Prospettive assistenziali, n. 90, aprile-giugno 1990

 

 

È CORRETTO AFFIDARE RICERCHE SCIENTIFICHE ALLE STRUTTURE DI EMARGINAZIONE?

PIERO ROLLERO

 

 

Nel n. 88, ottobre-dicembre 1989, di Prospettive assistenziali, avevamo documentato ampia­mente la politica di grave emarginazione messa in atto, e in preoccupante espansione, dall'isti­tuto Oasi di Troina, nonché le colpevoli conni­venze degli Enti pubblici, fino alla scandalosa inclusione di tale istituto fra quelli riconosciuti e finanziati dal Ministero della sanità, in base alla legge n. 833/1978, quali «Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto privato». Nello stesso articolo notavamo con allarmante stupore che su dieci istituti riconosciuti, con­tro sei ospedali o cliniche si contano ben quat­tro «istituti o fondazioni risalenti a tali istituti» per il ricovero a internamento di minori handi­cappati: ricovero non certo temporaneo, come in ospedali, ma protratto anche per lunghissimi anni...

A questo proposito ci è giunta la lettera del Sig. Giorgio Moretti a nome dell'Istituto scientifico E. Medea, nonché dell'Associazione La Nostra Famiglia (1), Istituto anch'esso compreso nell'elenco del Ministero della sanità. Ci spiace che il Sig. Moretti, di fronte a una documenta­zione doverosa di una iniziativa poco nota e as­sai problematica del nostro benemerito Mini­stero, si sia sentito colpito in prima persona.

Ci rende perciò perplessi tale atteggiamento, forse di insicurezza, che spinge il Sig. Moretti a puntualizzare gli elementi scientifici del suo Isti­tuto, che non abbiamo minimamente chiamato in causa nel nostro articolo; e ci sorge il sospet­to che, in fondo, spiace al Sig. Moretti di trovarsi in non buona compagnia fra gli Enti sovvenzionati dallo Stato.

Ciò ci rende ancor più dubbiosi sulle proce­dure scientifiche che regolano l'ammissione a queste categorie di sovvenzioni.

Nel merito, cioè sul fatto che un istituto ad internato, per lo più protratto nel tempo, ripro­duca profonde difficoltà e sofferenze nei sog­getti internati, e quindi infici la validità scienti­fica di eventuali «esperimenti», non possiamo che ribadire la nostra più intima convinzione.

Un esperimento scientifico, com'è a tutti noto, è quello che, nella sua impostazione, procedura e valutazione, riesce a distinguere con certezza, fra gli effetti prodotti, quelli dovuti alle «varia­bili» intenzionalmente introdotte (nel nostro caso, ad es. cura, riabilitazione,...) da quelle «variabili» gravemente interferenti, come nel nostro caso, gli influssi dell'istituzionalizzazione, della mancanza di cure familiari, del distacco dall'ambiente di vita del soggetto.

Che un organo del Ministero della sanità con­validi la scientificità di ricerche di ben quattro istituti (e, fra questi, di holding di istituti) ci la­scia stupefatti, e la dice lunga sulla persistenza e la volontà di sopravvivenza di certi istituti, mentre altri, ben più benemeriti, hanno cercato di aprirsi ad attività extraistituzionali, creando in parte strutture alternative al ricovero.

Esigenza fondamentale dell'opinione pubblica, e del mondo scientifico in primo luogo, è quella di chiedere al Ministero che - di fronte a una così cospicua elargizione di denaro pubblico (3 miliardi e 200 milioni a 4 istituti nel solo 1988) - si renda obbligatoria la pubblicizzazione dei risultati delle «ricerche» finanziate, tramite scritti, convegni e dibattiti pubblici. Su questa esigenza pensiamo che gli istituti più seri non possano che concordare.

Come contributo a una riflessione su una que­stione così fondamentale riguardante gli istituti di ricovero, vogliamo citare da una fonte non sospetta, la cui ispirazione ideologica dovrebbe essere assai vicina al Sig. Moretti, le seguenti sofferte considerazioni (2): «"L'incontro con il bambino handicappato ci ha fatto capire che egli ci interpella, in primo luogo, come bambino to­tale; ci suggerisce, cioè, che al di là del suo han­dicap, egli esiste come bambino, con i bisogni e i desideri di ogni bambino, con gli stessi diritti e le sue stesse aspettative. La stortura del no­stro approccio al bambino handicappato ci deriva, primariamente, dal misconoscimento di que­sta fondamentale realtà".

«Queste parole dello psichiatra prof. Carlo Brutti ci aprono una prospettiva essenziale con la quale ci dobbiamo accostare al bambino han­dicappato, come al ragazzo handicappato, come all'adulto handicappato, che sono appunto prima di tutto un bambino, un ragazzo, un uomo.

