Prospettive assistenziali, n. 96, ottobre-dicembre 1991

 

 

Specchio nero

 

 

IL DOWN: UN SOTTOUOMO?

 

Ci risiamo. Una notizia di cronaca (il caso di una coppia di Rovereto che decide di «non ri­conoscere» il proprio figlio Down) non diventa occasione per gli organi di stampa per approfondire i problemi dell'handicap e, in specifico, delle famiglie che vivono una intera esistenza accanto ad un congiunto handicappato intellettivo, ma resta un pretesto per una informazione-spettacolo, dove ogni responsabilità viene cercata sem­pre nell'atteggiamento dei singoli e dove ogni caso non è mai ricondotto ad un discorso sociale superando quello solo personale e familiare.

C'è di più. Spesso, sono proprio certi «intellettuali» - i «tuttologi» che dalle pagine dei mass-media sentenziano giorno per giorno sui temi più disparati e quanto mai lontani fra loro; come mai faranno a darsi questa cultura enciclopedica? - a rafforzare gli stereotipi o a limi­tarsi a riprenderli senza confutarli.

Ferdinando Camon, sulle pagine de «La Stam­pa», ha commentato l'8 novembre scorso pro­prio il caso del bimbo Down di Rovereto, con l'articolo che riportiamo per intero a documen­tazione dei lettori (1).

Purtroppo, non si tratta di un atteggiamento isolato nel panorama dell'intellighentia italiana. Nell'83, Carlo Bo, uno dei principali esponenti della nostra cultura umanistica, ha commentato sul «Corriere della Sera» una sentenza del Tri­bunale civile di Milano con la quale si è stabi­lito che le aziende sono obbligate a assumere hand-icappati psichici (Cfr.: Prospettive assistenziali, n. 64, ottobre-dicembre 1983, pp. 70-71), scrivendo fra l'altro: «Non si discute la sentenza (...). Ciò che invece non possiamo nascondere è la questione che ci investe direttamente, mettendoci al posto non tanto del datore di lavoro quanto di quello degli eventuali compagni di lavoro, chiamati ad una prova alla quale la società certo non li ha preparati né educati. Che cosa faremmo noi se ci trovassimo in una situazione del genere? (...). Penso che prima di dire: sì, sono disposto alla prova, molti di noi si troverebbero in grave imbarazzo, soprattutto perché non riu­sciamo a immaginare neppure il grado e il peso della prova, mentre abbiamo ben presente quanto sia già difficile la convivenza fra normali» (sic!).

Più di vent'anni fa, veniva pubblicato il libro di Nigel Hunt, tradotto in italiano solo nel 1987 (cfr.: N. Hunt, Il mondo di Nigel Hunt, Edizioni Dehoniane, Bologna). Hunt è una persona Down, un «mongoloide». Sino ad allora, nessuna perso­na Down aveva scritto un libro. Hunt ha smenti­to così l'ideologia scientifica che faceva del Down un incapace a raggiungere la simbolizzazione, un incapace a raggiungere la scrittura e i numeri.

Proprio in quegli anni, un teologo scriveva sull’Osservatore Romano (cfr.: L'Osservatore della Domenica 26 gennaio 1969; l'intervento è di mons. Ferdinando Lambruschini) un articolo a proposito della nascita di bambini handicappati, dicendo che era moralmente lecito non ricorrere all'incubatrice nel caso di «prole anomala, ad esempio mongoloide», ritenendo eticamente ammissibile l'omissione di detta prestazione, anche nel caso in cui l'omissione stessa determinasse la morte del bambino.

Oggi, nella comunità scientifica internazionale, il Down non è più considerato «grave». Forse, alla nostrana intellighentia, farebbe bene la let­tura de «II mondo di Nigel Hunt».

