Prospettive assistenziali, n. 96, ottobre-dicembre 1991

 

 

CHIESA E EMARGINAZIONE IN ITALIA: UNA RICERCA (1)

GIOVANNI SARPELLON

 

 

Presentiamo la presente relazione per il suo notevole interesse di documentazione e di contributo critico, anche se per alcune osservazioni dissentiamo dall'Autore. Rileviamo, inoltre, che i questionari predisposti per la ricerca erano molto generici. Ad esempio, quelli concernenti gli istituti per i minori non contenevano alcun riferimento all'attuazione della legge sull'adozione (invio elenchi semestrali dei minori ricoverati, ecc). A loro volta i questionari riguardanti le strutture dl ricovero degli anziani non individuavano le violazioni - a nostro avviso numerosissime - del diritto alle cure sanitarie dei ricoverati con patologie croniche e In situazione di non autosufficienza.

Due amici si incontrano dopo dieci anni: «Ciao, come stai?». «Abbastanza bene, grazie; nonostante gli anni e pieno di voglia di lavorare». «E cosa hai fatto in questi dieci anni?». «Ho fatto molto. Ho lasciato perdere alcune attività, altre le ho rimodernate. E ho anche iniziato un buon numero di attività nuove».

«E con i tuoi collaboratori, come te la cavi?». «Cosa vuoi, sono così tanti. Molti se ne vanno, altrettanti vengono. Questo mi crea un po' di problemi per la loro preparazione; ma per lo più è gente molto motivata, generosa. Pensa che un buon numero lavora anche gratis!».

«E, dimmi, come vanno le cose nel rapporti con i tuoi colleghi, quelli del tuo ambiente?». «Oh qui non posso lamentarmi. Dieci anni fa c'erano molti problemi, invidie, sospetti. Oggi tutto va meglio, si collabora insieme e così si può offrire un servizio migliore »... E il colloquio continua.

È chiaro che questi due amici che si incontrano siamo noi stessi, messi davanti allo specchio che ci è fornito dall'indagine che la Consulta na­zionale delle Opere caritative e assistenziali ci presenta oggi.

Questi dieci anni (anzi undici) hanno portato cambiamenti rilevanti. Anche fra noi stessi alcu­ni si sono ritirati dal lavoro, altri se ne sano già andati in Paradiso, altri invece sono ancora qua, a fare quello che possono.

La Chiesa continua la sua attività caritativa, concreta manifestazione dell'amore fra i figli di Dio, anche se oggi queste parole sono state so­stituite da altre ben meno affascinanti, come welfare state, assistenza e privato-sociale.

Gli ultimi dieci anni sono stati importanti in questo mondo dell'assistenza sociale. Se ripen­siamo a ciò di cui si discuteva alla fine degli anni '70 e a ciò che lo Stato si proponeva di fare per rispondere ad un dovere che egli stesso si era imposto, potremmo essere stupiti di trovarci ancora qua tanto numerosi a rappresentare una realtà operativa che, complessivamente, non è mutata gran che. La struttura assistenziale della Chiesa, infatti, è ancora impegnata a fornire ser­vizi indispensabili, anche in nome e per conto dello Stato.

Non voglia dire se ciò sia un bene o un male, ma mi pare che sia necessario fin dall'inizio sot­tolineare questa constatazione: la Chiesa non è presente nel sociale tanto attraverso i suoi sin­goli membri attivi nelle strutture pubbliche quan­to attraverso servizi promossi e gestiti in proprio. Ci sano certamente cristiani che lavorano nei servizi pubblici, ma. non mi pare che se ne avver­ta la presenza distintiva nelle generali (e spesso generiche) lamentele che continuamente si sen­tono. La Chiesa, e i cristiani, sembrano piuttosto preferire distinguersi attraverso servizi tutti loro, coordinati se possibile, ma comunque separati da quelli pubblici.

Devo ora aprire una parentesi, prima che sia troppo tardi. Per questa mia relazione io ho attin­to al rapporto finale dell'indagine, rispetto al qua­le ha svolto una funzione del tutto marginale. Riferisco quindi cose che sono state il frutto del lavoro di altri. Accanto ai dati quantitativi non potranno mancare alcuni commenti. Anche per questi ho cercata di seguire le indicazioni dei rapporto finale e ai suoi autori ne va il merito; ma non è impossibile che ogni tanto vi abbia ag­giunto qualcosa di mio. E poiché non ho avuto il tempo di sottoporre il testa della mia relazione al gruppo di lavoro, vi prego di tenere presente che le mie affermazioni non implicano la respon­sabilità di nessun altro se non di me stesso. Se poi ci sarà qualcuno che le condividerà, tanto meglio!

Chiusa la parentesi, comincio subito a presen­tare i risultati più importanti dell'indagine, for­nendo alcune informazioni preliminari sul meto­do.

Lo scopo dell'indagine era la rilevazione di tut­ti i servizi socio -assistenziali collegati con la Chiesa in Italia. Questa è la definizione di servi­zio adottata:

Servizio stabile nel tempo (e perciò caratteriz­zato da continuità operativa da almeno 1 anno);

strutturato (cioè avente sede, statuto o rego­lamento, organizzazione del lavoro, personale stabile);

effettivamente operante nell'ambito socio-as­sistenziale (escluse quindi le attività solamente sanitarie, scolastiche, ricreative);

dipendente dalla Chiesa o in qualunque modo collegato con essa (sia attraverso una Congrega­zione religiosa, che attraverso il Vescovo o i suoi delegati o assistenti ecclesiastici, compresi i ser­vizi attivati da associazioni di evidente matrice cristiana).

Stando agli indirizzi predisposti per l'indagine, nelle 226 diocesi italiane erano presenti 4.553 servizi (1989); il 94,5% di questi ha effettivamen­te compilato il questionario proposto. Di questi 4.301 questionari sono risultati infine utilizzabili 4.099.

Abbiamo quindi raccolto informazioni sul 90% dell'universo di riferimento: è un grado di coper­tura più che buono, che ci permette di affermare di aver fatto un secondo censimento.

Inoltre, tenendo conto che gli indirizzari di par­tenza avevano alcune lacune e che 14 diocesi, per varie ragioni non hanno affatto risposto all'appello, si può stimare che l’insieme dei servizi socio-assistenziali collegati con la Chiesa in Ita­lia sia composto da 4.600-4.700 unità.

Sono naturalmente servizi malto diversi fra loro per settore di attività, dimensione, colloca­zione geografica. Riguardo quest'ultimo aspetto si può subito dire che ancora una volta si ripete la solita differenziazione fra il Nord del Paese e le altre regioni.

Nel Nord, infatti, si colloca il 56% di tutti i servizi, al Centro il 16%, al Sud il 14%, nelle Iso­le il 14%.

Non è purtroppo una sorpresa, ma tuttavia non è neppure qualcosa che si possa tranquillamente accettare.

