Prospettive assistenziali, n. 91, luglio-settembre 1990

 

 

I MALATI NELLA FASE FINALE DELLA VITA (*)

FONDAZIONE ZANCAN

 

 

Presentazione

I partecipanti al seminario svolto a Malosco dal 24 al 28 luglio 1988, organizzato dalla Fondazione Zancan, dopo aver ascoltato una breve pre­sentazione di un dossier sul tema (A. Lovati), le relazioni di base sui bisogni sanitari (E. Baldoni) e sui bisogni psicologici (L. Valera) del malato nella fase finale della vita e brevi esposizioni sulla attività svolta dagli intervenuti appartenenti ad istituzioni (Ospedali, USSL, Chiesa Cattolica) e ad associazioni di volontariato, si sono raggruppati in 3 commissioni di studio sui temi:

I. tutela della dignità e diritti dei malati,

II. organizzazione dell'assistenza,

III. problemi culturali.

A conclusione del seminario, le elaborazioni delle tre commissioni sono state lette in assemblea e brevemente discusse.

Le considerazioni scaturite dovevano focalizzare i nodi problematici dei temi in esame. Non si intendeva (e anche il tempo a disposizione non avrebbe permesso) formulare una dichiarazione sottoscritta unitamente da tutti i partecipanti.

Il documento finale può costituire il punto di partenza per una ricerca che miri a studiare a fondo l'argomento.

Alcuni degli argomenti trattati sono di carattere generale e non si riferiscono specificatamente al problema dei malati in fase finale della vita, però sono di sfondo e di quadro e sono stretta­mente collegati con il tema del seminario.

Si tenga presente che trattando i problemi del «malato nella fase finale della vita» si sono con­siderati l'anziano cronico non autosufficiente ed il malato di cancro in stadio avanzato. Non si sono prese in esame le situazioni particolari del dia­lizzato, del malato di AIDS, del bambino.

Alcuni contenuti ritornano nelle tre relazioni, , trattati sotto aspetti diversi: si è preferito lasciar­li nella forma in cui sono stati espressi dalle di­verse commissioni.

Hanno partecipato alle elaborazioni: Giuseppina Abeni, Lorenza Anfossi, Gianluigi Barbero, Giuseppe Belloni, Maria Grazia Breda, Rosetta Cappelli, Marina Cellai, Giovanni Maria Colombo, Vodia Cremoncini, Marisa Cruccu, Erminio Ermi­ni, Sarina Lombardo, Antonio Lovati, Martina Lo­vati, Luigi Menna, Giovanni Nervo, Mariena Scas­sellati Galetti, Mario Veronese e Pietro Zara­mella.

 

Testo rielaborato da A. Lovati.

 

 

ISTITUZIONI, SERVIZI E VOLONTARIATO: TUTELA DELLA DIGNITÀ E DEI DIRITTI DEL MALATO NELLA FASE FINALE DELLA VITA

 

1. Premessa

Si fissa l'attenzione sulla Carta dei diritti del malato dell'OMS i cui punti fondamentali si possono sintetizzare come segue:

a) diritto di mantenere la propria identità;

b) diritto alla speranza durante tutto il decorso della malattia;

c) diritto di mantenere te proprie convinzioni morali e religiose;

d) diritto di essere curato, di conoscere la ve­rità, di conoscere le cure e di interloquire nella scelta delle terapie;

e) diritto di esprimersi e di reagire nel proprio modo;

f) diritto di non morire da solo.

 

a) Diritto di mantenere la propria identità

I cambiamenti che intervengono nella vita del malato al momento del ricovero provocano a volte in persone deboli o anziane turbe della coscienza, che si manifestano attraverso sindromi confusio­nali acute. In tale caso si verifica una perdita di identità non attribuibile a comportamenti scorretti degli operatori. Questo fatto è ineluttabile? Un diverso modo di accogliere, di preparare l’ingresso in ospedale potrebbe evitare questa crisi?

È fortemente sentita dal malato l'esigenza di avere accanto a sé, in caso di ricovero, un familiare, una persona amica o un volontario. Ciò pone problemi concreti, tra i quali l'osservare gli orari di visita in ospedale, la possibilità di usufruire di una stanza singola almeno nel momento di maggiore gravità. A questo proposito nasce la que­stione a chi spetta dire quando si verifica il mo­mento di gravità.

