in altre città: Napoli, Geno­va, e Wurzburg, in Germania».

Ha quindi spiegato il nome della Cooperativa e dei centri gestiti dalla Comunità: «Il teatro non c'entra. Pulcinella è la maschera antichissi­ma del pover'uomo, ed ha poi simboleggiato il popolino napoletano, asservito e schiacciato da sempre nuovi potenti tiranni. Pulcinella non muore mai, afferma la tradizione, perché cono­sce l'arte dell'arrangiarsi, il segreto della solida­rietà e dell’amicizia. Così, in barba al potere dei forti, resta l'ultimo sorridente vincitore e non per­de la sua allegria. Dietro la maschera di Pulcinel­la non si nasconde solo chi è reso debole dall'handicap, ma anche chi lotta con lui per su­perarlo, spesso incontrandosi con l'esiguità delle risorse destinate ai servizi socio-sanitari e la ina­deguatezza della riflessione pedagogica e didat­tica».

Ogni proposta educativa - ha proseguito - «deve essere articolata attorno a tre domande: "insegnare a chi? Cosa? Come?". Insegnare anzitutto agli handicappati mentali adulti. Gli stessi che negli anni '70 sono stati deistituziona­lizzatl, socializzati, difesi, integrati nella scuola di tutti. Erano divenuti un simbolo per chi voleva chiudere la parola "normale" tra due virgolette (..). Sono stati delusi, poi, dopo la scuola dell'ob­bligo, abbandonati: il lavoro non c'è, la casa non si trova. L'istituto e il cronicario, per fortuna con valide eccezioni, restano uno spettro minaccioso per chi potrebbe restare a casa propria, ma an­che quasi l'unica risposta concreta alla domanda del genitori invecchiati: cosa ne sarà di mio figlio, quando non ci saremo più? Si afferma oggi una nuova emarginazione, che fa ruotare, attorno all'handicap nella fascia giovanile, ricerca, speri­mentazione, risorse. Autorevoli pareri scientifici e la nostra abitudine mentale affermano: i giovani Imparano, gli adulti lavorano, al massimo, si ag­giornano. L'esperienza delle scuole dell'autono­mia dimostra che può non essere così».

«Vorremmo a volte - ha detto ancora Bruna Cicconi - poter tracciare una bella linea dritta e stabilire: fin qui e non oltre. Ma onestamente non è possibile. Un giorno osservi che il tuo allievo non è in grado dl aprire un rubinetto, e il giorno dopo ammiri i suoi virtuosismi col telecomando della TV: le contraddizioni sono tante, e si intui­sce che se un confine esiste, è frastagliato e mal del tutto esplorabile».

Don Milani diceva che una buona scuola è «quella che rende tutti uguali». In questo senso la formulazione dei programmi nelle scuole dell'autonomia avviene stilando per ciascuno l'elenco delle differenze tra l'handicappato e i suoi coetanei normodotati. L'abisso che li sepa­ra è reso più profondo dalla mancanza di espe­rienze comuni: viaggiare col treno, conoscere il centro della città, fare acquisti autonomamente.

L'esperienza di stanchezza degli handicappati coincide con la noia dell'inattività. La scuola dell'autonomia conduce, invece, ad una vita atti­va, e quindi anche alla stanchezza vera. Maka­renko, pedagogista sovietico, diceva: «In condi­zioni di pura natura, cresce solo quel che può crescere: la solita gramigna».

Con gli handicappati mentali la natura è stata avara, e l'inattività è proprio la solita, noiosa gra­migna. In assenza di stimoli, lo sappiamo tutti, l'handicap si moltiplica.

Quando arrivano alla scuola dell'autonomia, i primi giorni, nelle loro tasche e nelle loro borse c'è solo un fazzolettino pulito; via via si popola­no di portafogli, chiavi, documenti, scontrini stropicciati, biglietti dell'autobus... diventano ve­re tasche da adulti, un po' disordinate. I pro­grammi, che toccano anzitutto le abilità della vita quotidiana, come l'uso del denaro, del telefono, del supermercato, l'igiene personale e dell'am­biente, comprendono sempre anche elementi di un sapere più tradizionale: leggere, scrivere, calcolare, firmare, e sempre proiettato nel mon­do esterno. Quanto alle linee didattiche, viene sottolineata l'esigenza di insegnare nell'ambien­te di vita, e valorizzata l'immagine come cataliz­zatore delle capacità di apprendimento. In parti­colare, si attuano costantemente strategie di semplificazione del compito, attingendo alle possibilità consentite dalla nostra cultura occi­dentale di tecnologia avanzata.

«Nel corso del nostro lavoro - ha aggiunto Bruna Cicconi - abbiamo notato una innegabile voglia di scuola nei nostri allievi handicappati: desiderio e soddisfazione emergono nell'appren­dimento; è questo il patrimonio più prezioso dl ogni scuola. A noi è richiesto un impegno di mi­sura non inferiore».