 

 

 

(1) A Rovereto è nato un bambino Down (ieri si diceva «mongoloide») e i genitori l'hanno rifiutato. Adesso avrà un nome inventato dall'ufficiale dell'anagrafe e potrà es­sere adottato da chiunque. I genitori non l'hanno rifiutato per ragioni economiche, ma psicologiche e sociali. Che ci riguardano tutti. Vediamole.

Il bambino handicappato è visto come il sottouomo del nostro tempo; in un tempo in cui la vita è una gara, questo bambino nasce ed ha già perso. Ma c'è handicap ed handi­cap. L'handicap fisico ha trovato mille rimedi, il bambino zoppo o cieco o monco non è fuori gara; corre anche lui in una corsa a parte. Ma l'handicap intellettivo è una squa­lifica; chi nasce con un blocco all'intelligenza non soltanto non vive la propria vita, ma paralizza la vita di tutta la fa­miglia, genitori, fratelli. Il bambino Down appare, e la vita dei tre-quattro famigliari si spegne di colpo.

La sua nascita è perciò l'opposto di ciò che la madre si attendeva. Oggi la nascita non è più accolta come un fatto naturale e misterioso, ma è guidata come un fatto cultu­rale. Si sa che il bambino nell'utero usa i sensi, prima il tatto (toccato con uno strumento sulla bocca, la raggrinzi­sce fin dal terzo mese; toccato all'interno delle dita, le piega per qualche secondo), poi il gusto (se si inietta dello zucchero nel liquido amniotico, succhia, se si introduce una sostanza amara, serra le labbra), poi l'udito (sente il battito cardiaco della madre, il suo respiro, i rumori che si produ­cono a un metro, un metro e mezzo da lei; se madre e pa­dre litigano ad alta voce, il suo cuore accelera; è stato scritto che il bambino sta nell'utero come un adulto in di­scoteca). L'uomo non lo sa (la paternità è un'esperienza sciocca) ma la donna lo intuisce fin da bambina: la ma­ternità è un'esperienza fondante per la sua esistenza, per la simbiosi tra madre e figlio quando il figlio è nell'utero. Ogni madre sogna di partorire un bambino ideale, un bam­bino eccezionale, un bambino genio. In quei contatti pre­natali, in cui lei gli trasmette zuccheri, sali, emozioni, mes­saggi, si rafforza l'attesa per il grande momento in cui il super bambino apparirà, e la vita dei genitori farà un balzo: ed ecco, alla coppia di Rovereto, uscire un sotto-uomo, e la loro vita venire inabissata. Non hanno accettato, non ce l'han fatta. Fino a ieri (pochi anni fa) la vita era ancora un miracolo, oggi il miracolo è la vitalità: la vita non vi­tale, non dominante, è un male. Lo pensano i genitori, mol­ti. F non per egoismo: ci sono genitori che, se sanno che il figlio che partoriranno li odierà e li ucciderà, non per que­sto abortiscono, ma se sanno che starà male, soffrirà a dismisura, odierà se stesso e si ucciderà, allora si, allora sono pronti ad abortire. È il caso di Rovereto? Sì: il rifiuto del bambino appena nato è in sostanza un aborto postumo. Nella scienza del parto si parla da tempo di due gravidan­ze, una interna (nove mesi) e una esterna (altri nove, fino allo svezzamento: il bambino dovrebbe stare continuamen­te attaccato e appoggiato al corpo materno): il bambino veramente accettato, veramente nato, è solo quello che le ha avute tutt'e due. Il bambino di Rovereto è stato abban­donato prima della seconda. Disconoscendolo, i genitori g11 dicono: «Non sappiamo chi sei, non sei nostro figlio».

Ma è una soluzione, il disconoscimento? No di certo. È giusto che di questi casi si occupi la società, ma non è giusto che la coppia sparisca e si nasconda: il bambino dovrebbe sempre poterla trovare. È la sua origine. II male che è in questa origine non è un errore della coppia, ma della natura: e la lotta contro la natura non è un compito dell'individuo, ma dell'umanità.

Ferdinando Camon

 

 

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