Sappiamo che alcune Congregazioni religiose hanno accolto l'invito della CEI di rafforzare la loro presenza nel Meridione, ma ci accorgiamo che questo sforzo non è assolutamente suffi­ciente. Il Mezzogiorno, infatti, non solo è la re­gione più povera d'Italia, che più di altre riscon­tra la presenza di diffuse situazioni di bisogno anche grave, ma è anche quella parte del Paese

dove più scarsi sono i servizi pubblici. Si dovrà forse continuare a dire che oltre allo Stato, an­che la Chiesa si è dimenticata del Mezzogiorno? Cristo si è fermato a Eboli, i cristiani d'aggi si sono fermati ben più a settentrione!

Lo Stato si è dotato di un meccanismo di redi­stribuzione delle risorse; forse è tempo che an­che la Chiesa faccia altrettanto (possibilmente in maniera più efficace) utilizzando magari il fon­do costituito con l'8 per mille dell'Irpef. Non si tratta di colonizzare il Sud, né di imporgli alcun­ché; si tratta di aiutare le potenzialità delle chie­se locali ad organizzarsi e svilupparsi per far fronte, localmente, ai loro bisogni sociali. Le risorse umane non mancano; le risorse materiali ed organizzative possono essere fornite da chi ne ha in abbondanza.

Ciò premesso, vediamo ora la distribuzione dei servizi per settori d'attività. Anche qui serve una precisazione preliminare.

L'indagine è stata svolta con due strumenti complementari: un primo grosso questionario, che ogni servizio contattato doveva comunque riempire, ed una seconda serie di 9 diversi que­stionari brevi corrispondenti ad altrettante cate­gorie di possibili utenti dei servizi cui facevano riscontro altrettante diverse unità operative dei servizi. Naturalmente anche questa volta, come dieci anni fa, i servizi hanno dimostrato una cer­ta insofferenza di fronte alla valanga di domande che erano rivolte e talvolta hanno risposto In maniera imperfetta o incompleta. Questo, altret­tanto naturalmente, ha creato qualche problema nel l'elaborazione dei dati e qualche zona d'ombra nel quadro che ne è stato ricavato.

I 4.099 servizi che hanno risposto utilmente ai. questionari hanno indicato complessivamente la presenza di 8.826 forme varie di attività, rivolte a 18 diverse categorie di destinatari.

Tutte queste attività possono poi essere rag­gruppate in 6.808 distinte unità operative. Per ognuna di queste unità operative era richiesta la compilazione del corrispondente questionario «breve»: le risposte utili sono tuttavia state solo 4.532 e da queste sono quindi state ricavate le informazioni presentate nella seconda parte del rapporto finale.

La presenza della Chiesa nei vari settori socio­assistenziali può quindi essere rappresentata dal­la distribuzione di queste 6.808 unità operative: poiché tuttavia queste unità operative fanno ca­po ai 4.099 servizi, è con riferimento a questo totale che verranno calcolati i valori percentuali (si noti che, pertanto, la somma delle percentuali sarà necessariamente superiore a 100, compren­dendo alcuni servizi più di una unità operativa).

 

Unità operative per settori di attività

                                                                                                           (% su 4.099)           (% su 6.808)

1. Anziani                                               1.738             42,4%                26

2. Minori e giovani a rischio                      1.598             39,0%                23

3. Handicappati                                       994                24,2%                15

4. Tossicodipendenti alcoolisti, Aids          527                12,9%                 8

5. Senza dimora e stranieri                       422                10,3%                6

6. Famiglie a rischio madri nubili               619                15,1%                 9

7. Detenuti ed ex detenuti                        279                6,8%                   4

8. Nomadi                                               144                3,3%                   2

9. Ammalati                                            355                8,7%                   6

                                                              6.808                                    100

 

La prima, elementare osservazione che bisogna fare riguarda la presenza, ed il peso, dei diversi settori d'attività. È evidente che accanto ad un settore «tradizionale», che comprende anziani, minori, handicappati, sta un settore che si potreb­be qualificare come «moderno» o nuovo, che comprende tossicodipendenti, nomadi e stranieri, famiglie a rischio, detenuti ed ex, assistenza non sanitaria agli ammalati.

Io credo che sia saggio frenare l'impulso che ci potrebbe spingere a condannare il tradizionale e ad esaltare il nuovo.

Assistere anziani, minori e handicappati non è di per sé paco lodevole, certamente. Se si vuole dare un giudizio bisogna prendere in considera­zione una pluralità di elementi.

Anzitutto: perché la Chiesa si trova impegnata in queste opere? Si tratta di una risposta a biso­gni reali e non soddisfatti da chi avrebbe il dove­re di intervenire, o si tratta invece del manteni­mento di una presenza che non si vuole elimina­re o ridurre?

Poi: come opera la Chiesa? Le sue strutture operative si sano adeguate alle nuove esigenze dell'assistenza, rispettose dei bisogni e della di­gnità della persona, oppure continuano ad esiste­re quei grandi contenitori che mortificano chi vi è rinchiuso?

E ancora: chi assiste la Chiesa? Anzitutto colo­ro che si trovano nel bisogno più grave, coloro che sono trascurati dagli altri o piuttosto coloro che meglio sanno imporre le proprie necessità, forti anche del denaro che possono spendere (o far spendere da altri)?

A queste domande cercheremo di trovare più avanti alcune risposte, anche se sono i respon­sabili e gli operatori dei servizi che devono farle proprie per sottoporre a verifica la loro attività.

Anziani, minori ed handicappati erano i princi­pali destinatari dei servizi socio-assistenziali an­che dieci anni fa: essi assorbivano la quasi tota­lità delle attività svolte, mentre nuove forme di intervento erano spesso salo agli inizi, in fase sperimentale. Oggi la situazione è ben diversa: oltre un terzo delle unità operative sono impe­gnate in settori nuovi, come risposta a bisogni che in parte sono nuovi e che in parte erano in­vece vecchi ma trascurati.

Concedetemi una parentesi autolodatoria: la Chiesa ed il mondo cattolico spesso vengono cri­ticati nella società civile per il loro attaccamento alla tradizione, per il loro conservatorismo, se non per un presunto oscurantismo. Ebbene, per quan­to riguarda il settore socio-assistenziale non c'è in Italia una forza più dinamica, innovatrice, co­raggiosa e generosa come quella dei servizi col­legati con la Chiesa! Siamo qui convenuti per ini­ziare una verifica del nostro operare disposti all’autocritica e alla revisione, ma concediamo an­che questa soddisfazione, se essa ci aiuterà a trovare il modo di fare ancora meglio.

Chiusa la parentesi, riprendiamo l'esame dei dati, cominciando col dire che non basta che una cosa sia nuova perché sia ben fatta. Fra i nuovi servizi, per esempio, troviamo una preoccupante presenza di personale poco professionalizzato, così come non sempre i rapporti di lavoro sono regolati in forma chiara e precisa.

