Prospettive assistenziali, n. 96, ottobre-dicembre 1991

 

 

Libri

 

 

RAFFAELLO MAGGIAN - GIUSEPPE MENICHETTI, La gestione dei servizi sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1988, pp. 200, L. 24.000.

 

II decreto del Ministro della pubblica istru­zione 30 aprile 1985, Ordinamento delle scuole universitarie dirette a fini speciali per assistenti sociali, include tra le discipline obbligatorie da impartire in tali scuole, la programmazione, amministrazione e organizzazione dei servizi sociali e la colloca tra le «discipline professionali caratterizzanti la scuola», insieme a principi e fondamenti del servizio sociale, metodi e tecniche del servizio sociale, ricerca applicata al servizio sociale e politica dei servizi sociali.

Si tratta di una materia che sintetizza tutta una serie di acquisizioni teoriche e operative sulle operazioni necessarie per creare, far fun­zionare e modificare i servizi sociali secondo criteri di razionalità, efficacia ed efficienza, in attuazione di valori, principi e obiettivi stabiliti dai soggetti responsabili della politica dei servizi sociali, nel contesto della più vasta politica sociale dello Stato.

Il testo si articola in tre parti. Nella prima si procede ad una elencazione dei servizi sociali e degli enti gestori, ponendo in risalto i valori, i principi e gli obiettivi ai quali gli stessi devo­no attenersi, secondo le leggi vigenti. La secon­da parte descrive criteri e metodi di analisi dei programmi e fornisce elementi di carattere me­todologico per la costruzione di un sistema in­formativo socio-assistenziale. Inoltre, analizza l'assetto territoriale e organizzativo dei servizi sanitari e socio-assistenziali nell'attuale realtà italiana. La terza parte si sofferma su temi più propriamente gestionali quali gli aspetti finan­ziari, l'utilizzo del personale, la documentazione, la direzione e il coordinamento.

 

 

PATRIZIO CAMPANILE - MAURO POLACCO - LU­CIO ZANE, Disagio psichico in adolescenza - in­dagine epidemiologica, Marsilio Editori, Venezia, 1988, pp. 135, L. 18.000.

 

Il Servizio di neuropsichiatria infantile della ULSS 36 - Regione Veneto ha promosso nel 1985 una ricerca sul disagio psichico giovanile.

Obiettivi immediati e specifici di tale ricerca sono stati:

- reperimento di informazioni, nel territorio

dell'ULSS 36 Terraferma Veneziana, negli anni 1982 - 1983 - 1984, su caratteristiche, dimensio­ni e distribuzione territoriale della popolazione undici/ventenne che esprime un disagio psico­logico o si trova in una necessità di natura psi­chiatrica;

- approfondimento delle strategie d'inter­vento impiegate dai vari servizi analizzati nell'affrontare e cercare di risolvere siffatti proble­mi, nonché un'analisi delle risorse attualmente disponibili.

Quattro sono dunque gli elementi che sono stati messi a confronto fra di loro: territorio, servizi dell'ULSS 36, diagnosi e relativi inter­venti proposti dai servizi.

Dai risultati di tale ricerca si possono eviden­ziare due significative tendenze nell'attuale or­ganizzazione sanitaria: la mancata integrazione dei servizi che operano, in modo prevalentemen­te separato e scisso rispetto agli altri e l'ogget­tiva sottovalutazione del fenomeno «sofferenza psichica giovanile» che si traduce talvolta in negazione dei problemi. Infatti pur rivolgendo una grande attenzione alla adolescenza e alle sue difficoltà, con i rischi che corrono o che pos­sono correre i giovani d'oggi, non corrisponde una analoga attenzione ai bisogni dei giovani nel campo della salute mentale.

Il volume, dedicato a Giacomo Brugnone, può contribuire a quanti, amministratori e operatori, essendo a contatto con i giovani, possono co­gliere segni di difficoltà e di sofferenza.

 

 

OSCAR CORLI (a cura di), Una medicina per chi muore - Il cammino delle cure palliative in Italia, Città Nuova Editrice, Roma, 1988, pp. 220, L. 15.000.