Si sottolinea che l'affermare il diritto al man­tenimento della propria identità può anche riguar­dare il modo in cui chi avvicina il malato si rap­porta con lui nel momento in cui è debilitato e non è in grado di agire o reagire (vedi: AAVV - Lineamenti per una carta dei diritti dell'anziano non autosufficiente, in Servizi sociali, 15, 2, pag. 51-60, 1988).

Si riconosce che il malato conserva la propria identità anche se non è cosciente e che quindi deve essere rispettato, così come succede nel caso del neonato.

 

b) Diritto alla speranza

Cosa significa questo diritto quando si ricono­sce il diritto del malato di sapere la verità sulla propria malattia e sulla prognosi della stessa? La speranza va sempre conservata. Anche quando il malato è nello stato finale ha bisogno di non sentirsi abbandonato: non conta tanto il prose­guimento della terapia, quanto l'atteggiamento di coloro che gli stanno vicini.

Da notare il tipo di «abbandono» e quindi la perdita di speranza che si verifica alla dimissione dall'ospedale, quando non ci sono certezze per il dopo, né sul tipo di terapie che si potranno at­tuare, né sul tipo di assistenza e quando gli oneri economici a cui va incontro si profilano esorbi­tanti... L'anziano o il malato nella fase finale si sente, ed è, rispettato nel caso in cui il medico di base non lo visiti, non lo curi, non lo incoraggi?

È opportuno rendere il malato almeno in parte consapevole dell'evoluzione della malattia? Non si può dare a questa domanda una univoca rispo­sta, ma occorre distinguere fra soggetto e sog­getto, e anche fra medico e medico: ciascuno ha una propria capacità e mentalità nell'affrontare situazioni difficili.

Nella struttura ospedaliera attuale non è pos­sibile dialogare in modo riservato con gli amma­lati. La corsia o la camera a più letti non lo con­sente e non consente neppure di visitare un am­malato, di spogliarlo, se non «in pubblico». Le at­tuali strutture male si prestano al rispetto della dignità di ciascuno.

Quando il malato ha superato la fase acuta e viene dimesso dall'ospedale, talvolta trova pres­so strutture socio-assistenziali garanzie del pro­seguimento delle cure, ma spesso viene di fatto abbandonato a se stesso. Mancano a tale propo­sito risposte adeguate e la legge stessa non è sufficientemente esplicita.

 

c) Diritto di mantenere le proprie convinzioni morali e religiose

Nella fase finale della vita il rapporto del ma­lato con il ministro del culto in cui si riconosce, se desiderato, fa parte del rispetto della dignità, della identità e dei diritti fondamentali dello stesso.

Per chi crede in un proseguimento della vita oltre la morte e in un valore ultraterreno della sofferenza, la fede e l'assistenza religiosa che la sostiene costituiscono un fattore fondamentale per raggiungere la serenità, conservare la spe­ranza e attuare la conclusione della vita in modo pienamente umano.

Pertanto le istituzioni ed i servizi pubblici e privati devono rispettare nella fase finale della vita questa esigenza e questo diritto del malato credente. Per l'efficacia reale di questo aiuto è però necessario che il ministro del culto:

- sia desiderato dal malato, almeno per l'aiu­to morale e psicologico che gli può dare;

- stabilisca un reale rapporto umano e non riduca il suo intervento agli aspetti puramente formali del culto;

- sia facilmente reperibile quando richiesto; - sappia instaurare, ove possibile, un rapporto costruttivo con la famiglia aiutandola a vivere l'evento finale in modo responsabile e positivo per il malato e per essa stessa.

 

d) Diritto di essere curato, di conoscere la verità, di conoscere le cure e di interloquire nella scelta delle terapie

Il diritto degli anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, è stabilito dalle seguenti disposizioni:

- in base alla legge 692/1955 l'assistenza sa­nitaria deve essere fornita senza limiti di durata alle persone colpite da malattie specifiche della vecchiaia;

- secondo il decreto del Ministero del lavoro del 21-12-1956 l'assistenza ospedaliera deve esse­re assicurata a tutti gli anziani quando gli accer­tamenti diagnostici, le cure mediche o chirurgi­che non siano normalmente praticabili a domi­cilio;

- l'art. 29 della legge 132/1968 impone alle Regioni di programmare i posti letto negli ospe­dali tenendo conto delle esigenze dei malati acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti; significati­vo anche l'art. 41 della stessa legge;

- la legge di riforma sanitaria (legge 833/78). Si veda anche G. Perico - Anziani cronici non autosufficienti: Rilievi giuridico-amministrativi e note etico-sociali, in Aggiornamenti sociali, luglio agosto 1988.