L'innovazione, inoltre, non è ugualmente pre­sente in tutto il territorio nazionale, lasciando ancora una volta il Mezzogiorno immerso nel suo storico ritardo.

Il cambiamento si è verificato nella parziale trasformazione del vecchio apparato assistenzia­le e nella istituzione di nuovi servizi. Nei dieci anni che separano le due indagini, ha visto la luce circa un terzo (32%) dei servizi rilevati due anni fa. Bisognerebbe certo analizzare di quale genere di servizi si tratta, ma, già questa vitalità è un primo indice positivo.

Guardando invece fra i servizi tradizionali, tro­viamo ancora alcuni elementi di preoccupazione.

Il primo è la permanenza di istituti residenziali di grosse dimensioni per l'assistenza di anziani e minori: in questi casi è lecito avere dubbi sulla qualità dell'assistenza prestata ai ricoverati. Già il ricovero in istituto è, di per sé, una forma di intervento che andrebbe evitata ad ogni costo, essendo evidente che la permanenza in famiglia è, con poche eccezioni, preferibile all'istituto. Ma se, comunque, il ricorso all'istituto non è evi­tabile, è assolutamente necessario che questo abbia, per quanto passibile, le caratteristiche di una nuova famiglia e, prima fra tutte, una dimen­sione ridotta.

Il secondo elemento di preoccupazione viene dalle risposte ad alcune domande relative all'ope­ra di prevenzione delle situazioni di bisogno svol­ta dai servizi socio-assistenziali. Il 63% dei ser­vizi dichiara di non far nulla per la prevenzione, il 10% non risponde. A questo dato, già preoccu­pante, bisogna aggiungere che solo una piccolis­sima parte di coloro che non fanno prevenzione sembrano essere dispiaciuti di questa carenza, mentre tutti gli altri, in un modo o in un altro, non si sentono tenuti anche a questa attività. Questo sì che è il vecchio tradizionalismo immobile che va demolito e sostituito con la cultura nuova dell'assistenza, che richiede un'opera ben più complessa nella società, a partire dalla lotta alle condizioni che generano poi le situazioni di bi­sogno grave.

I responsabili e gli operatori degli istituti de­vono uscire dalle porte dei loro edifici e portare la loro opera nel territorio circostante, per trova­re là la soluzione di svuotare gli istituti, renden­doli inutili.

Lo so, è facile a dire, ma sembra comunque necessario dirlo, visto che a non pochi questa idea sembra non sia ancora venuta.

Un terzo elemento di preoccupazione, anche se per certi versi questa è mista a soddisfazione, riguarda i cosiddetti rapporti con il territorio, do­ve territorio non significa, come certamente si dovrebbe intendere, campagna, monti e fiumi, ma la società civile circostante e le sue istitu­zioni. La soddisfazione viene dalla constatazione che la difficile situazione di dieci anni fa si è dissolta e che dalla contrapposizione di allora fra pubblico e privato si è oggi passati ad una più fruttuosa collaborazione. La preoccupazione vie­ne invece, in un certo senso, da una esagerazio­ne di questa collaborazione, o piuttosto da una sua errata e pericolosa concezione. Oltre i tre quarti dei servizi si dichiarano collegati alla rete delle realtà pubbliche e private operanti sul ter­ritorio (...), e questo è bene; quasi la metà ha stipulato convenzioni con vari enti pubblici, dal Comune, alle USL, alla Regione, ed anche questo è bene. Ciò che non è bene è che solo un settimo (14%) dei servizi fa parte di consulta istituita presso gli enti locali ai fini della programmazione dei servizi sociali. Ed ancor peggio è che salo un sesto (17%) dei servizi dichiara di avere un peso rilevante nell'orientare le scelte politiche e am­ministrative degli enti locali in materia di assi­stenza e servizi sociali, pur ammettendo che nei quattro quinti dei casi (81%) il servizio ha un peso fra determinante e significativo nel rispon­dere sul territorio ai bisogni sociali per i quali il servizio è stato attivato.

Il che è come dire che i servizi collegati con la Chiesa sono una parte importante (se non mol­to importante) dell'intera attività socio­assisten-ziale, ma rinunciano pressoché del tutto a parte­cipare alla definizione della stessa politica socia­le della quale sono i protagonisti. Mi sembra questa una dimissione di responsabilità inaccet­tabile e pericolosa, anche perché mi tormenta un dubbio: forse che la pace, se così posso dire, fra pubblico e privato è stata ottenuta in questi dieci anni grazie ad un compromesso poco ono­revole? Ai privati cioè sono state date le conven­zioni, i soldi di cui avevano bisogno per soprav­vivere, mentre al pubblico si è data in cambio la tranquillità della fine della contestazione e della pacifica accettazione delle direttive impartite.

È forse esagerato parlare di denari, siano essi trenta o siano essi miliardi di lire; certo è che questa assenza nei luoghi della programmazione e decisione sull'intervento sociale desta preoc­cupazione, anche se a bilanciare in parte l'im­pressione negativa sta la presenza del 60% dei servizi in attività di sensibilizzazione della socie­tà civile verso i problemi per i quali i servizi stes­si sono attivati. La dimissione di responsabilità non sarebbe quindi totale; essa riguarderebbe la sfera politica, mentre nella sfera civile si man­terrebbe una significativa presenza.

È comunque necessario un esame di coscien­za, o una verifica, per dirla in termini più profes­sionali, per appurare se i servizi socio-assisten­ziali collegati con la Chiesa sono concretamente in grado di mantenere la loro libertà ed autono­mia, naturalmente nel rispetto delle leggi e delle regole fissate dall'autorità pubblica. Libertà ed autonomia che devono naturalmente essere usate per servire anzitutto i poveri e gli emarginati, per operare sempre con il massimo rispetto della dignità della persona, per affiancare all'assisten­za l'opera di prevenzione, per agire sempre in sintonia con la famiglia e la comunità circostante.

 

Personale

Dopo queste considerazioni di carattere gene­rale, vediamo ora di addentrarci nella grande massa di informazioni raccolta attraverso l'inda­gine. E cominciamo con il personale che opera nei servizi.

Comprendendo sia chi opera a tempo pieno che a tempo parziale, si può stimare che siano impiegate 76.000 persone. Da questa stima sono esclusi i volontari che a vario titolo collaborano con il personale retribuito. La presenza dei vo­lontari è molto varia ed è impossibile compen­diarla in una sintesi, anche perché non avrebbe senso sommare una persona che offre tutta o gran parte della sua giornata ad un'altra che pre­sta servizio saltuariamente per un paio d'ore. Si può comunque mettere in evidenza che i volontari sono utilizzati dal 57% dei servizi (la stessa cosa, volendo invece essere critici, può essere espressa dicendo che i1 43% dei servizi non utilizza volontari).