 

A cominciare dai Paesi anglosassoni, si è an­dato sviluppando un movimento destinato a sconvolgere il modo in cui la medicina di oggi è solita trattare i malati che non guariscono. È na­ta così la medicina palliativa, ovvero la medicina per il malato che va verso la morte. La capacità di «prendersi cura», anche quando non si può guarire, costituisce l'altra metà della medicina. Presuppone un'attenzione diversa al malato, nel­la pluralità dei suoi bisogni: quello di tenere sotto controllo il dolore, in primo luogo; ma an­che i bisogni psicologici e spirituali, sociali e relazionali. Si esercita attraverso la comunica­zione, il contatto, il rapporto umano, l'accompa­gnamento. Prevede, oltre al medico, un'équipe composta di infermieri domiciliari, psicologi, as­sistenti sociali, volontari, cappellani. Si rivolge al malato, ma anche alla sua famiglia, e prolun­ga l'assistenza anche dopo il decesso, nel perio­do del lutto.

Il volume presenta le prime realizzazioni di medicina palliativa in Italia. Dopo una prima par­te dedicata ad illustrare che cosa comporta un programma di assistenza alle persone grave­mente malate e alle loro famiglie, vengono pre­sentate le diverse figure professionali che fan­no parte dell'équipe di cure palliative e i Centri nei quali si esercita la medicina palliativa oggi in Italia. Dalla pluralità degli interventi - alcu­ni più «tecnici», altri più personali, ma tutti rifer­iti alla pratica - si delinea la possibilità con­creta di rendere più umano il morire.

 

 

L. CICCONE C.M., Anziani e handicappati - Due sfide alla società civile e alla comunità cristiana, Elle DI CI, Leumann (Torino), 1987, pp. 152, L. 10.000.

 

Concordiamo con l'Autore che occorre «ave­re l'inventiva e il coraggio per avviare decisa­mente un cammino verso una società nuova, de­gna dell'uomo, rispettosa della dignità di ogni essere umano, quali che siano le sue condizio­ni».

Ma, a nostro avviso, occorre in primo luogo, individuare i responsabili principali della emar­ginazione dei più deboli.

L'Autore crede di trovarli nei «comportamen­ti riprovevoli diffusi nelle famiglie» che deter­minerebbero da parte dei figli l'abbandono affet­tivo dei genitori e il loro ricovero coatto in case di riposo.

Per quanto riguarda gli «anziani che comin­ciano a non essere più pienamente autosuffi­cienti», il comportamento più diffuso nelle fa­miglie viene così delineato: «Di fronte al na­scere del problema all'interno della famiglia, questa dimostra in genere poca conoscenza del­le alternative al ricovero in istituto per cronici, soluzione che viene cercata affannosamente in­calzati da una situazione che pare precipitare nel giro di pochi giorni (dimissione ospedaliera, assenza per lavoro o vacanze, ecc.)».

L'Autore non dice una sola parola sulle gra­vissime carenze dei servizi sanitari domiciliari (quasi ovunque del tutto assenti, se si escludo­no (e prestazioni dei medici di base) e richiama solamente gli interventi di assistenza sociale concernenti il governo della casa, l'aiuto alle persone e la stimolazione alla vita socio-rela­zionale.

Nessuna informazione, inoltre, fornisce sul diritto degli anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie comprese, occorrendo, quel­le ospedaliere.

Dichiara di fornire (cfr. pag. 50) i dati stati­stici relativi agli anziani ricoverati in istituto, mentre in effetti riporta quelli relativi a tutti gli assistiti (minori, adulti, anziani).

Sul problema degli handicappati l'Autore af­ferma che «in base a ricerche su singole forme di handicap gravi, cioè per i quali non appare proponibile una qualsiasi forma di inserimento scolastico (...), non si è lontani dal vero quando si afferma che (...) colpiscono circa 750.000 sog­getti del nostro paese». Si tratta di cifre inven­tate di sana pianta, come del tutto immotivato (e gravemente emarginante) è il pregiudizio sulla non proponibilità dell'inserimento scola­stico per i soggetti gravi e gravissimi.

Per quanto riguarda il ricovero in istituto, è preoccupante che l'Autore continui a ritenerlo un intervento positivo. A questo riguardo, con­tinuiamo a ritenere che i ricoveri devono essere evitati in tutta la misura del possibile fornendo agli handicappati e alle loro famiglie i neces­sari sostegni economici e sociali.