È un dovere informare del decorso della malat­tia la persona interessata, quando questa lo ri­chieda, passando o no attraverso i familiari a se­conda dei casi. La comunicazione della verità de­ve comunque essere fatta in modo da mantenere viva la speranza.

Risulta molto difficile individuare criteri in base ai quali decidere se e quando «dire la verità». Si ritiene che nell'ultima fase della vita ogni perso­na - se in condizione di lucidità mentale - ca­pisca da sé che il momento della morte è vicino; ciò sarà sempre più vero man mano crescerà la cultura comune.

Il diritto di interloquire sulla scelta della tera­pia è difficile da rispettare in quanto il malato nella maggior parte dei casi non ha sufficienti conoscenze per affrontare questo tema. C'è tut­tavia da osservare che il diritto potrebbe signifi­care: essere informato sia delle terapie che gli sì applicano, sia sulle loro conseguenze.

 

e) Diritto di esprimersi e di reagire nel proprio modo

Il malato ha diritto di mantenere anche nell’ospedale o nella casa di riposo un minimo di abi­tudini personali. Oggi motivi organizzativi e di ordine estetico prevalgono spesso sulle esigenze delle persone.

Per uno straniero è da sottolineare il diritto di servirsi di un interprete.

 

f) Diritto di non morire da solo

L'organizzazione delle grandi strutture ospeda­liere rende difficile il rispetto di questo diritto. La presenza di un volontariato specifico per l'as­sistenza ai malati in fase finale potrebbe evitare l'abbandono del morente.

C'è da chiedersi se sia ancora attuale l'esigen­za di morire in famiglia e se nella decisione di morire a casa piuttosto che in ospedale debba prevalere il parere dell'interessato o dei fami­liari.

I cronici non autosufficienti arrivano quasi sem­pre all'exitus per situazioni di tipo neoplastico metastatizzato, insufficienza epatica e renale a lungo decorso, ma soprattutto per marasma seni­le, arteriosclerosi sistemica, sindrome da allet­tamento. Sono queste le cause di morte che più frequentemente si riscontrano nelle corsie geria­triche. Nella maggior parte dei casi la fase ter­minale è contrassegnata da una «indifferenza cro­nica» da parte del personale sanitario, che ha la sua motivazione in slogan stereotipati, quali: «il paziente anziano muore sempre allo stesso modo», «non c'è nulla da fare oltre a quello che già si è fatto», «siamo ormai abituati a queste morti»,... Sono atteggiamenti professionali ma­scheranti scarsa o nulla partecipazione prima e dopo l'evento «morte», se non addirittura parto di frustrazione e stato d'animo comune a molti operatori geriatrici.

È triste dover riconoscere anche che nella fase preterminale spesso alcuni dei familiari attendo­no la fine con una sorta di pseudo-sofferenza, che in effetti nasconde la verità e si identifica in una attesa che stanca e a volte disturba, e desiderano la conclusione al più presto possibile.

Ma vi è spesso chi, nella famiglia, soffre gra­vemente e non vorrebbe che la fine arrivasse. Da ricordare lo strazio di figli che vivendo con uno dei genitori avevano stabilito con lui una simbiosi affettiva di altissimo grado: la scompar­sa del genitore amato suscita in loro uno stato di profonda angoscia e segna l'inizio di un tempo di carenza affettiva e di insicurezza materiale.

Si sottolinea il valore delle carte dei diritti co­me strumenti orientatori di comportamento per chi è chiamato ad operare in questo campo.

Sarebbe opportuno che una legge nazionale definisse i diritti del malato, in modo da garan­tire omogeneità su tutto il territorio nazionale, rendendo cogenti i principi contenuti nelle carte, cosa che alcune Regioni hanno ritenuto necessa­rio fare. Una normativa nazionale semplifichereb­be anche il corso della giustizia eliminando una serie di ricorsi.

