Prospettive assistenziali, n. 90, aprile-giugno 1990

 

 

PRINCIPI ETICO-SOCIALI SULLA PRIVATIZZAZIONE DELLE IPAB

GIOVANNI NERVO (*)

 

 

Per doverosa chiarezza faccio due premesse per spiegare il significato e la ragione della mia presenza a questo incontro-dibattito.

- Sono qui a titolo personale e quindi non rappresento né il pensiero della Conferenza Episcopale Italiana, né quello della Chiesa, né quel­lo della Fondazione Zancan, se non quando lo cito, anche se il mio pensiero l'ho maturato in seno a queste istituzioni.

Del resto non credo che il prof. Dogliotti si sente di rappresentare qui il Tribunale di Genova o l'Università delle Calabrie

- Per il fatto che sono qui non vuol dire che io sia d'accordo con tutto quello che verrà detto: Santanera lo sapeva quando mi ha invitato, come anch'io sapevo che su alcune cose non sarei stato d'accordo.

Del resto si può esprimere civilmente disaccordo in un reciproco rispettoso rapporto.

Né intendo contrastare o sostenere il disegno di legge regionale: non ho competenza in questa materia.

Allora per quale motivo sono venuto?

Per le due parole con cui inizia il titolo del dibattito: «Principi etici...».

1. Il primo principio etico, equivale per i credenti ad un Comandamento di Dio: non rubare. I patrimoni delle IPAB sono stati donati da privati cittadini per i poveri.

Prima che fossero donati erano di proprietà dei privati, dopo che sono stati donati sono di­ventati proprietà dei poveri.

Questo principio rimane, qualunque siano sta­te le vicissitudini storiche e giuridiche.

Ripeto qui quello che ho avuto modo di scrivere su Italia Caritas Documentazione del novembre 1988 e che Santanera ha fedelmente riportato in una sua nota sul problema che dibattiamo oggi: «Come Caritas e come Chiesa mi sembra che dovremmo essere vigilanti e decisi su un punto: sia che i patrimoni delle IPAB pas­sino ai Comuni, sia che passino ai privati, è do­veroso e necessario che venga rispettata la vo­lontà dei donatori e che i patrimoni rimangano destinati ai poveri. La cosa non è scontata e finora non c'è nessuna garanzia. Non sarebbe accetta­bile che il Comune nell'edificio della IPAB faces­se il museo, o il centro culturale, o il centro sportivo. Sarebbe ancora meno accettabile che il Consiglio di amministrazione di una IPAB pri­vatizzata ne ricavasse un albergo, o vendesse il patrimonio per investirlo in speculazione edili­zia per altri scopi e per interessi diversi da quelli fissati dal donatore.

«Certo le finalità devono essere aggiornate e adeguate ai bisogni attuali, ma non disattese e stravolte. La Chiesa su questo punto ha una pre­cisa responsabilità morale perché questi patri­moni sono stati messi a disposizione dai dona­tori nelle sue mani per i poveri».

Queste cose le ho scritte nel novembre 1988.

Repubblica del 22.11.1989 le riferisce alla legge regionale che è del 29 giugno 1989: «Forti perplessità sul progetto della Giunta sono state espresse anche dalla Chiesa». «Mons. Giovanni Nervo... ha detto:...» e cita quello che avevo det­to un anno prima, senza ovviamente nessun ri­ferimento alla proposta di legge regionale.

È un esempio, un po' fastidioso, ma eclatan­te, di come la stampa talvolta manipola l'infor­mazione.

Comprendo bene che i principi etici per di­ventare operanti devono passare attraverso il filtro, e anche i condizionamenti delle leggi, che sono inevitabilmente frutto di compromesso fra le varie forze politiche rappresentate in Parlamento. Allora io pongo alcuni quesiti al prof. Dogliotti.

Il primo quesito riguarda le IPAB che hanno cessato la loro attività e perciò sono state sciolte dalle Regioni.