Nei casi, in verità molto limitati, in cui sia ne­cessaria una struttura residenziale extra fami­liare, riteniamo che le comunità alloggio di 6-8 posti abbiano ampiamente dimostrato la loro validità.

 

 

COMUNITA DI SANT'EGIDIO, L'età più lunga - Anziani: dall'abbandono alla solidarietà, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagine 124, L. 10.000.

 

Il libro che raccoglie gli atti dei convegno di studi «Anziani fra violenza e abbandono - Per­ché non sia più così», svoltosi a Roma nel gen­naio 1990, ha alle spalle il lavoro e la sensibilità maturata dalia Comunità di Sant'Egidio in quasi vent'anni di lavoro con migliaia di anziani in dif­ficoltà a Roma, Napoli, Genova e in tante altre città.

Il Cardinale Carlo Maria Martini, dopo aver affermato che «sedare gli anziani perché stiano buoni nel loro letto, tranquilli, da soli, colpirli, insultarli o ignorarli non prestando loro ascolto, costringerli, far mancare loro ciò che serve, non dare loro a sufficienza da bere o da mangiare; tutte queste cose drammatiche che purtroppo accadono», in merito alle «responsabilità che coinvolgono in modo particolare i cristiani», e all'esigenza di «modificare i comportamenti che possono determinare, incoraggiare, nascondere la violenza e l'abbandono», ha precisato quanto segue: «Penso a molti istituti direttamente ge­stiti dalla Chiesa o da altri a essa collegati che devono mostrarsi all'altezza di un imperativo morale che impone il rispetto delle persone e delle norme vigenti nel Paese. Assicurare a qual­cuno un futuro in istituto era qualche tempo fa un atto di carità: non c'era sicurezza di un allog­gio e del vitto. Oggi per molti non è più così. L'istituto può ridurre anziché allargare le spe­ranze di vita. Si deve fare di tutto per curare a casa».

Molto importanti anche le altre relazioni (Sto­rie di ordinario abbandono di Andrea Bartoli; Storie di ordinaria solidarietà; Risorse sociali e salute dell'anziano di Augusto Panà, M. Cristina Marozzi, Leonardo Palombi e Sandro Mancinelli; Diritti degli anziani, diritti di tutti, di Massimo Dogliotti; Le risposte possibili a un abbandono non necessario di Silvia Marangoni).

Un capitolo è dedicato a un giro di orizzonte europeo con relazioni concernenti la situazione degli anziani in Gran Bretagna, Francia, Germa­nia e Italia.

 

 

ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI DEGLI ANZIANI - UIL PENSIONATI, La violenza contro gli anziani - Dove, chi la fa, perché, che cosa fare, Edizioni Circolo d'Europa, 1991, pp. IX+94, senza indica­zione di prezzo.

 

Nel convegno, svoltosi a Milano il 19 gennaio 1991, di cui il volume raccoglie le relazioni, è stato denunciata la violenza che, secondo Gra­ziana Delpierre della UIL Pensionati, «corrode la società e rischia di trascinarla verso l'imbar­barimento».

Particolarmente interessanti le affermazioni del Colonnello Rossetti, Comandante del Nucleo Antisofisticazione, che, in merito alle case di riposo, ha dichiarato: «Molte strutture ispezio­nate risultavano abusive, attivate in edifici fati­scenti, prive dei più elementari servizi e oltre­modo affollate. Veniva usato olio di colza, alta­mente nocivo, in luogo di olio di oliva nella pre­parazione dei cibi. Ancora, anziani alloggiati uni­tamente a malati di mente». Inoltre: «Una ca­mera mortuaria adibita a deposito di derrate alimentari; medicinali scaduti e deteriorati; strutture sprovviste di qualsiasi autorizzazione, attivate in edifici vetusti e decrepiti, tanto da costituire, in alcuni casi, grave pericolo per la integrità fisica degli occupanti; carente assi­stenza e quasi abbandono dei ricoverati (...). In una casa di riposo dieci anziani legati al propri letti con bende da medicazione e siamo ad Ales­sandria, quindi non nel profondo sud, ma in una zona che ha un indice di sviluppo molto elevato rispetto ad una zona dell'agrigentino o della mia provincia di Lecce o della Calabria. Bisogna es­sere onesti anche nel dire certe cose. In un altro ospizio, tre anziani chiusi a chiave in pessime condizioni igieniche, con le pareti e gli infissi dei bagni completamente sporchi di feci; poteva essere un rifugio per bestie e non per nostri si­mili. Ancora 19 anziani ospitati in sole 5 angu­ste camere peraltro in pessime condizioni igie­nico-strutturali, e sempre tanto tanto abusivi­smo, compendiato in ben 62 proposte di chiu­sura».

