Prospettive assistenziali, n. 95, luglio-settembre 1991

 

 

L'OSPEDALIZZAZIONE A DOMICILIO: UN SERVIZIO DA SVILUPPARE

ARGIUNA MAZZOTTI

 

 

Curare a casa i vecchi. Sempre. Quando sono stati dimessi dall'ospedale che li ha tirati fuori dal rischio acuto ma nulla può fare per la croni­cità che si portano addosso, quando la malattia prosegue il suo cammino fatale e nulla può fermarla, quando da soli non ce la fanno più e qual­cuno deve provvedere per loro, quando c'è bisogno di stargli dietro tutto il giorno per tentare di riabilitarli, in tutti i casi in cui l'ospedale anche se serve può fare danni.

Le cure ospedaliere possono essere benissimo trasferite a casa anche quelle più complesse, plurispecialistiche, plurimonitorate, come le te­rapie intensive cardiologiche, respiratorie, metaboliche, neurologiche, la depurazione dialitica, l'alimentazione parenterale, i trattamenti pallia­tivi terminali. Tutte cose che solo l'ospedale può praticare a domicilio.

Da Strasburgo il Consiglio d'Europa raccomanda: rendere estesa la possibilità di curare il paziente anziano ospedalizzandolo a casa. Cioè in­viare a domicilio del malato lo staff ospedaliero, medici, primario, aiuti, assistenti, chirurghi, ortopedici, specialisti, infermieri, terapisti e magari pure il cappellano.

Trasferire a domicilio le attrezzature ospedaliere, il letto reclinabile con spalliere laterali, le carrucole e i pesi per le trazioni, i materassi anti­decubito ad aria e ad acqua, le piantane per fle­boclisi, carrozzelle, bombole d'ossigeno, appa­recchi per la respirazione assistita, aspiratori, nebulizzatori, e, se necessario, difibrillatori a portata di mano di chiunque, debitamente istruito e autorizzato, sia in grado di utilizzarlo d'urgenza. Più tutto quello che si rendesse necessario al caso.

Chi ci deve pensare è naturalmente l'ospedale più vicino col proprio personale e le proprie attrezzature come si conviene ai compiti di un re­parto di degenza.

Se si volesse puntare all'estensione del servi­zio anche laddove mancano ospedali pubblici, pure se la convenzione con l'ospedalità privata sarebbe un rischio molto elevato, non si può escludere aprioristicamente, se si vuole final­mente assistere gli anziani ammalati inabili, senza farli languire in un letto di corsia, ospedale o cronicario che sia.

Ma questo servizio a domicilio è poi così importante e decisivo? E perché? Perché, sembra per le esperienze che si sono fatte in USA, Inghilterra e Francia, e qui da noi a Torino, che renda di più in termini di efficacia, di risultati e di gradimento, e finisca persino col costare di me­no di una degenza ospedaliera.

Comunque bisogna cominciare col dire che, anche volendo, l'ospedalizzazione nell'ambito familiare non può essere estesa a tutti quelli che ne avrebbero bisogno. Infatti non si può fare a meno di tre condizioni: primo, che il paziente abbia una casa; secondo, che abbia una famiglia che voglia e sappia collaborare coi sanitari; terzo, che il medico di famiglia s'impegni a partecipare all'assistenza.

Se queste condizioni non ci sono, e gli anzia­ni disabili non hanno dove andare, bisognerebbe avviarli alle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) solo che, anche se il finanziamento per la loro istituzione è stato stanziato dalla legge del 1988, per quel che si sa, sono ancora allo stato di progetto programmatico a livello regionale. In ogni modo in queste residenze dovrebbe es­sere garantita, oltre l'assistenza sanitaria di ba­se e quella specialistica distrettuale di cui alla legge istitutiva del sistema sanitario nazionale, anche l'home care, cioè gli interventi program­mati a domicilio di competenza regionale che comprendono l'ospedalizzazione a domicilio.

Un piano dettagliato di come dovrebbero arti­colarsi questi servizi a favore degli anziani cro­nici non autosufficienti è contenuto nella propo­sta di legge regionale promossa da un gruppo di associazioni di volontariato del Piemonte, co­ordinate dall'Unione per la lotta contro l'emargi­nazione sociale. La proposta prevede i servizi sanitari territoriali di base, distrettuali e ospeda­lieri, integrati tra loro in modo da coprire tutte le necessità dei malati anziani disabili. Se ciò fosse realizzato, non resterebbe al volontariato che il compito di vigilanza sul rendimento dei servizi in termini qualitativi, e la cosa non sareb­be secondaria, perché come si sa per esperienza, tutto ciò che si fa, non basta deciderlo una volta per tutte.

È stato affermato che l'ospedalizzazione a domicilio conviene a molti ma non a tutti e i mo­tivi sono presto detti. Di certo conviene, senza riserve, agli anziani che dovrebbero essere ri­coverati in ospedale o che sono stati dimessi senz'essere guariti, perché affetti da patologie non regredibili o a carattere evolutivo.