I loro patrimoni dove sono finiti?

Non sarebbe giusto e doveroso che rimanes­sero nel capitolo dell'assistenza?

Lo garantisce questo la legge? Oppure è pos­sibile ottenerlo?

Un esperto mi diceva che questo deve essere contenuto nel decreto di scioglimento. Se è così perché a Roma ad esempio un enorme edificio, nel centro, che era sorto per i ragazzi devianti, il S. Michele - avrà il valore di molte decine di miliardi - è stato trasformato in sede di riu­nioni, di mostre, di convegni: è rimasto un ser­vizio pubblico, ma non dei poveri per i quali era stato donato.

Mi sembra che la Regione Piemonte abbia sciolto una quarantina di IPAB: che fine hanno fatto i patrimoni?

Per le IPAB che, a seguito della sentenza del­la Corte costituzionale potranno venir riprivatizzate; ad esempio con questa legge regionale, quali vincoli e quali garanzie giuridiche ci sono, ed eventualmente quali vincoli e quali garanzie dovrebbe porre il legislatore regionale perché comunque i patrimoni vengano destinati con i dovuti aggiornamenti a servizi di assistenza per i poveri?

Un consigliere regionale cui ho posto la domanda mi ha detto: ma questo vincolo c'è nella legge. È vero? Non l'ho trovato. Non conosco l'ultima stesura del progetto-legge.

Un'altra persona cui ho posto la questione mi ha detto: non è necessario; questi vincoli e que­ste garanzie ci sono già nel codice di diritto ci­vile. È vero?

Se è vero, perché il San Michele di Roma è passato dall'assistenza alla cultura, cioè tutto sommato dai poveri ai ricchi (a Roma non sono molti i barboni e gli emarginati che vanno a vi­sitare le mostre).

2. Un secondo principio etica: se i patrimoni delle IPAB sono beni di privati destinati a servizi di assistenza per i poveri, il dovere pri­mario di chi detiene questi patrimoni e di chi è responsabile del bene comune è di assicurare che con quei patrimoni siano prestati dei buoni servizi per i poveri.

Su questo punto ho osservato una preoccu­pante distorsione che a mio avviso è etica, an­cor prima che politica e organizzativa.

Io ho seguito da vicino il dibattito e le tratta­tive fra le diverse e contrastanti forze politiche per sciogliere il nodo delle IPAB e giungere alla approvazione della legge quadro sull'assistenza e ho avuto l'impressione che dei poveri e del buon funzionamento dei servizi per i poveri non interessasse proprio nulla a nessuno.

Quello che interessava erano i patrimoni, a chi andava la proprietà dei patrimoni, se ritornava ai privati o se andava ai Comuni per i riflessi che l'una o l'altra soluzione aveva sugli elettori e quindi sul consenso dei voti In uno scambio confidenziale una personalità di sinistra diceva: «Non riusciamo a dare nulla ai Comuni per l'as­sistenza, almeno dobbiamo dare le IPAB, se no i nostri Comuni si ribellano».

Un'altra personalità della DC diceva: «Non possiamo perdere le scuole materne. I nostri elettori ci direbbero che li abbiamo traditi».

In fondo se io fossi povero e fossi destinata­rio dei patrimoni di una IPAB, a me interesse­rebbe poco che giuridicamente siano intestati a un ente privato che ha personalità giuridica o al Comune: a me interesserebbe che non mi rubino i patrimoni e che mi facciano un buon servizio. Penserei altrettanto se fossi il donatore.

Perciò il vero problema etico non è l'intesta­zione dei patrimoni, ma il controllo dei servizi: questo è il problema vero, questo è il dovere morale, civico, credo anche giuridica.

E non è detto che i servizi siano fatti per il bene perché li gestisce il Comune, o perché Ii gestisce una istituzione privata.

Ci sono buoni servizi fatti dai Comuni e buoni servizi fatti da istituzioni private; come ci sono pessimi servizi fatti dai Comuni e pessimi ser­vizi fatti da istituzioni private.