Concludendo, la relatrice ha spiegato che la scuola porta un nome ambizioso: quello di Edouard Séguin, il grande pedagogista francese che per primo, alla metà del secolo scorso, affermò e difese l'educabilità degli handicap­pati mentali e che scrisse parole ancora in­credibilmente attuali: «Se è disteso, fatelo sedere, se è seduto, mettetelo in piedi, se non mangia da solo, tenetegli le dita e non il cuc­chiaio... se non parla e non guarda, parlategli e guardatelo. Nutritelo come un uomo che lavora e fatelo lavorare, lavorando voi stessi con lui... e se in quattro anni non potrete dargli intelligenza né parola né movimento volontario, la somma di energia che avrete speso con lui non sarà ancora perduta.., starà meglio, sarà più forte, più obbe­diente o più morale. Vi par poco? E colui che ha fatto tutto quel che può, non ha forse fatto tutto?».

 

Un video e una mostra per dimostrare che imparare è possibile

Dopo le due relazioni iniziali, è stato proiettato un video dal titolo: «La scuola dell'autonomia Edouard Séguin». Situata nel quartiere di Prima­valle, «a un passo dalle case dei suoi allievi», la scuola accoglie quattro handicappati mentali che imparano giorno dopo giorno abilità come: mantenere in ordine la propria abitazione, cuci­nare, telefonare, prendere l'autobus, fare la spe­sa, attraversare la strada. Spunti significativi a riguardo delle attività di pittura, giardinaggio, ed altre, sono mescolati ai continui stimoli rivolti al­la conoscenza del mondo esterno, all'uso dei servizi pubblici come l'ufficio postale o la circo­scrizione, alla visita dei luoghi più importanti della città.

Nell'ambito del convegno è stata, inoltre, alle­stita una mostra, composta di foto e documenta­zione didattica: le carte del supermercato (che consentono anche ad handicappati mentali gra­vi di fare la spesa autonomamente), il telefono con le foto (che può essere usato anche da chi non conosce i numeri), la rubrica, i giochi didat­tici destinati ad apprendere l'uso del denaro e la capacità di muoversi nella città, il "contasoldi" e il semaforo (vero) usato per le esercitazioni de­gli allievi. Presenti anche ricette di cucina "sen­za parole né quantità", attrezzi modificati per l'artigianato del cuoio, dipinti degli allievi.

 

Abbattere il pregiudizio del: a questo punto non c'è più niente da fare

Ha concluso il convegno una tavola rotonda introdotta e coordinata da Andrea Bartoli, diret­tore del Centro Studi e Programmi Sociali e Sa­nitari, di Roma. Il primo intervento è stato quello di Antonio Guidi, neupsichiatra, responsabile del Dipartimento H della CGIL. «Abbiamo sempre fatto degli interventi prendendo come punto di ri­ferimento una normalizzazione possibile ma non sempre raggiungibile - ha detto - cercando fe­nomeni di miglioramento eclatanti... con un gros­so pensiero a se stessi, alla gratificazione dell'operatore (...). Il discorso avrebbe dovuto es­sere molto più flessibile: bene l'intervento preco­ce, ma non al prezzo di togliere i bambini ai geni­tori per medicalizzarli nel momento In cui avreb­bero più bisogno di sostegno; a quell'età certe torture possono provocare danni per tutta la vita».

Guidi ha quindi sottolineato come la fascia di età in cui si interviene di più sia quella coinci­dente con gli anni dell'obbligo scolastico, in una specie di scuola-centrismo a discapito dell'ex­trascuola. Come se a una certa età, quando la scuola è finita, la riabilitazione non servisse più. Il non intervento, al contrario, dopo una certa età, provoca non soltanto una regressione, ma soprattutto un autismo di ritorno di devastanti proporzioni. L'intervento sull'handicappato men­tale adulto non è solo un atto di solidarietà o di giustizia sociale, di cui siamo orgogliosi, ma un atto scientifico. «Non possiamo più accettare il servizio fornito in una griglia che esclude gli in­curabili, perché incurabili non ce ne sono...».