 

2. Nelle strutture pubbliche o private possono essere rispettati la dignità e i diritti dei malati nella fase finale della vita?

Punto di partenza è il riconoscimento che le persone nella fase finale della vita sono malati e come tali - secondo quanto prevede la nostra legislazione - fanno riferimento al settore sa­nitario.

La dichiarazione D del documento dell'ISTISS­-CSPSS del 1988, riportata nel seguito, chiarisce questo punto ed in particolare quale sia il settore (sanitario o assistenziale) a cui devono far capo competenze, responsabilità, oneri finanziari,... relativi alle persone di cui si tratta.

«I servizi a favore delle persone gravemente non autosufficienti devono poter realizzare eco­nomie di spesa senza ledere il diritto alla cura e senza ridurre la qualità delle prestazioni sani­tarie.

«Il criterio di economicità non può risolversi nella privazione del diritto alla cura con il passag­gio delle persone gravemente non autosufficienti al settore assistenziale. Né può risolversi nella riduzione della quantità e qualità delle presta­zioni.

«Le economie vanno realizzate istituendo ser­vizi più elastici, di facile gestione e strutturazio­ne, domiciliari o residenziali, che garantiscano il massimo dell'intervento con una spesa inferiore.

«Va riaffermato il principio che in nessun caso possono essere realizzati travasi impropri dal set­tore sanitario a quello socio-assistenziale le cui caratteristiche essenziali sono, costituzionalmen­te, divise e distinte come segue:

 

Settore sanitario

 

«La Costituzione estende gli interventi a tutti i cittadini senza alcuna limitazione.

 

 

«Le prestazioni sono fornite immediatamente a semplice richiesta del cittadino.

 

 

«I servizi sono gratuiti salvo tickets.

 

 

 

«Nessuna contribuzione è a carico dei parenti tenuti agli alimenti.

 

«La legge richiede abilitazioni e titoli specifici e prevede mansionari tassativi.

 

 

«Gli standards minimi delle strutture pubbliche e private, anche se non soddisfacenti, sono da anni definiti da leggi nazionali.

 

Settore assistenziale

 

La Costituzione limita gli interventi ai cittadini “inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere” (art. 38 Cost.).

 

Le prestazioni sono fornite solo dopo l'effettuazione di inchieste sociali (spesso lunghe).

 

 

Agli utenti viene sempre richiesto un contributo, esclusi evidentemente coloro che sono privi di mezzi economici.

 

Molto spesso viene richiesto un contributo eco­nomico anche ai parenti tenuti agli alimenti.

 

La legge non richiede abilitazioni o titoli specifici, né prevede mansioni, neppure per la direzione dei servizi.

 

Gli standards minimi delle strutture pubbliche e private non sono definiti da nessuna legge nazio­nale».

 

Partendo dal concetto che la casa di riposo è una struttura priva di assistenza sanitaria, in quanto la legge non richiede qualificazioni speci­fiche né per i responsabili, né per il personale, si conclude che un malato nella fase finale della vita non dovrebbe esservi ricoverato. Le istitu­zioni private si possono attrezzare per dare an­che risposte di tipo sanitario, ma in questo caso diventano strutture sanitarie. Tali decisioni do­vrebbero essere previste in un piano programma­torio complessivo e non lasciate soltanto alla libera iniziativa.

Uno dei nodi attuali del sistema sanitario, che si ritiene risolvibile, è quello del miglior colle­gamento fra servizio specialistico ospedaliero e medicina di base, collegamento che dovrebbe di­ventare obbligatorio.

Alla luce delle indicazioni comprese nel testo della convenzione per la medicina di base c'è da interrogarsi sulla possibilità e/o volontà del me­dico di base di seguire questi tipi di pazienti a domicilio. Su questa questione gioca anche il pregiudizio, in base al quale si ritiene che nella fase finale il malato richieda molto tempo e cure impegnative: egli certo non può essere guarito, ma deve essere curato.

Si sottolinea che su questi pazienti non è suffi­ciente l'assistenza del medico di base, ma occor­re disporre di altri operatori: l'infermiere, l'assi­stente domiciliare ed eventualmente i volontari; è inoltre importante coinvolgere la famiglia, quando è presente con forze sufficienti.