Le altre relazioni sono state tenute da Vito Noto, Andrea Bartoli, Ida Marie Hydle, Giovanni Nervo, Carlo Hanau, Carlo Trevisan, Enrico Cogno.

Le conclusioni sono state svolte da Silvano Miniati, Segretario generale della UIL Pensio­nati.

Preoccupanti le dichiarazioni di Antonio Pen­nino, Presidente del Gruppo parlamentare dei PRI, che, in merito alle esigenze degli anziani cronici non autosufficienti, non ha fatto riferi­mento al diritto alle cure sanitarie, ma alle pre­stazioni di assistenza sociale.

 

 

FRANCA OLIVETTI MANDUKIAN, Stato dei ser­vizi - Un'analisi psicosociologica dei servizi so­cio-sanitari, Il Mulino, Bologna, 1988, pagine 195, L. 20.000.

 

Nell'analizzare i servizi l'Autrice fa confusio­ne fra settore sociale e comparto socio-assisten­ziale e cioè fra le prestazioni dovute (attualmen­te o in prospettiva) a tutti i cittadini e gli inter­venti da erogare solo agli inabili al lavoro sprov­visti di mezzi necessari per vivere (art. 38 della Costituzione).

Vi sono affermazioni stupefacenti. Ad esem­pio:

a) sarebbe l'art. 38 della Costituzione che ga­rantirebbe il «rispetto e promozione di un plu­ralismo del sistema assistenziale, sanitario e sociale», mentre detto articolo riguarda solo l'assistenza sociale e la previdenza;

b) secondo l'Autore «le prestazioni assisten­ziali fornite nell'area privata, anche se sostenu­te da contributi finanziari pubblici, possono es­sere sottoposte soltanto a controlli di tipo molto generale: se ne può cioè apprezzare l'entità In termini quantitativi o si possono rilevare com­portamenti giuridicamente passibili di imputa­zione; risultano inapplicabili verifiche dl tipo più qualitativo, riguardanti ad esempio la professio­nalità degli operatori o la loro stessa formazio­ne di base». In realtà, mentre nessuna norma vieta al Parlamento e alle Regioni di definire standards minimi riguardanti la qualità delle prestazioni e la formazione di base richiesta per il personale, le Unità locali, i Comuni, le Provin­ce e le Comunità montane hanno la più ampia discrezionalità per quanto concerne l'inserimen­to nelle convenzioni con gli enti privati di tutte le indicazioni ritenute necessarie per garantire agli utenti prestazioni valide sotto il profilo quan­titativo e qualitativo.

Se poi il Parlamento e le Regioni non vogliono definire gli standards e se gli enti pubblici affi­dano al settore privato compiti di assistenza senza prevedere alcuna norma, allora bisogne­rebbe dire a chiare lettere che si tratta non di impossibilità ma di omissioni volute;

c) non è assolutamente vero che con la legge 180/1978 «vengano chiusi i manicomi». È noto che ancora oggi in dette strutture vi sono mi­gliaia di soggetti.

In sostanza, il libro non ci sembra essere ido­neo per una conoscenza adeguata dei servizi socio-sanitari.

 

 

J.H. HENDERSON - T. HOLDIN - C.O. MOUNTJOY (a cura di), I disturbi mentali degli anziani, Aldo Primerana Editrice Tipografica, Roma, pp. 175, L. 25.000.

 

Il libro è diretto agli operatori del settore, ma non tralascia di affrontare anche le implicazioni politiche che investono gli amministratori pub­blici. Non mancano, infatti, utili indicazioni per una politica sanitaria più attenta ai bisogni delle persone anziane, che sono colpite da disturbi mentali.