Dario Ianes, psicologo, del Centro Studi Erik­son di Trento, ha ribadito le tesi sulla non limita­zione nel tempo della capacità di imparare ci­tando numerosissime ricerche sperimentali che hanno dimostrato, soprattutto nella cultura an­glosassone, la possibilità di apprendere in età adulta una vasta gamma di comportamenti ed abilità quotidiane. Si tratta di sperimentazioni condotte con canoni di massimo rigore scientifi­co ormai da più di venti anni, che il dottor Ianes ha rintracciato nelle tesi dell'analisi comporta­mentale, della psicologia cognitiva, fino alle più moderne teorie di analisi ecologica. Ha quindi sottolineato, commentando il video, la validità dei percorsi di semplificazione degli obiettivi: «Portare il più vicino possibile alla competenza della persona quello che è un complesso di com­portamenti altrimenti troppo difficile, utilizzando quelle tecniche, in cui credo molto, con una nota di cautela; non si potrebbe fare una scuola dell'autonomia tutta a tavolino, bisogna inserire naturalezza, spontaneità, bisogna giocarsi nella strada, nel quartiere, uscendo dagli schematismi assoluti. Occorre investire senza esitazioni nell'autonomia, per potenziare le capacità di vita, fino all'autostima e alla sicurezza personale. Dif­ficoltà si sono, però, incontrate nel proporre una rivitalizzazione dei curricoli all'interno delle strut­ture formative. La scuola media, ad esempio, è strutturata sottolineando sempre i processi co­gnitivi relativi alle diverse discipline, quasi fosse una università. Si fa fatica a scendere nella stra­da, a fare un lavoro nel territorio».

Marisa Faloppa, presidente del Comitato per l'integrazione scolastica di Torino, membro del CSA - Coordinamento sanità e assistenza per i movimenti di base, ha sottolineato come «l'inte­grazione nella scuola dell'obbligo, pur fra tanti di­fetti e Inadempienze, ha favorito negli ultimi vent'anni la formazione di una diverse coscienza sull'handicap». L'integrazione scolastica doveva costituire la prima parte di un progetto globale che per molti motivi è rimasto incompiuto. «Biso­gna ammettere che la scuola a vari livelli appare impegnata a trasmettere conoscenze piuttosto che a favorire progetti dl costruzione dl cono­scenza... Per il ragazzo in condizioni di handicap in molti casi si utilizzano metodi basati esclusiva­mente sull'imitazione e sul condizionamento per raggiungere obiettivi eccessivamente specifici, senza curarsi di ottenere un miglioramento com­plessivo della qualità della vita».

Numerose ricerche condotte soprattutto negli Stati Uniti, viceversa, consigliano di privilegiare programmi di intervento aventi caratteristiche ecologiche, il più possibile cioè collegati all'am­biente del soggetto, evitando situazioni artifi­ciose.

«L'handicap - ha proseguito - non è una si­tuazione statica ma una situazione che può e de­ve essere modificata. Le moderne tecnologie possono consentire al disabile di superare alme­no in piccola parte la necessità di dipendere da­gli altri, ma la legislazione diventa a volte un ostacolo al raggiungimento di questo obiettivo». La stessa richiesta generalizzata di insegnanti di sostegno, secondo Faloppa, non si muove in un'ottica di educazione all'indipendenza.

Anna Contardi, coordinatrice dell'Associazio­ne Bambini Down (ABD), ha sottolineato che «benché tutti abbiano detto giustamente che l’im­parare è una cosa che si può iniziare ad ogni età, va anche riaffermato con forza che l'educazione all'autonomia deve nascere il più presto possibi­le: non è soltanto una necessità che nasce dal vi­vere quotidiano, ma è anche uno spazio reale di crescita». L'adolescenza è il momento cruciale nella crescita dell'autonomia: «È un momento di disagio perché bisogna riappropriarsi di chi si è. Anche gli handicappati mentali diventano grandi e c'è un grosso bisogno che le famiglie vengano aiutate a riconoscerlo. Per questo 1'ABD ha scelto gli adolescenti come interlocutori, nel momento in cui si passa dalla scuola dell'obbligo a chissà cosa».

Il corso di educazione all'autonomia, promos­so dall'ABD, non è una scuola; è rivolto in un contesto di tempo libero, a ragazzi dai 15 ai 20 anni, una volta alla settimana, e ha come obietti­vo cinque aree di intervento, che riguardano prevalentemente comunicazione e orientamen­to, con interventi individuali e di gruppo. Ai ra­gazzi è stato proposto un contesto di riferimento che li aiutasse ad identificarsi come grandi: l'ap­partenenza a un club, con tessera, distintivo, re­golamento scritto da loro; uno spazio in cui le famiglie non c'entrano. Una caratteristica meto­dologica importante, è il contesto della motiva­zione; dopo la stanchezza di una scuola spesso staccata dalla realtà, il clima di verità ha un dop­pio effetto positivo: rinforza le energie e la co­scienza di essere preso sul serio, di essere considerato grande.