Si va verso soluzioni del tipo della ospedaliz­zazione a domicilio, che potrebbe fra l'altro risol­vere il problema cruciale del rapporto tra l'ospe­dale ed il territorio. A questo proposito è molto interessante l'esperienza di Torino realizzata dalla USL 1-23 e dalla Divisione di geriatria universita­ria dell'Ospedale Maggiore di San Giovanni Batti­sta e della Città di Torino (vedi: F. Fabris e L. Per­nigotti, Ospedalizzazione a domicilio, Rosenberg & Sellier, Torino, 1987). È probabile che inizialmente abbia giocato a favore della scelta di operare fuo­ri dall'ospedale il desiderio di fare in modo nuovo la sperimentazione, la formazione,... Successiva­mente sono entrati in scena anche altri operatori, perché hanno visto in questa situazione una mo­dalità di lavoro più gratificante, sia per il rappor­to con un malato più sereno, sia per la possibile collaborazione con una famiglia più disponibile. L'ospedalizzazione a domicilio può essere propo­sta anche nel caso di malati nella fase finale del­la vita.

Il VIDAS di Milano ha tentato di portare sul territorio l'équipe oncologica ospedaliera, senza riuscirvi per la difficoltà di ottenere l'atto formale deliberativo che consentisse ai medici ed al per­sonale infermieristico di espletare un servizio domiciliare.

Occorre approfondire le indicazioni normative in tema di sperimentazione ed agire perché essa possa essere sviluppata non solo dagli istituti universitari, ma anche dalle normali strutture ospedaliere.

Il medico geriatra deve poter essere coinvolto nell'attività di cura domiciliare ed uscire quindi dall'ospedale, valorizzando così la geriatria extra­ospedaliera.

Tenendo conto inoltre dell'attuale difficoltà di trovare soluzioni per i malati anziani cronici si potrebbe avanzare, come ipotesi transitoria, la proposta di riconvertire i numerosi piccoli ospe­dali esistenti (rami secchi attualmente operanti per ragioni e obiettivi diversi da quelli della cu­ra) in strutture sanitarie Idonee ad accogliere questi malati: oggi c'è il pericolo che sia il setto­re assistenziale ad essere coinvolto (vedi i 140 mila posti letto previsti dalla legge finanziaria 1988). Questa soluzione è da verificare, in quanto c'è il rischio che essa porti ad una nuova forma di emarginazione sociale.

Qualora nelle case di riposo private fosse in atto anche l'assistenza sanitaria, si riterrebbe in­dispensabile arrivare ad una regolamentazione da parte del Servizio Sanitario Nazionale, che con­senta di emanare norme sugli standards di pre­stazioni e di controllarli, in modo da garantire il rispetto delle leggi ed i diritti del malato.

Si ritiene di dover affermare che, quando non e possibile trovare per il malato nella fase finale una soluzione idonea diversa dall'ospedale, que­sto non deve dimetterlo e deve curarlo ed assi­sterlo fino al momento della morte. Questa posi­zione deve valere anche per le case di cura pri­vate convenzionate con il Servizio sanitario na­zionale.

Si dovrebbe:

- promuovere nel settore pubblico soluzioni abitative di piccole comunità sul modello del­l'hospice;

- incentivare le istituzioni private a conven­zionarsi con il Servizio sanitario nazionale (setto­re sanitario delle USSL), quando ospitano malati in fase finale.

Si ritiene di dover favorire esperienze di ospe­dalizzazione a domicilio in alternativa alle case di riposo e alle piccole comunità.

 

3. Come combattere e superare la sfiducia nelle istituzioni e nei servizi per tutti (e pagati con il denaro di tutti) dato che soltanto questi possono assicurare la dignità e i diritti di tutti?

Il problema di fondo è di educazione e cultura: negli operatori si esigono capacità tecnica e capa­cità di rapporto con il malato. Purtroppo si frap­pongono molte difficoltà legate alla personalità dell'operatore, ai suoi interessi, al diverso modo di concepire il proprio lavoro.