Innanzitutto viene ridimensionato 1’allarmismo creatosi attorno al fenomeno dell'aumento della popolazione anziana, e, dagli scritti dei qualificati studiosi che hanno curato la stesura del libro per conto dell'Organizzazione Mondia­le della Sanità, emerge che è falso lo stereotipo per cui «il deteriorarsi dovuto all'invecchiamen­to sia universale ed inevitabile» ed è «falso che, a causa dell'età, tutti gli anziani sono desti­nati ad ammalarsi, impoverirsi, allontanarsi dal­la società».

La questione delle risorse da investire per la assistenza sanitaria va affrontata considerando anche questi elementi, per garantire effettiva­mente agli anziani malati - che sono pochi - tutte le cure sanitarie di cui necessitano, anche se «ciò richiede una serie di scelte politiche che non sempre sono popolari, e, inoltre, può richiedere un aumento, o almeno una ridistribu­zione delle risorse che la società mette a dispo­sizione dei suoi anziani malati».

Circa il luogo delle prestazioni sanitarie, è si­gnificativo che «la maggioranza dei dementi non è istituzionalizzata, ed è stato trovato che tra il 59 e l'87% dei malati vive in casa». Ne consegue che, a fronte anche degli indubbi vantaggi che ricava l'ammalato se resta nel proprio ambiente «negli stadi avanzati della demenza, sarà meglio rivolgere l'attenzione al sostegno della persona che si occupa del demente», con l'attivazione - fin che è possibile - di un idoneo servizio sani­tario domiciliare.

Importante, a nastro avviso, è l'approccio me­dico con cui gli studiosi hanno affrontato, oltre alle note malattie di natura psichiatrica, anche la demenza senile.

È indubbio che la demenza senile è una pato­logia e che l'anziano che ne è colpito non può che essere un «paziente da curare». Il ricovero - se necessario - deve essere realizzato in strutture che garantiscano all'anziano malato tut­te le cure e le prestazioni sanitarie di cui abbi­sogna: ospedali o analoghe strutture sanitarie.

Il libro è utile in quanto, oltre ad affrontare gli aspetti della malattia mentale e dell'invecchia­mento sul piano scientifico, offre valide indica­zioni pratiche e tecniche.

 

 

AA. VV., L'ascolto che guarisce, Cittadella Edi­trice, Assisi, 1989, pp. 198, L. 17.000.

 

I volume raccoglie i contributi di un incontro tra operatori della salute - medici, infermieri, assistenti sociali, psicanalisti, psicoterapeuti, operatori pastorali -, svoltosi nella Cittadella di Assisi sul tema dell'ascolto.

Due sono gli atteggiamenti principali di chi, a diverso titolo, è impegnato nell'offrire aiuto tera­peutico: la convinzione di saper ascoltare, oppu­re il dubbio sulle proprie capacità di ascolto. La complessità della condizione umana complica però questo schema lineare, e gli operatori, di fronte alla richiesta di aiuto, finiscono col sen­tirsi sufficientemente malati nell'ascolto da vo­ler guarire, e sufficientemente sani da voler guarire gli altri.

Una volta presi all'amo dall'invocazione, gli operatori più sensibili avvertono che il males­sere denunciata dal paziente ha dimensioni più profonde sovente sconosciute allo stesso richie­dente. Infatti, quando si è aggrediti da una ma­lattia non è solo la parte colpita a soffrire. L'in­tera persona va in crisi. La richiesta di aiuto anche inconsapevolmente si carica oltre che dl esigenze personali, di esigenze interpersonali, transpersonali, religiose, cosmiche.

In questa lettura di richiesta di aiuto è scon­tato che i professionisti della salute, per quanto perfezionino la loro capacità dì ascolto, non col­meranno mai la misura del desiderio di essere ascoltato di chi li interpella. Non ci si sente mai ascoltati abbastanza perché la nostra domanda veicola esigenze che vanno ai di là di noi stessi. L'atteggiamento migliore sia da parte del mala­to, sia da parte dell'operatore, sembra quello di impegnarsi a un rapporto interpersonale, aperto a una benefica reciprocità.

Costantemente tallonate dalle esigenze di un ascolto pieno, le professioni della salute trova­no in esso il motivo irriducibile della loro gran­dezza e delle loro miserie.