In primo luogo conviene per motivi di dignità, nel senso che si sta a casa propria conservando il proprio ruolo e i propri riferimenti ambientali anziché diventare un numero in corsia, sentirsi chiamare nonnino e dare del tu da chiunque. Poi per motivi affettivi, perché nessuno, per quanto animato da spirito samaritano, potrà mai sostituire il calore familiare, quando c'è, benin­teso. Infine per ragioni di sicurezza perché il rap­porto coi sanitari ospedalieri perde il suo carat­tere di anonimità per diventare diretto e perso­nale, per di più in collaborazione col proprio me­dico di fiducia.

Già questi vantaggi soggettivi dovrebbero ba­stare per far capire la superiorità di questo tipo di intervento rispetto a quello in reparto ospe­daliero. Ma ci sono poi un'infinità di picco,li van­taggi che possono contribuire a rendere più effi­cace la cura o, alla peggio, più sopportabile la malattia, come avere accanto le persone desi­derate anziché altri ammalati magari più gravi, la possibilità di decidere i propri ritmi di riposo e di veglia, di graduare le condizioni ambientali, di ottenere il rispetto del pudore e della privacy, di poter avere la possibilità di rapporti con gli amici, e perché no? affettivi e sessuali.

L'altro motivo di superiorità delle cure domi­ciliari, in base alle esperienze finora effettuate, è che costano di meno. Intanto il personale uti­lizzato è quello previsto dall'organico dell'ospe­dale, per cui non c'è bisogno di pagarne altro, semmai si potrà contrattare l'estensione delle mansioni. Si potrà prevedere in fase di avvia­mento una transitoria e contenuta possibilità di aumento della spesa per l'incentivazione, ma è certo che la spesa alberghiera dell'ospedale con tutte le sue voci, di biancheria, lavanderia, vetto­vagliamento, alimentazione, consumi, utenze, po­trà essere ridotta. S'intende, non verrebbe eli­minata del tutto, ma contenuta in modo consi­stente, questo sì, perché gli ammalati da assi­stere a domicilio sono in genere degenti a basso costo curativo e ad alto costo alberghiero, al contrario degli acuti che costano molto per le cure e poco per la spesa alberghiera. Senza met­tere nel conto il vantaggio che ne ricaverebbe l'efficienza dell'ospedale con la dimissione pro­tetta dei lungodegenti, che renderebbe possibile la revisione dei posti letto, degli organici, delle attrezzature, in rapporto con le particolarità spe­cialistiche dei reparti. A questo punto c'è da domandarsi, ma allora perché non si fa?

I motivi sono tanti, ma fondamentalmente è uno: manca l'interesse degli operatori sanitari. Si capisce che l'ospedalizzazione a domicilio che richiede doti di umanità e di disponibilità che se non si hanno è difficile darsi, costa fatica e competenza, perché si tratterebbe di avere cu­ra di ammalati difficili poco gratificanti per le scarse prospettive di recupero, per di più sotto lo sguardo critico dei familiari. Inoltre gli ope­ratori dovrebbero sobbarcarsi tutti i giorni il di­sagio degli spostamenti che ovunque, in città grandi e piccole, sono il problema del giorno. Poi manca la sicurezza sia dei medici che degli infer­mieri che sono abituati a svolgere la loro attività al riparo delle mura dell'ospedale, sotto la tute­la della responsabilità gerarchica. Anche i pro­pri interessi di seconda occupazione sarebbero intaccati per la riduzione delle occasioni di cure domiciliari remunerative. Ma più ancora le cate­gorie interessate paventano lo svuotamento del­le corsie che provocherebbe l'inevitabile ridu­zione dei posti letto, con conseguenze sugli or­ganici e le carriere.

Non c'è da menar scandalo per questo, lo di­ceva già nel secolo scorso Carlo Marx che molte attività trovano giustificazione soltanto in se stesse, solo che trattandosi di servizi che do­vrebbero essere resi ad altri, bisognerebbe ca­pire come arrivare ad organizzare l'ospedaliz­zazione a domicilio con soddisfazione di tutti, ammalati, medici e infermieri. Tutto sommato, non dovrebbe essere un'impresa impossibile se si entra nell'ordine d'idee che l'organizzazione sanitaria ha senso solo se si cura degli ammalati e che ogni altro interesse, per quanto compren­sibile, non può prevalere sempre.

Chissà? forse per una strana disposizione de­gli astri è successo a Torino che, il 30 ottobre 1984, l'USL 1-23 ha deliberato di «reinserire, dopo il ricovero ospedaliero, il malato, specialmente quello anziano cronico o in fase terminale, nel suo contesto familiare, garantendogli la stessa assistenza».