Mario Tortello, giornalista de La Stampa di To­rino e direttore di Quaderni di Promozione Socia­le, ha quindi ricordato che «la verifica di una atti­vità educativa deve sempre servire a rilanciarla, come infatti avviene in questa sede rilanciando il tema della educazione all'autonomia negli handi­cappati. Guardando il video mi tornavano alla mente due espressioni di un libro che riferiva su un'esperienza romana dei primi anni '70: Impara­re a parlare per conversare con chi? Imparare a camminare per andare dove? Questo è 1'interro­gativo di fondo che, sulle sollecitazioni di stama­ne, ci coinvolge tutti». Facendo riferimento alla Carta costituzionale, Tortello ha continuato: «Il diritto e il dovere al lavoro è il fulcro attorno al quale dobbiamo costruire una nuova cultura dell'integrazione delle persone handicappate... Gli interventi assistenziali devono essere riservati solo a quelle persone che non sono assoluta­mente in grado di svolgere alcuna attività lavora­tiva... Troppo spesso la persona con handicap viene identificata dai media come un assistito a vita, non come un cittadino, un protagonista».

Ha, poi, aggiunto: «Il diritto al lavoro e il diritto alla formazione in corsi prelavorativi si basano su un elemento non ancora pienamente acquisito, cioè il diritto al lavoro anche per gli handicappati con ridotta capacità lavorativa; nella legge nazio­nale che riguarda la materia della formazione professionale degli handicappati vi è, su questo aspetto, solo una affermazione del tutto generi­ca».

Fausto Giancaterina, responsabile del Servizio handicap e disagio mentale del Comune di Ro­ma ha, dal canto suo, sottolineato che la espe­rienza dimostra come si possa lavorare al me­glio tra un servizio pubblico e le energie di un'istituzione in certo senso privata, e come l'assistenza domiciliare possa essere non solo assistenza, ma anche un motore della imposta­zone riabilitativa. Ha inoltre espresso preoccu­pazione relativamente alla stesura della legge­quadro sull'handicap, che non individua nessu­no tra gli enti pubblici che si faccia carico della situazione relativa all'handicap e che, in inter­venti ancora frammentari, ripropone la separa­zione tra sociale e sanitario. «C'è bisogno - ha concluso - di una rete sistematica di servizi per allargare le esperienze che abbiamo ascoltato oggi, perché non restino soltanto esperienze pi­lota».

Pierluigi Consorti, della Comunità di S. Egidio, ha anzitutto ricordato come molti degli interventi avessero mostrato una convergenza nell'affer­mazione della possibilità di educare gli handi­cappati mentali, e in particolare di educarli all'autonomia. «Possibilità su cui molti trovereb­bero difficoltà a dichiararsi d'accordo - ha detto - anche se qui stamattina sembra cosa scontata. Non a caso le esperienze di educazione speciale trovano ancora oggi molti sostenitori».

Dopo aver ripercorso alcune tappe significati­ve nella storia della pedagogia legata all'handi­cap, ha affermato che si assiste oggi ad una fa­se di stasi del dibattito. «Ne è esempio evidente la lentezza con cui vengono trattati in sede legis­lativa i temi inerenti agli handicappati. L'espe­rienza della nostra comunità, come anche altre esperienze, si innestano nella volontà di abbatte­re il pregiudizio all'origine dell'eterno ritornello: a questo punto non c'è più niente da fare. Non vo­glio negare l'esistenza di difficoltà, e tanto meno quella di un limite, ma affermo che il limite può essere spostato in avanti. Direi infatti che non esiste nessun limite ultimo se non nell'idea dell'operatore che crede di non poter fare di più».

Ribadendo la necessità di rilanciare il dibattito anche su basi scientifiche, nelle sedi opportune, e di cambiare la mentalità di insegnanti, genitori, operatori, ha concluso: «L'educazione all'auto­nomia è necessaria non solo per 1'handicappato, ma per tutti. Se educare è possibile, educare all'autonomia costituisce una sfida ineludibile, e bisogna raccoglierla».

Ha concluso la tavola rotonda Enrico Garaci, Rettore dell'Università di Roma - Tor Vergata e presidente del Comitato per la biologia e medi­cina del CNR. «L'handicappato non deve essere solo oggetto di assistenza, ma soggetto che par­tecipa a tutte le attività della vita civile. Con altret­tanta convinzione va smentito il pregiudizio che esista un limite di tempo oltre il quale dilaghi l'ir­recuperabilità, che esista 1'incurabile».

Di fronte al fatto che la ricerca conforta il con­cetto di educabilità in ogni età, si è poi chiesto il prof. Garaci, come mai non si è fatto nulla? Co­me mai l'affermazione di ciò che dovrebbe esse­re naturalmente accettato viene invece a suona­re come una provocazione?

Si fa poca ricerca in questo settore, e quella che si fa non viene trasferita a livello applicativo. Occorre creare una cultura generalizzata, coin­volgere in senso attivo la comunità. Tutto va fatto perché qualsiasi cittadino abbia diritto al lavoro, alla formazione, all'inserimento, dopo l'obbligo scolastico. In primo luogo occorre potenziare la ricerca: quella pedagogica e quella medica van­no reciprocamente trasferite per stimolare il più possibile il concetto dell'interdisciplinarietà.

 

 

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