(dalla presentazione)

 

 

VOLKER HUNECKE, I trovatelli di Milano - Bam­bini esposti e famiglie espositrici dal XVII al XIX secolo, Il Mulino, Bologna, 1989, pagine 363, L. 40.000.

 

Lo studio storico di Hunecke esamina un cam­pione rappresentativo di bambini accolti in isti­tuzioni per l'infanzia abbandonata: i 350.000 bam­bini accolti nel brefotrofio di Milano tra il 1659 e il 1900.

I dati sono stati raccolti, per la maggior parte, dall'archivio dell'anagrafe milanese.

L'Autore stesso individua, nell'opera ottocen­tesca «Ragionamenti storico-economico-statisti­ci e morali intorno all'ospizio dei trovatelli di Milano», edita a Milano nel 1844 e frutta del la­voro di A. Buffini, direttore del brefotrofio fino al 1845, un prezioso e valido antecedente. Egli intende però approfondire un aspetto trascurato dalle numerose altre opere storiche sull'argo­mento dell'infanzia abbandonata e delle istitu­zioni ad essa indirizzate: l'identità dei genitori «espositori».

La chiarificazione di questo aspetto, impossi­bile in altri casi a causa della carenza di dati presenti negli archivi dei brefotrofi, è stata resa possibile dalla disponibilità di altri archivi della città.

Grazie a questi documenti, è stato possibile all'Autore ricostruire la configurazione di intere famiglie.

Per avere un'idea dell'entità del fenomeno, ba­sta ricordare che nel quarto decennio del 1800 venivano esposti quasi un terzo di tutti i neonati della città di Milano. Fra i trovatelli accolti all'istituzione nel 1843, i milanesi erano 1.046, di cui il 74% di nascita legittima, e quindi abban­donati, anche solo temporaneamente (i bambini sopravvissuti spesso venivano riconosciuti dai genitori quando ormai erano già cresciuti) a cau­sa, molto spesso, della miseria.

Un'altra percentuale di «espositori» si trova fra le madri lavoratrici povere; «fra gli "esposi­tori" mancavano completamente le classi bene­stanti e, all'altra estremità della scala sociale, le famiglie del sottoproletariato» (p. 200).

Altri argomenti approfonditi nello studio sono: i modi di esposizione, i segni di riconoscimento, il tasso di mortalità, le restituzioni, le diverse strategie dell'abbandono.

 

 

VITTORINO ANDREOLI, Dentro un barbone, Edi­zioni Sonda, Torino, 1989, pp. 72, L. 14.000.

 

L'autore prende spunto da un fatto di cronaca per raccontare la vita di un barbone morto per overdose.

La condizione disumana in cui si trova a vivere «Flash», il barbone protagonista della storia è presentata in tutta la sua crudezza, ma l'autore non sa bene quale posizione prendere. Passa dal ritenere il barbone una persona in fondo fortu­nata, perché libera dalla schiavitù delle regole e del potere; a colpevolizzarlo per non aver colto l'opportunità di un aiuto offerta dagli enti pub­blici e privati di assistenza; al condannare gene­ricamente l'indifferenza generale di tutti (e quin­di di nessuno) per averlo seppellito e dimenti­cata già quando era in vita.

Un libro che poteva essere utile, ma non lo è, per aprire un dibattito non tanto sul barbone adulta, ma sulle molte occasioni di diventarlo che hanno tanti bambini e giovani che sono la­sciati a se stessi, per mancanza di interventi precoci.

La stessa storia di Flash offriva uno spunto al riguardo: orfano, finito in istituto, abbandonato a se stesso appena un po' cresciuto...

Davvero è stata una sua libera scelta l'essere un barbone?

Se Flash fosse stato adottato o affidato ad una famiglia ancora bambino, oggi molto probabilmen­te sarebbe ancora in vita e di certo non avrebbe «scelto» di fare il barbone.

Non serve molto - a parte il caso singolo - soffermarsi sulle tristi vicissitudini di chi oggi è un adulto problematico e/o disadattato, per cercare con una buona dose di ipocrisia di ren­derlo almeno accettabile...

Meglio sarebbe se ci si interrogasse più seria­mente sulle cause che producono fenomeni qua­le quello raccontato dal libro per sollecitare in­terventi pubblici e privati in tempo utile ad evi­tare il costruirsi di destini così tragici.

 

 

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