«"Ci siamo per lo più limitati, e si continua purtroppo su questa linea, a ridurre l'handicap­pato al suo sintomo cioè al suo handicap, e ab­biamo ritenuto che rapportandoci solo al suo disturbo, pur nella prospettiva di recupero, aves­simo esaurito il nostro compito e realizzato un programma significativo.

«"Ma tale operazione riduzionista, condotta sotto la spinta di una falsa scienza e di una in­confessata pietà, ha agito nel senso dell'emar­ginazione dell'handicappato e perfino di una sua strumentalizzazione, per l'enfasi con la quale abbiamo Investito i metodi di recupero, contrab­bandandoli come miracolistici, anche quando sa­pevamo che le nostre risorse erano bene limita­te, non solo sotto il profilo scientifico, ma, so­prattutto, da un punto di viste, tecnico e orga­nizzativo.

«"Ed anche laddove è stato possibile realiz­zare un programma di recupero, questo è risul­tato, spesso, fallimentare proprio perché si è ri­volto all'handicap e non al bambino totale e al suo ambiente. Non si è fatto cioè, appello al bambino totale che è al di là della sua minora­zione, né alle risorse ambientali per mobilizzare tutte le energie da coordinare per un sostan­ziale superamento dell'handicap".

«Perciò è un grave errore quello che si riscon­tra nell'educazione e nelle istituzioni speciali, quando manca una visione della globalità della persona dell'handicappato. infatti il più delle volte gli interventi vengono incentrati solo sull'handicap, senza tener conto dell'insieme delle componenti personali, familiari e sociali che consentono lo sviluppo della persona umana e il suo inserimento, e che in definitiva contribui­scono in larga misura a risolvere o a compensa­re l'handicap.

«Sotto questo profilo, tutte le soluzioni che pure si sforzano di rimediare agli handicaps, senza tenere conto di tutti i fattori personali (specie affettivi), familiari, di integrazione nel contesto sociale, di coinvolgimento dl tutte le componenti ambientali, sono superate. I risultati non vanno valutati solo in base al superamento o miglioramento dell'handicap, ma occorre ve­dere se i risultati stessi sono stati ottenuti a spese dello sviluppo affettivo e dell'inserimento sociale del soggetto, come spesso si è verificato.

«Occorre rovesciare una certa prospettiva psicologica che influenza un tipo corrente di rieducazione specifica dell'handicappato. È cer­tamente importante che l'handicappato motorio impari a camminare, che l'handicappato del lin­guaggio impari a parlare. Ma è forse ancora più importante farsi altre domande al riguardo, co­me si sono fatti alcuni educatori di handicappati molto gravi:

«Camminare, per andare dove?

«Parlare, per chiacchierare con chi?

«Al bambino handicappato si richiedono per lo più sforzi ancora maggiori che al bambino normale, proprio per superare i suoi handicaps: come si può legittimamente fare questo, senza motivazioni più ampie, senza coinvolgere tutte le energie personali, senza procurare dei profon­di sensi di soddisfazione e di gratificazione, sen­za coinvolgere tutte le persone del suo ambien­te in questa opera? Come si può conciliare que­sta opera con l'emarginazione dall'ambiente af­fettivo familiare e dai coetanei normodotati?».

Al che vorremmo aggiungere le seguenti no­stre considerazioni sugli handicappati più gravi tratte da un nostro scritto (3): «Ci sembra im­portante e decisiva un'ulteriore riflessione: la frequente istituzionalizzazione degli handicappa­ti - e dei gravi in particolare - nasconde un radicato pregiudizio e una mancanza di sensibi­lità: si pensa, più o meno consciamente, che l'handicappato grave per le sue condizioni psi­chiche soffra meno l'abbandono e l'allontana­mento dall'ambiente familiare. In realtà, noi scambiamo le sue difficoltà di espressione este­riore, insite in certe forme di handicap, con la mancanza di una reale sofferenza interiore che invece l'handicappato pure percepisce, anche se non riesce spesso a comunicare».

Infine dobbiamo rilevare che il punto più gra­ve della posizione espressa dal Sig. Moretti (come da altri rappresentanti di istituti) è la ve­lata denigrazione di chi non la pensa come loro, e la presentazione degli argomenti altrui come dettati dal malanimo. In realtà, c'è una incom­prensione di fondo, e una volontà di non con­frontarsi, mentre non si vuole capire il vero ani­mo da cui sono ispirate le nostre posizioni. Certo, non siamo «potenti», né abbiamo aspira­zioni ad esserlo; ma convinti, anche sulla base dell'esperienza, della fondatezza della nostra li­nea, ci mettiamo al servizio, con disinteresse naturalmente, dei più deboli e di chi sta vera­mente dalla loro parte.

Il nostro articolo precedente terminava così: «Lavorare effettivamente contro l'emarginazio­ne è un'opera molto più umile, più difficile, più lunga, che reca poco "onore" e crea molti nemi­ci; costruire l'emarginazione sembra un'opera molto più facile che crea lustro e onori, e procu­ra, a quanto pare, molti "amici", di cui si finisce per essere in definitiva gli strumenti».