Ecco i principali motivi alla base degli atteggia­menti di sfiducia nelle istituzioni preposte ai ser­vizi socio-sanitari:

- il trattamento spesso scadente e/o scarsa­mente personalizzato;

- la carenza di servizi adeguatamente attrez­zati;

- il clientelismo nell'assegnazione dei posti letto;

- la burocratizzazione dei rapporti del malato e dei suoi familiari con il personale medico;

- la mancanza di controlli sull'applicazione delle norme, ad esempio su quelle relative alla edilizia ospedaliera.

Tuttavia il discorso della sfiducia non può es­sere generalizzato: vi sono molte persone che riconoscono validi alcuni presidi ed alcune équi­pes sanitarie.

Altro problema è la presenza negli ospedali del personale religioso, soprattutto di quello femmi­nile. La riduzione numerica ha coinciso anche con una riduzione della qualità di intervento delle re­ligiose. Questo tuttavia è un problema da ricolle­garsi non tanto allo status religioso, ma al tema della responsabilità. Forse oggi si deve mirare ad una riappropriazione - da parte degli operatori di tutti i livelli dell'organizzazione - del valore della responsabilità, che si è andato perdendo nel tempo. Un'adeguata formazione, soprattutto la formazione permanente, può essere uno strumen­to per riportare l'attenzione anche sui valori etici fondamentali.

Il combattere questa situazione di sfiducia di­venta un impegno pressante per tutti coloro che credono nella giustizia sociale e pertanto occorre creare le condizioni perché chi sbaglia non possa sottrarsi a risarcire i danni e chi ha motivi per denunciare sia messo in condizione di farlo sen­za dover subire conseguenze a livello personale.

Al fine di promuovere questa riappropriazione dei valori di fondo, devono essere coinvolte le istituzioni, quali la chiesa, i partiti,...; anche il volontariato può avere un grosso ruolo in propo­sito.

La sfiducia può anche essere combattuta con la pubblicizzazione delle esperienze positive che si realizzano nelle strutture pubbliche. Occorre an­che considerare il peso che possono avere le azioni «micro», ad esempio la testimonianza di chi tenta di lavorare responsabilmente, di chi ten­ta di ricostruire rapporti interrotti, di dimostrare che anche i singoli operatori all'interno delle isti­tuzioni possono giocare un ruolo a favore del cambiamento e possono valorizzare i diritti delle persone.

 

4. Come comporre la conflittualità tra diritti sindacali, organizzazione del lavoro ed esigenze della dignità e dei diritti del malato?

La qualità della vita delle persone che devono ricorrere nell'ospedale, nelle case di riposo o a domicilio ad un servizio sanitario dipende in lar­ga parte dalla organizzazione del lavoro delle di­verse strutture e oggi questa passa attraverso la contrattazione sindacale.

Ora, come è successo nel passato che il sin­dacato non è sempre stato attento nello stesso modo ai diritti dei lavoratori e a quelli di chi non ha o non ha più lavoro, l'atteggiamento si ripete verso il lavoratore attivo e quello malato o pen­sionato. Eppure, a prescindere da ogni considera­zione etica, anche questi ultimi soggetti hanno maturato diritti, perché inseriti nel sistema pre­videnziale.

Molti equivoci riguardanti la organizzazione del lavoro nascono dal fatto che i contratti non hanno come riferimento - come dovrebbero - la «gior­nata del malato» e quindi tutte le sue esigenze.

Indubbiamente le forze sindacali devono tutela­re i diritti del personale medico ed infermieristi­co, devono tener conto dei diversi problemi che li coinvolgono, fra i quali rilevante anche la fru­strazione dovuta alla lunga permanenza accanto a persone anziane e ammalate, scarsamente gra­tificante. Purtroppo si verifica a volte che l'azione sindacale ostacola la risposta alle esigenze dei malati, impedendo anche ai lavoratori disponibili a soluzioni diverse, sia organizzative sia com­portamentali sulla linea di maggior rispetto alle esigenze della persona, di agire in altro modo da quello «contrattato».

Forse uno degli strumenti applicabili a lunga scadenza è la crescita di una diversa e più pun­tuale presa di coscienza collettiva su questi pro­blemi. Si ritiene che anche il volontariato, come movimento di pensiero, possa avere un ruolo di sollecitazione nel rapporto con il sindacato. Nel breve termine potrebbe essere utile istituziona­lizzare la sperimentazione di nuove forme di as­sistenza, legittimarla, finanziarla, incentivarla at­traverso meccanismi corretti.