Il personale è composto per quasi due terzi da donne, confermando la ben nota «femminilizzazione» dell'assistenza. Il personale religioso rappresenta circa un quarta del totale, mentre quello laico supera di poco la metà. Com'è facile vedere, facendo una semplice addizione, questo è un dato incompleto, dovuto alla presenza di molte non risposte nei questionari. Si possono comunque aggiungere altre informazioni sulla di­versa presenza dei due gruppi: il personale reli­gioso è particolarmente presente nelle Isole, nei servizi di medie e grandi dimensioni, nelle IPAB, nelle Fondazioni e ovviamente nei servizi retti da religiose/religiosi. II personale laico prevale in­vece al Nord e nei servizi organizzati in coope­rative:

Riguardo alla situazione del personale si pos­sano fare alcune osservazioni problematiche:

1. la qualificazione professionale risulta piut­tosto limitata e, mentre la metà circa dei servizi ha dichiarato di realizzare iniziative di formazio­ne e/o aggiornamento del loro personale stabile, coloro che svolgono tale attività in maniera non occasionale si riducono ad un quarto;

2. la seconda osservazione riguarda l'avvicen­damento del personale. Sappiamo che questo è un fenomeno comune ai servizi sociali: anche nel nostro caso esso è presente, e in dimensioni non trascurabili: con varia intensità riguarda la metà dei servizi; in maniera consistente un terzo dei servizi. Si mescolano qui problemi molto diversi: il pensionamento di persone che raggiungono l'età prevista e l'abbandono di altre che cercano genericamente un lavoro migliore o che decida­no di smettere un lavoro che non vogliono più fare. Ci sono quindi i problemi dell'invecchia­mento delle religiose, accanto a quelli degli ope­ratori che vengono «bruciati» dal loro lavoro.

3. Altro problema riguarda il contratto di as­sunzione e il regolamento di lavoro. Sul primo c'è una zona d'ombra di mancate risposte da par­te del 39% dei servizi e non si può dire se questo significhi che un contratto di lavoro manca o che per negligenza si è omessa la risposta nel que­stionario. Il regolamento del personale dipenden­te sembra poi esistere solo nel 37% dei servizi (anche qui c'è un terzo di mancate risposte) e questa carenza può essere occasione di problemi interni ai servizi che una saggia e corretta ammi­nistrazione dovrebbe evitare.

4. Considerazioni, a sé, e ben più ampie di quelle ora possibili, domanderebbero la presenza -- e l'assenza - del personale volontario. Fra colora che non utilizzano volontari nella propria attività spiccano due interessanti giustificazioni: a) il tipo di servizio non lo richiede; b) non esiste il volontariato in zona. La prima affermazione de­nota l'arretratezza dei servizi che non hanno an­cora colto la molteplicità di utili funzioni che il volontariato può svolgere; la seconda denota in­vece l'arretratezza di comunità locali che ancora non sono riuscite a far emergere dal loro interno questa nuova forza vitale. Per gli uni e per le altre c'è ora motivo di riflessione.

Altro problema che richiede un'attenta rifles­sione è quello della professionalità dei volontari e della loro formazione. Non perché è gratuito un servizio può essere erogato meno che bene, anche se è possibile che in alcuni casi i volontari vengano utilizzati in attività a bassa professio­nalità.

Un ultimo avvertimento bisogna poi aggiunge­re: vegliare bene che il volontariato non mascheri mai forme di lavoro precario, nero o mal pagato. Sarebbe una testimonianza negativa che la Chie­sa deve assolutamente evitare.

Per concludere su quest'argomento vorrei se­gnalare anche alcuni elementi positivi, che molto pacatamente Mons. Nervo, nelle sue «considera­zioni pastorali» chiama «gemme nuove da col­tivare con cura»: essi sono la ancor ridotta ma crescente presenza di obiettori di coscienza, di famiglie collegate coi servizi, di giovani ragazze che prestano un anno di volontariato sociale. Sono elementi nuovi capaci di vivificare i servizi e migliorarne la qualità.

 

Gestione dei servizi

Dai problemi del personale passiamo ora a quelli della gestione dei servizi.

Bisogna anzitutto notare in un buon numero di servizi, soprattutto quelli di dimensioni maggiori, fa presenza di una struttura amministrativa, di un nucleo decisionale e dì articolazioni operative ben caratterizzate nei ruoli e fra loro collegate. A questi aspetti decisamente positivi, si affian­cano altri più problematici, come, ad esempio, una certa spaccatura fra le strutture prettamente gestionali ed amministrative, in cui prevale la presenza dei laici, e le strutture di direzione operative in cui prevale il personale religioso, spesso dotato di poteri discrezionali molto ampi nell'elaborare le linee concrete dell'azione sul campo. Il 60% dei ruoli direttivi è infatti attri­buita a personale religioso. È difficile dire se an­che in questo caso si possa richiamare la rifles­sione altre volte fatta sulla distinzione dei ruoli fra laici e religiosi; né si possano sottovalutare le ragioni di una Congregazione religiosa che, istituito un servizio, forse anche molto tempo addietro, ne vuole mantenere il controllo opera­tivo; né ancora si può negare in linea di principio il diritto di una religiosa o un religioso di assu­mere un ruolo direttivo se ne ha le capacità pro­fessionali (come del resto di norma avviene). E tuttavia probabile che la prevalenza di perso­nale religioso nei ruoli direttivi sia legata alla maggiore fiducia che queste persone ispirano sia agli amministratori dei servizi che alle autorità ecclesiali: se così fosse è da augurarsi che i laici si assumano responsabilità direttive più diffuse.

Un altro importante aspetto della gestione è quello economico-finanziario. Su questo argo­mento molti servizi si sono dimostrati avari di informazioni dimostrando così di non aver capito gli scapi di questa indagine, che è stata fatta per i servizi e non contro i servizi. La riflessione co­mune, lo scambio delle esperienze e l'aiuto reci­proco possono infatti essere di grande aiuto sia per chi ha da poco iniziato la propria attività, sia per chi si trova ad affrontare difficoltà nuove prodotte da imprevisti mutamenti della situazio­ne operativa.

 

Fonti di finanziamento

Le fonti di finanziamento dei servizi sono di tre tipi: rette pagate dai privati, rette pagate da enti pubblici, elargizioni da privati.

Su 100 servizi che dichiarano di percepire ret­te, 47 segnalano che esse sono pagate del tutto o in parte dagli utenti o dalle loro famiglie; 56 servizi su 100 dichiarano invece la presenza, to­tale o parziale, di rette pagate da enti pubblici.

Di norma i servizi si sostengono grazie alla contemporanea presenza dei diversi tipi di entrata.