Sicché il vero problema morale è il controllo: ma non mi sembra siano molti a pensarci.

3. Una terza considerazione. Mi sembra che questo modo di impostare il problema, contrap­ponendo il pubblico e il privato, rifletta una cul­tura inadeguata ad affrontare i problemi della povertà e della emarginazione così come si pre­sentano oggi.

Qui affiora un altro principio etico, quello del­la solidarietà, su cui del resto è basata la nostra Costituzione che all'art. 2 dice che «La Repub­blica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo... e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Io mi ritrovo nella definizione di solidarietà sociale della Sollicitudo Rei Socialis in cui si dice che la solidarietà «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimen­to per i mali di tante persone vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e per­severante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti».

Il principio etico e giuridico della solidarietà passa trasversalmente attraverso tutte le com­ponenti della società: è alla base del dovere che investe tutti di far funzionare bene le istituzioni di tutti; è alla base del dovere di pagare le tasse, di far pagare le tasse e di amministrare corret­tamente il denaro pubblico; è alla base del do­vere di promuovere politiche sociali che diano priorità alle fasce più deboli come vuole l'art. 3 della Costituzione e non favoriscano i diritti dei più forti a danno dei più deboli; è anche alla base del volontariato con funzione di integrazione, di anticipazione, di stimolo delle istituzioni, di con­trollo di base: ma il volontariato lo lascerei all'ultimo posto nella classificazione delle solida­rietà anche se sono convinto che sia un'ottima palestra di educazione alla solidarietà e un buon motorino di avviamento.

In questa cultura della solidarietà, invece di usare i termini pubblico-privato e contrapporli, io userei i termini statuale e non statuale.

Il CSA per esempio non è una istituzione sta­tuale; ma non mi sembra che l'incontro di questa sera sia un'attività privata come una partita di carte che potremmo giocarci dopo cena con Santanera e Dogliotti.

La Fondazione Zancan non è certamente una istituzione statuale, ma io credo che la funzione culturale che svolge non sia un'attività privata, ma pubblica.

La società è molto più ampia e ricca di risorse dello Stato; lo Stato non è una divinità, è un ser­vizio per garantire i diritti inviolabili dell'uomo, cioè di tutti e singoli gli uomini... e per richiede­re effettivamente l'adempimento dei doveri in­derogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Ma di questi due obiettivi non è responsabile soltanto lo Stato e le sue istituzioni (Parlamen­to, Governo, Ministri, Regioni, Province, Comu­ni, USL, ecc.), ma la Repubblica, cioè tutti noi perché «siamo tutti veramente responsabili di tutti».

Allora l'impostazione va fatta non sulla con­trapposizione pubblico-privato, ma sulla conver­genza di tutte le risorse della Comunità, statuali e non statuali, comprese le IPAB, intorno ai pro­blemi concreti della gente, a centri concentrici secondo i vari livelli della società: dal Comune, dal quartiere, dal paese, alla Regione, alla nazio­ne.

Questa impostazione però richiede desiderio reale del bene comune, reciproca fiducia, reci­proca collaborazione.

Un test su questa disponibilità e su questi atteggiamenti lo avremo domani dal modo con cui i giornali riferiranno di questo incontro.

Perché è ovvio che se anche quello che ho detto questa sera venisse manipolato e defor­mato, come ha fatto «la Repubblica» nell'arti­colo del 22 novembre, un'altra volta io non po­trei più accettare un invito di Santanera, per non espormi stupidamente a strumentalizzazioni che non servono a nessuno.

Ma nonostante tutto io voglio sempre aver fi­ducia nella onestà delle persone e perciò spero proprio che questa volta non avvenga.

 

 

 

(*) Coordinatore della Conferenza Episcopale Italiana per i rapporti Chiesa-Territorio e Presidente della Fonda­zione Zancan.

 

 

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