Va inoltre detto che il fenomeno della conflit­tualità di per sé può essere valutato positivamen­te in quanto permette l'emergere dei problemi reali. Si osserva tuttavia che il problema non è tanto quello di comporre tale conflittualità, quan­to di stabilire priorità di valori. Il rispetto dei dirit­ti della persona malata è certamente predominan­te rispetto agli altri, ma il rispetto dei diritti dei lavoratori sicuramente contribuisce a migliorare la situazione nei confronti di quel malato a cui si vogliono dare risposte qualitativamente migliori.

Occorre tener conto delle difficoltà reali del sistema complessivo e procedere attraverso pro­poste concrete di modifiche realizzabili. Si con­stata che molte modifiche non richiedono aumenti di costi e possono essere attuate semplicemente attraverso la buona volontà dei singoli operatori della gestione, della amministrazione e dei ser­vizi.

Problema sempre aperto è la grossa carenza, non solo qualitativa, ma anche numerica, del per­sonale infermieristico. C'è da chiedersi perché i giovani, nonostante la grave situazione di disoc­cupazione, non appetiscano il lavoro come infer­mieri e perché questo si verifichi in concomitanza con il crescente impegno da parte di molti gio­vani in attività volontaristiche altrettanto gravose. Forse in queste attività essi trovano risposte ad un'esigenza di rapporto umano, che pensano di non riscontrare nel lavoro infermieristico impo­stato come è ora.

Rimane il fatto che la situazione culturale at­tuale tende a privilegiare concetti quali benesse­re, consumismo,... e si fa poco o nulla per agire in senso contrario.

Si richiama un altro problema; esistono agenzie di operatori professionali, ad esempio di infermie­ri, che come privati si associano ed offrono pre­stazioni a prezzi altissimi. Nessuno vigila su que­sti fatti che avvengono alla luce del sole e a volte sono anche sostenuti attraverso convenzioni tra ente pubblico e cooperative di infermieri. La stes­sa cosa vale per medici che fanno scopertamente attività professionali non consentite dal loro con­tratto, ma altamente remunerative.

 

5. Come esercitare la vigilanza democratica sul funzionamento delle istituzioni pubbliche e private e sull'applicazione delle leggi ai vari livelli per la tutela della dignità e dei diritti del malato nella fase finale della vita? Ruolo del volontariato

Una strada per esercitare il controllo è la de­nuncia. La denuncia di singoli può essere notifi­cata anzitutto al responsabile della istituzione; si può ricorrere alla magistratura, ma solo in casi estremi, affinché non diventi una modalità abitua­le e perda in tal modo efficacia.

Il riscontro positivo di tali azioni risulta assai più ampio rispetto al singolo problema affrontato, se ottiene una buona risonanza attraverso una adeguata pubblicizzazione. II volontariato può por­tare avanti proteste, denunce, segnalazioni sulla base delle informazioni raccolte dai familiari.

Rispetto all'esercizio della vigilanza da parte di associazioni di volontariato che operano all'in­terno di istituzioni, occorre tener conto sia dei vantaggi che nascono dalla conoscenza diretta dei problemi, sia del pericolo di venir espulse quando dovessero interferire con le decisioni del­le istituzioni stesse.

La denuncia è però la forma estrema: riflessioni sul funzionamento delle istituzioni devono essere portate avanti dalle associazioni di volontariato. Se unite fra di loro in forma federativa (come per esempio realizzano il MOVI, la FEDERAVO,...) possono dar corpo ad un movimento capace di esercitare una reale pressione nelle sedi oppor­tune. Attraverso il collegamento è anche possi­bile prospettare soluzioni e proposte in positivo, assumendo il ruolo (del resto previsto dalle Re­gioni) di promozione nei momenti ufficiali della consultazione.

 

 

 

 

(*) Prima parte del documento conclusivo del seminario della Fondazione Zancan tenutosi a Malosco dal 24 al 27 luglio 1988 sul tema «Istituzioni, servizi e volontariato di fronte al problema dei malati nella fase terminale della vita».

 

 

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