La presenza consistente di rette pagate dal privati non è di per sé un fatto negativo, nel sen­so che è giusto che l'utente che lo può fare con­tribuisca alle spese del servizio che utilizza. La domanda che a questo riguardo ci si può invece porre riguarda piuttosto la natura di quei servizi che si sostengono prevalentemente con le rette dei privati (si tratta di un quinto dei servizi): sono questi ancora servizi socio-assistenziali ri­volti prioritariamente verso le categorie più po­vere ed emarginate o sono piuttosto servizi ero­gati secondo una logica di mercato, che offrono prestazioni in cambio d'i denaro. Se le prestazio­ni sono di una buona qualità e il corrispettivo richiesto non è esagerato, non c'è niente da con­dannare in termini generali. Ci si potrebbe tutta­via chiedere se è a questo genere di attività che i servizi collegati con la Chiesa si debbono dedi­care. Non è una domanda retorica, né semplice, perché vi possono essere situazioni che sembra­no consigliare una presenza anche in questo campo. Non credo, tuttavia, che soluzioni di que­sto tipo possano essere accettate al di là di sem­plici eccezioni, soprattutto quando, sono concretamente disponibili alternative diverse e per ero­gare questo genere di servizi se ne trascurano altri che avrebbero come destinatari persone che si trovano in stato di grave bisogno e sono prive delle risorse per farvi fronte.

Le elargizioni private, la beneficenza di un tem­po, è presente in misura modesta nel 46% dei servizi, mentre diventa la fonte principale di so­stentamento per il 5% dei servizi. Questa pre­senza è certamente qualcosa da valutare positi­vamente perché indica una partecipazione della comunità in generale alla vita dei servizi; molto educativo ed efficace sarebbe un coinvolgimento delle specifiche comunità locali nelle quali i ser­vizi vivono ed operano.

Questa partecipazione alla carità della Chiesa va certamente sostenuta ed arricchita da ogni possibile effetto educativo, come segno tangibile dell'amore cristiano.

 

Rapporti dei servizi con la Chiesa

I rapporti fra i servizi e le varie espressioni della Chiesa locale, vanno naturalmente al di là di questa partecipazione economica. La forma di questi rapporti non è tuttavia del tutto positiva e coerente.

Un piano pastorale diocesano esiste nel 70% dei casi, ma in esso i problemi della carità e dell’assistenza sono presenti «molto» nel 36% dei casi e abbastanza in altro 48%. I servizi sono presenti nei consigli pastorali diocesani solo nel 18% dei casi; sono rappresentati nelle Caritas diocesane per il 24%, mentre collaborano alla realizzazione di iniziative caritative per il 46% e operano in maniera coordinata nel 27% dei casi.

Più stretto è il legame con la parrocchia in ge­nere, mentre meno forti sono i legami con le Ca­ritas parrocchiali la cui esistenza è riconosciuta nel 42% dei casi.

Poco più di un quinto dei servizi informa siste­maticamente il Vescovo della propria attività; da parte sua il Vescovo (direttamente o attraverso organismi diocesani) esercita un'azione siste­matica di controllo solo nell'8% dei casi, mentre si interessa (genericamente) delle attività del servizio nel 55% e aiuta le iniziative dei servizi in un altro 23%.

Da questo quadro emerge la necessità di ap­profondire la funzione che la Chiesa locale affida alla Caritas diocesana che dovrebbe dar vita ad una consulta per le opere caritative e assisten­ziali, promuovendo il coordinamento fra le varie iniziative e curando anche la formazione degli operatori sia professionali che volontari.

C'è poi un altro problema che deriva dalla troppo diversa intensità di rapporti tra servizi e Chiesa locale. La Chiesa infatti ha anche il dove­re, e quindi il diritto, di vigilare perché le opere che sono fatte nel suo nome siano veramente esemplari e perché non siano, come talvolta ac­cade, segni di testimonianza negativa. Il dovere di vigilare è un dovere grave e greve e chi è tenuto a questa responsabilità non deve in alcun modo sottrarvisi.

D'altro lato sono ì servizi che talvolta devono maggiormente aprirsi alla comunità di cui dovreb­bero essere l'espressione e abbandonare talune forme di isolazionismo ed autarchia che sembra si passano rilevare da alcuni questionari. La Chie­sa, in qualsiasi sua manifestazione, non può che essere sempre comunità.

 

Rapporti dei servizi con la società civile

Per quanto riguarda invece i rapporti con la società civile ho già presentato alcune informa­zioni poco fa. Vorrei ora aggiungere qualcosa sul­le differenziazioni regionali.

Le regioni settentrionali appaiono senz'altro essere le più vitali (si ricordi che al Nord sta il 56% dei servizi), ed anche le più innovative: lì infatti troviamo la maggior parte dei servizi rivol­ti a quelli che nel rapporto vengono malaugurata­mente chiamati «nuovi poveri» e che in realtà si chiamano tossicodipendenti, stranieri, nomadi, detenuti ed ex detenuti.

Al Nord troviamo la maggior presenza di coo­perative, e la maggiore frequenza di laici negli organi amministrativi dei servizi. Anche il volon­tariato è più sviluppato nelle regioni settentrio­nali, così come più frequenti le entrate originate da erogazioni di beneficenza e carità dei privati.

Le regioni centrali assumono, per i vari settori dell'indagine, comportamenti per lo più vicini ai valori medi, mentre è nel Mezzogiorno e nelle Isole che emergono alcune caratteristiche non sempre positive. Più diffusa sembra essere la cultura tradizionale dell'assistenza, maggiore che altrove l'assistenza ai minori, molto diffusa la presenza di fondazioni (e meno quella delle asso­ciazioni). Buono è invece il rapporto con le realtà locali, sia pubbliche che ecclesiali.

Questo ritardo delle regioni meridionali non è certa indipendente dalle difficoltà generali di questa parte d'Italia: resta comunque vero, come già detto, che i servizi socio-assistenziali della Chiesa devono tutti, anche quelli di altre regioni, impegnarsi concretamente perché là dove c'è maggior bisogno la Chiesa sia maggiormente presente.

Aree dei servizi

All'inizio di questa relazione ho ricordato le nuove grandi aree di servizi nelle quali si articola la presenza dei diversi enti socio-assistenziali collegati con la Chiesa. All'esame dettagliato area per area è dedicato il secondo volume del rapporto di ricerca che ben, difficilmente è sinte­tizzabile in pochi minuti. Cercherò, tuttavia, di presentare alcune informazioni sintetiche, facen­do ricorso ai dati raccolti attraverso gli specifici questionari brevi che sono stati raccolti.

Non bisogna dimenticare che non tutti i servizi hanno fornito informazioni relative a tutte le uni­tà operative che ad essi fanno capo e che, per­tanto, i valori assoluti sono modicamente sotto­stimati rispetto alla realtà, mentre le percentuali interne possono essere accolte come valutazioni di buona approssimazione.

 

Minori e giovani a rischio

I servizi destinati ai minori e giovani a rischio sono così distribuiti:

Istituti educativo-assistenziali      35%

Semiconvitti                               22%

Comunità-alloggio                        8%

Centri accoglienza                       7%

Case-famiglia                              7%

Centri di ascolto                          4%

Centri pronto intervento                 4%

Strutture produttive                       4%

Aiuti domiciliari                            2%

Altro                                           8%

È evidente che si tratta di quantità difficilmente sommabili, poiché il «peso» di un istituto tradi­zionale non è paragonabile a quello di un punto d'ascolto.