 

 

 

 (1) Riportiamo integralmente il testo della lettera:

«Egregio Direttore,

le scrivo in merito ad un articolo pub­blicato sul n. 88, ottobre-dicembre 1989, della Rivista da Lei diretta a firma di Piero Rollero, col titolo "OASI DI TROINA: GHETTO IN PREOCCUPANTE ESPANSIONE". Que­sto lungo articolo riguarda un tema nel cui merito non posso entrare: si tratta dei problemi di un altro Ente la cui realtà, tra l’altro, nemmeno conosco direttamente.

«Il Sig. Rollero però, a pag. 10, trattando de "La ricerca scientifica negli Istituti e dei suoi cospicui finanziamenti" chiama in causa quattro Istituti di Ricovero e Cura a Ca­rattere Scientifico, tra i quali l’“Eugenio Medea” da me diretto, citando per quanto ci riguarda, i temi di ricerca corrente che ci sono stati assegnati negli ultimi anni.

«Le considerazioni che il Sig. Rollero fa sono implicita­mente pesanti, almeno per quanto si riferisce alla nostra realtà.

«In particolare egli afferma:

1 - che questi quattro Istituti sono "per il ricovero a in­ternato di minori handicappati"

2 - che "questi finanziamenti statali, che rappresentano altrettante garanzie scientifiche, vanno a giustificare e ad aprire le porte ad altri finanziamenti degli Enti locali e dei privati (banche, imprese...)"

3 - che "è deprimente constatare questo facile avallo pubblico di scientificità a istituti il cui scopo finale - quando non è anche speculativo - è quello di incremen­tare l'emarginazione dei più deboli, proprio a scopo di stu­dio e di ricerca in laboratorio"

4 - che nulla si è quindi imparato dalla psichiatria mo­derna quando questa "ha dimostrato esaurientemente che proprio la scienza psichiatrica (per lo più organicistica) fondata sullo studio degli internati nei manicomi era fuor­viante e inattendibile".

«Alcune di queste affermazioni, ad esempio l'ultima, so­no convinzioni del Sig. Rollero che, come tali, rispettiamo, anche condividendole in parte (che la psichiatria manico­miale non desse garanzie di scientificità è una critica fat­ta da molti autori già al "Trattato di Psichiatria" di E. Kreapelin, del 1904).

«Altre invece sono inquinate da una grave disinforma­zione, non so se voluta od inconsapevole o da attribuirsi a superficialità. Non è vero, ad esempio, che il nostro Istituto esista per il ricovero ad internato: questa è una delle possibili soluzioni offerte, non quella prioritaria né la più rappresentata, attuata in casi particolari, general­mente proprio quando sul territorio mancano gli aiuti ne­cessari.

«Non è vero che i finanziamenti pubblici aprono la porta ad altri finanziamenti: potremmo aggiungere "Magari!".

«Non è vero che la ricerca - che deve essere per sta­tuto di tipo clinico applicato - determini qualche forma di emarginazione: nessun paziente viene "strumentaliz­zato" ai fini della ricerca, anzi si bada con estrema cura che essa serva non solo come acquisizione generale per il miglioramento sanitario, ma abbia anche un significato positivo per il singolo soggetto.

«Il nostro Istituto ha un Comitato Etico che consulta co­stantemente e di cui fanno parte anche giuristi e rappre­sentanti degli utenti.

«Inoltre il Sig. Rollero non sa e non dice che i finanzia­menti sono dati dal Ministero della Sanità dopo la pre­sentazione e la discussione di programmi di ricerca che sono accuratamente vagliati da una Commissione Biome­dica, che le ricerche debbono fornire dettagliate relazioni periodiche ed un prodotto finale che viene profondamente analizzato da esperti, che esiste un sistema di controllo finanziario ben codificato: dopo tutto l'Italia non è (o non è totalmente) un Paese incivile.

«Infine il Sig. Rollero, scrivendo per una rivista a larga diffusione, fa torto ad un fondamentale principio sia gior­nalistico che scientifico: parla di realtà che non ha mai visto (mi riferisco ovviamente alla nostra) e lo fa gene­ralizzando, attraverso affermazioni non veritiere, scorret­te, lesive.

«A mio avviso non è questo il modo giusto per far cono­scere la verità e neppure quello di far, lecitamente, po­lemica.

«Egregio Direttore, Le sarò grato se vorrà pubblicare questa lettera che ha quantomeno lo scopo di controin­formare i Suoi lettori».

(2) Ufficio Diocesano per la Pastorale dell'Assistenza di Torino, Handicappati e Comunità. Integrazione nella Chiesa, nella società, nella scuola, nel mondo del lavoro, Ed. Omega, Torino, 1977, pp. 23-24.

(3) P. ROLLERO, I problemi degli handicappati gravi dopo la scuola dell'obbligo nella realtà torinese, Sindrome Down Notizie, n. 2, maggio-agosto 1989.

 

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