Lo scopo era duplice, sperimentare un inter­vento sanitario integrato e unificato e ridurre il tasso di ospedalizzazione. Così da quel giorno in Italia, anche se solo a Torino, è iniziata l'era dell'assistenza ospedaliera a domicilio.

In USA, Francia, Svizzera e Inghilterra è un bel pezzo che funziona e se qualcuno di quelli che hanno il potere di decidere scegliesse di spendere meglio i soldi della sanità risparmian­do, potrebbe farsi un giretto, magari pagato dal­la collettività, purché al ritorno si desse da fare come hanno fatto quelli della Divisione Univer­sitaria di Geriatria dell'Ospedale Maggiore di To­rino diretta dal prof. Fabrizio Fabris.

È vero che ci sono voluti due anni per mandare a regime il servizio ma poi ci sono riusciti con 12 infermieri professionali che svolgono il loro la­voro a domicilio. Il lavoro dei medici è assicu­rato da 7 assistenti coordinati da un aiuto. I me­dici continuano a lavorare in corsia.

L'attività domiciliare prevede tre momenti: - interventi a letto dell'ammalato;

- riunione d'équipe per la predisposizione e l'organizzazione del piano di assistenza;

- servizio di segreteria per l’accoglimento del­le richieste di ricovero, e guardia per rispon­dere alle chiamate d'emergenza. La segrete­ria provvede anche all'approvvigionamento del materiale sanitario e farmaceutico da in­viare a domicilio, all'invio e ritiro degli ac­certamenti di laboratorio, all'assistenza per il trasporto con proprie autolettighe dei malati che hanno bisogno di accertamenti o inter­venti da fare in ospedale.

Il lavoro si svolge con un protocollo che pre­vede il controllo dell'idoneità delle condizioni ambientali del ricovero familiare, l'apertura e l'aggiornamento della cartella clinica, la discus­sione e il trattamento collegiale del caso clinico. Nei casi di maggior impegno sono previsti uno o due passaggi giornalieri e il monitoraggio te­lefonico per l'emergenza.

In quattro anni di attività, dall'ottobre del 1985 all'ottobre 1989 sono stati presi in cura 519 am­malati. Di questi, 298 sono stati dimessi, 51 sono stati trasferiti in ospedale, 7 in cronicari, 7 in ospedali diurni, 17 continuano ad essere assistiti e 139 sono deceduti. L'attività svolta a domicilio è stata quella di un reparto ospedaliero con 30 letti, occupati al 79% per quattro anni; le visite mediche sono state 5.800, quelle infermieristiche 17:627 e i pazienti sono stati seguiti per 34.413 giorni di ospedalizzazione corrispondenti a quelli registrabili in reparti ospedalieri di cura non in­tensiva.

Dato costante è stato il miglioramento delle condizioni di malattia anche in casi inattesi a confronto con casi analoghi ricoverati in ospe­dale e il peggioramento quando l'ospedalizzazio­ne a domicilio si è dovuta interrompere per crisi della famiglia o altri motivi.

Un bilancio positivo sotto tutti i profili, ancor più lusinghiero se visto dal punto di vista eco­nomico, perché la spesa giornaliera per assisti­to a domicilio si è aggirata attorno alle 70 mila lire, ben al di sotto di quella di una comune de­genza ospedaliera.

Si è parlato dell'ospedalizzazione a domicilio nella convinzione che, a parte l'utilità e i van­taggi, sia un servizio che può essere organizzato senza troppe difficoltà. Ma non basta, perché non ci sono soltanto gli anziani che hanno bisogno di cure ospedaliere. Ci sono ammalati che hanno bisogno di cure ospedaliere diurne che possono tornare a casa a dormire e viceversa quelli che invece hanno bisogno di assistenza notturna per­ché di giorno possono vivere in casa. Poi ci sono quelli che hanno bisogno di brevi ricoveri, due o tre giorni ogni una o due settimane, e quelli che si accontenterebbero che il medico gli faces­se visita ogni tanto, magari in base ad un pro­gramma prestabilito in cui ci fossero comprese le eventuali consulenze specialistiche e i riscon­tri clinici e di laboratorio.

È chiaro che questa gamma di servizi ha un costo che richiederebbe spostamenti di spesa nel comparto della sanità. Ma non solo di finan­ziamenti si dovrebbe parlare perché il problema è anche culturale e organizzativo per cui le cose si complicano anche sotto il profilo della forma­zione professionale e quello amministrativo.

Quel che allo stato attuale sembra inevitabile è che, con l'invecchiamento della popolazione e col fatto che i vecchi diventano sempre più vec­chi ma anche più cronici, l'organizzazione sani­taria si debba aggiornare.

Chi ci pensa? Quel che è certo, è che una buona spinta può venire dall'associazionismo perché dal pubblico o dal privato fino al momento non ci sono segnali.

 

 

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