Gli istituti censiti ospitano 73.000 minori, di cui 42.000 interni, 21.000 semiconvittori e 10.500 esterni. Per la maggioranza si tratta di ragazze. Le case-famiglia e comunità assistenziali ospi­tano 6.300 persone, delle quali la metà hanno più di 18 anni.

Circa 15.000 dei minori in istituto hanno meno di 6 anni. Un terzo dei minori risulta ricoverato in istituti a causa delle cattive condizioni della propria famiglia.

Pochi dati che dicono molto.

È vero che a dieci anni di distanza dalla prece­dente indagine possiamo rilevare con sollievo la presenza di altre forme di intervento alternative all'istituto, ma è pur sempre vero che il numero di minori in istituto è ancora enormemente ele­vato. E, prima ancora di qualsiasi valutazione sul­la funzionalità di queste istituzioni, vorrei ripren­dere un'altra frase, non poetica questa volta, ma lapidaria, ancora dal testo di Mons. Nervo: «È chiaro che Dio per il bambino ha creato la fami­glia, non l'istituto!».

Occorre, perciò riflettere sul perché esista tuttora una domanda sociale così ampia di rico­vero di minori in istituto, che tende per di più ad allargarsi. E particolarmente dovrebbero riflette­re coloro che non avvertono la necessità di af­fiancare alla loro opera di assistenza anche una vigorosa azione di prevenzione. È pur vero che la tradizione assistenziale sembra affidare questi due compiti a ruoli diversi; ma è anche vero che talvolta bisogna avere il coraggio e la forza di rompere con la tradizione ed impegnarsi in uno sforzo innovativo.

Non sono le suore e i religiosi che ora si vo­gliono mettere sotto accusa, anzi a loro va il plau­so per l'accoglienza che offrono a questi bambini e ragazzi. Ma la comunità cristiana nel suo in­sieme, operatori qui compresi, deve assumersi la responsabilità di modificare le politiche sociali pubbliche, orientare le coscienze e sviluppare nuove solidarietà, incentivare le forme di affido, stimolare il volontariato, creare nuove strutture alternative.

 

Handicappati e malati mentali

I servizi per handicappati e malati mentali sono pesantemente concentrati al Nord: 61%, mentre nel Mezzogiorno se ne trova appena il 20% scarso.

Rispetto all'indagine del 1977 si è avuto un grande sviluppo in questo settore: il 43% dei servizi è nato nei dieci anni successivi, grazie soprattutto allo sviluppo di centri di accoglienza diurni e notturni e di comunità residenziali.

Accanto a 154 istituti residenziali, esistono infatti 125 centri di accoglienza diurna e notturna e 119 comunità residenziali.

L'assistenza a questo gruppo di persone si esplica poi in molte altre forme:: centri di ascol­to e orientamento, centri di prima accoglienza, di pronto intervento, strutture produttive, coope­rative di vario genere, strutture formative, cultu­rali e di tempo libero, servizi ambulatoriali e di assistenza domiciliare.

Le persane variamente assistite raggiungono le 50.000 unità, 40% circa come interni, 10% come seminterni. Fra le motivazioni che spingono al ricovero primeggiano le difficoltà di vario tipo delle famiglie. E questa annotazione suggerisce di ricordare come tanto spesso è proprio la fami­glia che ha bisogno di essere aiutata nel suo com­pito talora gravosissimo (analogo discorso vale per l'assistenza agli anziani, specialmente quelli non autosufficienti).

Una normale famiglia d'oggi è normalmente incapace di affrontare i problemi che un handicap­pato, un malato cronico, un non autosufficiente pone. Il carico dell'assistenza finisce in genere per gravare sulle spalle (e sulla psiche) della donna di casa (e anche questa è un'ingiustizia), che molto difficilmente, anche con tutta la buona volontà, riesce a tirare avanti a lungo.

Questo settore di attività, che pur si è dimo­strato molta vitale e innovativo, ha quindi biso­gno di essere ulteriormente potenziato con spe­cifico riferimento all'assistenza globale alla fa­miglia con handicappati.

Cito, solo per richiamarli all'attenzione, gli al­tri due problemi dell'integrazione scolastica e dell'inserimento lavorativo.

 

Persone tossicodipendenti, etiliste, malate di Aids

A fronte di 527 schede attese per questo setto­re, ne sono pervenute 313, fortemente concen­trate nelle regioni settentrionali (67%). La sola Lombardia accoglie il 21% di tutti i servizi. Spes­so si tratta di servizi polivalenti; quelli con un orientamento specifico sono 143 e di questi 119 si occupano di tossicodipendenti, 11 di alcoolisti, 13 di malati di Aids.

Anche in questo caso sono presenti diverse forme di attività: centri di ascolto, di prima ac­coglienza, di pronto intervento, strutture produt­tive, cooperative, strutture formative e culturali, oltre a comunità residenziali (193) e centri o co­munità diurni (64).

Gli assistiti da questi servizi sono caratteriz­zati da una fortissima prevalenza. di maschi (3,6 maschi su 4 assistiti) e da un'età compresa pre­valentemente fra i 19 e i 35 anni (con l'eccezione degli etilisti che per oltre il 50% hanno un'età superiore ai 35 anni).

Questi servizi, inoltre, hanno un bacino d'uten­za che per circa il 60% dei casi va oltre i confini della USL nella quale sono inseriti, arrivando ad oltrepassare spesso anche i confini regionali (più o meno 17%).

Complessivamente questi nuovi servizi raccol­gono un giudizio positivo, anche se si possono rilevare alcuni problemi: la pessima distribuzio­ne territoriale, la necessità di un impegno mag­giore nell'opera di prevenzione, soprattutto attra­verso forme di aggregazione di giovani, la forma­zione del personale volontario, la cui presenza è preponderante fra gli operatori (più o meno 60%).

Da notare positivamente, infine, lo sforzo ge­neralmente fatto per ottenere il reinserimento sociale degli assistiti che viene segnalato in ol­tre i 2/3 dei casi.

 

Detenuti ed ex detenuti

La prima osservazione da fare relativamente a questi servizi è che essi sono pochi. Come a dire che i problemi dei detenuti e di coloro che lasciano il carcere, pur essendo spesso assai gravi, non attirano l'attenzione della comunità cristiana. Sembra, inoltre, che non sempre questi servizi, quando esistono, privilegino i più emar­ginati e deboli, come gli immigrati e i tossicodi­pendenti. Globalmente poi si potrebbe dire che prevale in questo settore la delega ai cappellani (benemeriti per la loro opera) e alle associazioni di volontariato, alcune delle quali operano ormai da molto tempo.

Questi servizi sono impegnati, oltre che nelle visite in carcere, anche all'approntamento di cen­tri di ascolto e orientamento, di prima accoglien­za, in iniziative formative, culturali e ricreative; organizzano, inoltre, cooperative di produzione e consumo, oltre a comunità residenziali anche per chi è sottoposto agli arresti domiciliari.

I numeri, per quanto di fonte eterogenea in relazione alle diverse attività, ci dicono che gli ex detenuti rappresentano un terzo degli utenti complessivi e che le persone al di sotto dei 35 anni sono prevalenti rispetto ai più anziani.

Le attività svolte da questi servizi sociali sono le più varie e vanno dal sostegno morale e psico­logico, ai rapporti con le famiglie (compresi i tentativi di ricomposizione), alla ricerca di oppor­tunità di lavoro.

Ma su un aspetto si vorrebbe ora attirare l'at­tenzione, e cioè sull'assistenza e l'aiuto ai dete­nuti con le caratteristiche prescritte ad usufruire dei benefici della legge Gozzini.

L'opinione pubblica è stata ingannata da irre­sponsabili campagne giornalistiche che finiscono per screditare questo importante strumento di reinserimento sociale dei detenuti. La comunità cristiana potrebbe rendersi disponibile all'acco­glienza di queste persone, offrendo ospitalità ed occasioni di lavoro a coloro che sono intenzionati a riprendere la normale vita sociale, dando così concretezza all'antica opera di misericordia ver­so i carcerati.

 

Stranieri e persone senza fissa dimora

Sono qui riunite due categorie di persone in realtà molto diverse fra loro. Negli anni '80 è esploso il fenomeno delle immigrazioni di perso­ne extracomunitarie, spesso abbandonate a se stesse, senza un lavoro regolare e stabile. Le per­sone senza fissa dimora hanno invece sempre simboleggiato il povero tradizionale, anche se la realtà di questi anni più recenti si è profonda­mente modificata.

Gli stranieri che hanno usufruito di una qualche forma di assistenza da parte dei soli 260 servizi rilevati, sono stati nel 1987 quasi 80.000, con una grande preponderanza di maschi di età compresa fra i 19 ed i 45 anni. Un quarto di questi era classificato come «clandestino».

Fra le oltre 95.000 persone senza fissa dimora assistite, spicca per gravità un 20% di persone che hanno fino a 35 anni (ecco 1a novità), cui se­gue, per importanza cruciale, un altro 34% di persone fra i 36 e i 45 anni.

I servizi per «senza fissa dimora» sono situati prevalentemente al Nord e al Centro, ma accol­gono abbondantemente anche persone del Mezzo­giorno: è un altro indice dello sradicamento pos­sibile per chi si trova straniero nella propria patria.

In genere,questi servizi sano di piccola dimen­sione, solo pochi (10%) usufruiscono di conven­zioni e contributi pubblici; utilizzano prevalente­mente volontari.

Caratteristiche queste positive, che mostrano come questi servizi siano spesso una corretta manifestazione dell'impegno della comunità cri­stiana verso gli ultimi. Un avvertimento, tuttavia, può essere utile: vigilare, cioè che con questo operare non si faccia supplenza rispetto ad una mancanza delle istituzioni pubbliche che, per di più, a causa della presenza di questi servizi, pos­sono sentirsi giustificate nei loro non fare il pro­prio dovere.

 

Famiglie a rischio e madri nubili

Sui servizi che operano in questo settore l'in­dagine ha fornito questi dati: 234 centri di ascol­to e di orientamento, 307 centri di prima acco­glienza; 272 iniziative di assistenza domiciliare; 107 comunità residenziali per ragazze madri. Le persone variamente assistite sono state 42.000. Questo è ciò che emerge dalle risposte ai que­stionari: la realtà è più ricca ancora.

È questo un ambito di attività relativamente recente e in sviluppo, sostenuto prevalentemente direttamente dai contributi delle comunità cri­stiane e che comporta l'utilizzazione di personale retribuito in percentuali poco più che simboliche (4/5%). Si tratta, quindi, di un servizio «povero», che, non disponendo di molte risorse materiali, deve limitarsi ad intervenire prevalentemente nella fase iniziale del bisogno, attraverso attività di prima accoglienza, orientamento, di assistenza domiciliare. Questa difficoltà va segnalata perché sembra si possa dire che il servizio non sempre riesce a dare una risposta efficace e definitiva, soprattutto nel casa delle ragazze madri che ne­cessitano spesso di un'assistenza prolungata e complessa, che deve includere la possibilità di alloggio, di lavoro e di sostegno psicologico e materiale.

Una maggiore collaborazione delle famiglie, delle comunità parrocchiali e delle associazioni di volontariato potrebbe essere di grande aiuto, anche per stimolare ulteriormente l'impegno de­gli stessi assistiti a risolvere i propri problemi.

 

Persone anziane

Gli anziani rappresentano certamente una ca­tegoria di persone potenzialmente deboli e biso­gnose di varie forme di assistenza. Il loro numero è in continuo aumento ed è ben noto che per molti il prolungamento della vita rischia di essere un aumento della sofferenza. È quindi ovvio che i servizi rivolti verso le persone anziane occupino un pasta importante fra quelli collegati con la Chiesa.

Le unità operative rilevate dall'indagine sono 1.623 (circa un centinaio in meno di quelle dichia­rate). Un quinto di queste unità sono sorte negli ultimi dieci anni. Il 43% è concentrato nelle tre regioni settentrionali, Piemonte, Lombardia, Ve­neto. Poco più di un quinto si trovano nel Mezzo­giorno. Le disparità territoriali sono quindi tal­mente forti da rendere superfluo qualsiasi com­mento.

Gli istituti e le comunità residenziali assieme ammontano a 1.128 unità, ma sono affiancati da 203 servizi di assistenza domiciliare e da 221 centri di ascolto, prima accoglienza, pronto in­tervento e centri-comunità diurni e notturni. Vi sono poi varie strutture produttive, formative, culturali e ricreative.

L'attenzione viene certamente attratta dagli istituti e dalle comunità residenziali. È consolante notare che le strutture di dimensioni ridotte sono in aumento, anche se parallelamente preoccupa la permanenza di 128 residenze con oltre 100 po­sti letto. È già stato detto molte volte, ma gioverà ripeterlo ancora, che il grande istituto, per quan­to ben condotto sia, è di per sé inadatto a ricrea­re quel clima familiare di cui la persona anziana ha anzitutto bisogno. Sono a tutti noti i problemi anche economici, oltre che di spazi e di persona­le, che le piccole strutture comportano, ma è veramente difficile da accettare che queste diffi­coltà debbano anzitutto pesare sulle già fragili spalle degli anziani.

Dopo quello della dimensione degli istituti, viene il problema dell'autosufficienza degli ospiti. È compito della Chiesa educare anzitutto le fa­miglie a mantenere presso di sé le persone an­ziane, sia pure nel limite del possibile. Questo, comunque, non significa ignorare che la famiglia così com'è oggi, con pochi figli, pochi sposi, con molte esigenze, è meno preparata che nel passa­to a svolgere questo compito. Essa va quindi non solo orientata, ma anche aiutata in questo suo dovere, sviluppando i servizi territoriali e stimo­lando l'aiuto volontario.

Preziosa, a questo riguardo, potrebbe essere l'opera di mutuo aiuto che gli anziani potrebbero prestarsi vicendevolmente e in ordine alla quale la comunità cristiana potrebbe dare un prezioso contributo; è una semplice forma di intervento ancora poco praticata che può dare risultati dop­piamente utili: per chi dà e per chi riceve l'aiuto.

[Io conosco una signora di 85 anni che è tutto il giorno indaffarata perché deve andare a fare la spesa, o a far compagnia, o aiutare a far pulizia, per altre «vecchiette», come dice lei..., e così resta attiva].

L'aiuto reciproco, del volontariato, della comu­nità cristiana, non deve tuttavia far accettare l'assenza o l'inefficienza dei servizi pubblici. An­che in questo caso la presenza generosa non sarà completa senza un'azione che possiamo chiamare politica affinché chi ha pubbliche responsabilità sia richiamato al proprio dovere.

Una buona rete di servizi territoriali e di so­stegno alla famiglia potrà ridurre la presenza di persone autosufficienti tra i ricoverati. Attual­mente l'80% degli istituti accolgono ancora per­sone autosufficienti: una drastica riduzione di questa cifra è un obiettivo prioritario che, primi fra tutti, devono porsi i gestori delle strutture residenziali, rompendo talvolta il proprio isola­mento ed accettando una responsabilità forse prima non considerata.

Un'altra serie di problemi attiene alla finalità della vita entro le strutture residenziali. Già la loro collocazione nello spazio urbano è impor­tante, perché permette (o ostacola) di mantenere un insieme dì vitali rapporti con l'esterno della residenza.     .

Come possano assolvere questo dovere almeno quelle 450 residenze che si trovano in periferia o lontane dai centri abitati, non si può proprio im­maginare.

Ma anche la preparazione dei personale è es­senziale a questo riguardo. Non serve solo perso­nale di custodia, ma anche operatori impegnati a mantenere attivo e vitale l'anziano, stimolandolo continuamente a sfruttare le proprie risorse, sen­za cedere al letale abbattimento della rinuncia a vivere. E in questa opera il contributo del volonta­riato può essere prezioso, a patto però che non si carichi su di lui una responsabilità che è anzi­tutto dell'istituzione e dei suoi operatori.

 

Nomadi

L'indagine ha censito 45 esperienze di servizio; in genere di piccole dimensioni, rivolte verso no­madi. Sono questi una popolazione che arriva probabilmente alle 90.000 unità, poco conosciuta, e forse anche poco amata, ma che è portatrice di una serie di difficoltà.

I servizi censiti sono per altre la metà sorti negli ultimi dieci anni: segno, questo, che l'at­tenzione della comunità cristiana, ancorché in­sufficiente, è comunque crescente. Le persone dedite a questi servizi sono circa 400, di cui sono 25 retribuite; 118 prestano la loro opera a titolo gratuito a tempo pieno, 260 a tempo parziale. Oltre la metà dei servizi opera al Nord. Comples­sivamente le persone variamente seguite sono 5.660.

In questo particolare settore sociale i proble­mi che si pongono con maggiore evidenza e gra­vità sono quello della scolarità dei ragazzi, quello del lavoro per gli adulti, quello dell'assistenza sanitaria. Sopra tutti questi sta, tuttavia, il pro­blema dell'accettazione del nomadismo e di stili di vita molto diversi da quello abituale. La Chiesa in questo caso è chiamata a dare una testimo­nianza - non facile - di accoglienza di questi «diversi», contribuendo al mutamento degli at­teggiamenti di ostilità e fornendo spazi concreti di accoglienza entro le proprie comunità.

 

Ammalati

I servizi per ammalati censiti dall'indagine sono per molti aspetti particolari: non si tratta di servizi propriamente sanitari, ma di servizi per così dire «di frontiera» fra il sanitario, il sociale, lo psicologico. Sono servizi rivolti alle persone in quanto tali, per aiutarle a vivere quanto meglio possibile una situazione che è, sì, caratterizzata pesantemente dalla malattia, ma che non per questo va affrontata solo in termini sanitari. Sono questi forse i servizi più nuovi ed esemplari, por­tatori di una nuova cultura nella quale la persona occupa, nella sua totalità, il posto centrale.

Quasi la metà di questi servizi (che sono in totale 141), sono sorti negli ultimi dieci anni e per i due terzi si trovano, ancora una volta, al Nord. Essi riguardano prevalentemente persone in età avanzata e consistono in assistenza domi­ciliare e assistenza in ospedale. Delle oltre 38.000 persone assistite, 4.200 sono malati termi­nali e 29.000 sono malati cronici.

Nei servizi censiti sono presenti circa 4.500 operatori, due terzi dei quali sono donne. Il per­sonale retribuito non supera le 850 unità.

 

In conclusione

L'indagine ha documentato la grande vitalità dell'impegno socio-assistenziale della Chiesa d'Italia.

Questa relazione, che pur è stata troppo lunga, ha appena delineato alcune caratteristiche principali e non posso far altro che invitare tutti a studiare attentamente i due volumi nei quali è contenuto il rapporto della ricerca.

Prima di terminare, vorrei sottolineare la va­stità del cambiamento che è intervenuto in questi dieci anni che ci separano dall'indagine prece­dente: i servizi si sono modificati notevolmente in rapporto ai mutati e spesso nuovi bisogni, han­no costruito un più positivo e costruttivo rapporto di collaborazione con gli enti locali, hanno realiz­zato un maggiore coinvolgimento della comunità cristiana.

Nella mia lunga e noiosa esposizione ho pre­sentato più critiche che elogi. Se ricordate, ci siamo già detti «bravi» all'inizio. Ora dobbiamo solamente cercare di fare meglio. Per questo ab­biamo fatto questa indagine e per questo siamo venuti oggi a Roma.

 

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... I due amici che, dopo undici anni, si sono rivisti, due ore fa hanno finito la loro chiacchie­rata e riprendono ora la loro strada, salutandosi: «Arrivederci... e buon lavoro!».

 

 

 

(*) Per gentile concessione della Caritas italiana, pubblichiamo integralmente la relazione di presentazione della seconda indagine nazionale sui servizi socio-assistenziali collegati con la Chiesa presentata dal Prof. G. Sarpellon al convegno tenutosi a Roma dal 7 al 9 novembre 1990. La pubblicazione «Chiesa e emarginazione in Italia - Rapporto n. 2» è edita dalla Elle Di Ci, Leumann, Torino, 1990.

 

 

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