Prospettive assistenziali, n. 89, gennaio-marzo 1990

 

 

SERENA, LE ADOZIONI, LA VERITÀ E LA GIUSTIZIA

ASSOCIAZIONE NAZIONALE FAMIGLIE ADOTTIVE E AFFIDATARIE

 

 

Ti credi ricco, mentre sei misero, nudo e cieco. Prendi dunque da me l'oro per la tua miseria,

i vestiti per la tua nudità, e l'unguento per vedere.

Dall'Apocalisse, 3, 17-18

 

 

Si sperava che non ci fosse più bisogno di parlare di Serena Cruz. Così non è stato. Presentato a Roma con una conferenza-stampa tenutasi sotto gli auspici di noti esponenti della cultura, è usci­to in questi giorni l'annunciato libro di Natalia Ginzburg su «Serena Cruz o la vera giustizia».

Chi - come noi - aveva avuto occasione di leggere i suoi interventi sui quotidiani, certamen­te non si illudeva che la scrittrice avesse rivedu­to e corretto nell'arco di qualche mese il proprio modo di pensare, nonostante gli ampi e appro­fonditi dibattiti sviluppatisi in seguito alla mar­tellante diffusione data alle vicende della piccola filippina.

Non ce ne preoccuperemmo più di tanto, se si trattasse semplicemente di riconoscere ad una celebrata scrittrice il diritto di restare arroccata sulle proprie posizioni. Ma, adesso che le sue opinioni si trovano ribadite e sviluppate in un libro di «denuncia», offerto in vendita allo scopo di spiegare alla gente - con l'autorevolezza di un nome famoso - quale sia la «vera giustizia» per Serena e per tutti i bambini senza famiglia (e che quindi si presenta con tutti i requisiti per diventare un libro di grande richiamo), vi è ampia materia per preoccuparsene, perché la verità va protetta, e anche la giustizia, soprattutto quando esse toccano un settore di così vitale importanza quale è quello dei diritti dell'infanzia.

Non ci permettiamo di contestare il talento di Natalia Ginzburq, così come le invidiamo la sicu­rezza che la rende certa - sebbene nel corso dei millenni non siano riusciti nell'impresa né i filo­sofi, né gli storici, né i giuristi, né tanto meno i letterati - di possedere gli strumenti per co­noscere che cosa sia la vera giustizia. Abbiamo, però, la presunzione di avere le idee chiare in fatto di verità, la quale è l'esatto contrario della falsità e dell'errore. Ed allora, poiché lo scritto contiene informazioni false ed errori grossolani, reagire con la massima fermezza è il minimo che si possa fare, per cercare di porre in qualche modo riparo ai guasti arrecati a quella verità che tutti vorremmo veder trionfare: guasti particolar­mente insidiosi perché provengono da chi ne fa pesare sul piatto della bilancia l'influsso del suo prestigio culturale.

Nella nota che fa da prologo al volumetto, si legge che esso è stato scritto «per testimoniare solidarietà alle persone a cui sono stati strappati i bambini, che esse avevano fino a quel giorno amato e accudito» (concetto già espresso dall'Au­trice in un'intervista rilasciata a «Stampa Sera» e poi ripreso nella conferenza-stampa del 19 feb­braio).

Questo, dunque (e, cioè, la commozione per la sorte dei «genitori» privati di Serena) appare lo scopo primario del libro, il quale a sua volta si articola sui seguenti corollari:

1) «Era meglio prima, quando le istituzioni non avevano ancora stabilito che era loro dovere e di­ritto irrompere a forza nella vita privata della gente» (p. 60-61), poiché «non è padrona la gen­te di vivere come gli piace, se non fa danno a nessuno?» (p. 63);

2) le famiglie sono necessarie al bambino come che siano, anche se lì i bambini hanno coltivato dell'odio e dell'infelicità. Infatti «le famiglie pos­sono essere pessime, repressive, ossessive, o in­differenti, o disamorate, o distratte, o tossiche, tarate, verminose. Molto spesso lo sono. Però a un bambino sono necessarie» (p. 76). Quanto ai figli, «gli indesiderati si amano a volte più degli altri» (p. 79), e il rapporto madre-figlio «può es­sere un rapporto buio, caotico, ossessivo, repres­sivo, o distratto. È però sempre un rapporto che non rassomiglia a nulla» (p. 80).

Accanto a questo messaggio fondamentale, che riguarda per così dire la stessa ragion d'essere dell'adozione, ne viene lanciato un secondo, che è il seguente: «i bambini dovrebbero essere tolti soltanto quando la madre è pazza o perversa» o quando sono adoperati «per loschi traffici» (p. 80).

Ma il libro parla anche di Serena: sennò per­ché avrebbe quel titolo? Ed allora è illustrato al lettore che Serena stava bene dov'era, perché quelli che l'avevano presa con l’inganno e con la frode avevano sviluppato con lei dei validi rap­porti affettivi e le volevano bene proprio «come se fosse stata una loro figlia di sangue» (p. 49): le avevano persino insegnato «a non cercare il cibo nella spazzatura e a dormire nei letti» (p. 40). Ma, poi, che colpa era mai stata la loro, se para­gonata alle frodi ignobili, abbiette e sinistre che vengono perpetrate ogni giorno in Italia? (p. 28). Che colpa ne avevano, essi, se l'adozione interna­zionale è fatta per i ricchi e loro non avevano i soldi necessari per stare diciotto mesi nelle Fi­lippine, così come ha voluto una legge emanata da Cory Aquino? (p. 5). E poi «non è forse vero che se adottare un bambino fosse una cosa più semplice, in Italia e fuori, la gente che vuole adottare un figlio non si rivolgerebbe ai traffi­canti?» (p. 91).

Questi sono gli alati pensieri che hanno fatto gridare di ammirazione intellettuali e che hanno addirittura indotto il giurista Stefano Rodotà a dichiarare che «da oggi in poi coloro i quali ope­rano in questo settore dovrebbero tenere accan­to ai codici questo libro per interpretare le situa­zioni che hanno di fronte», perché la Ginzburg ha messo alle corde «questa discussa e discutibile legge sull'adozione», condannando «l'insopporta­bile atteggiamento da tavola rotonda» dei giudici e il loro «modo facile e pericoloso di usare la legge». Poco c'è mancato che queste apologie non abbiano scomodato libri illustri come «Dei delitti e delle pene» di Cesare Beccaria o la «Storia della colonna infame» di Alessandro Man­zoni: in compenso l'Autrice è stata paragonata a Machiavelli e a Flaubert...

Da parte sua, Corrado Stajano, nel tessere l'elo­gio di questo «bellissimo libro che nasce dalla coscienza profonda», si è pure ritenuto in dovere di stigmatizzare l'iniziativa del tutore di Serena Cruz, definendo la sua «diffida morale» rivolta all'editore Einaudi affinché non venisse data diffu­sione al volume come «un'azione intimidatrice», uno degli esempi di insofferenza e di intolleranza tipici di questo nostro Paese, e gli ha fatto eco due giorni dopo sulla «Stampa» un altro giurista come Vladimiro Zagrebelsky, che si è dilungato a spiegare l'illegittimità di simile pretesa a fron­te della libertà di espressione del pensiero san­cita dalla Costituzione, così dimostrando di non aver afferrato il risvolto morale e la portata uma­na di quell’accorato appello, generato dalla preoc­cupazione per tutti quegli altri guasti che per la normale esistenza di Serena e dei suoi attuali af­fidatari avrebbe potuto comportare il riaccendersi della pubblicità (puntualmente verificatasi in que­sti giorni).

Sta di fatto che a p. 50 dei suo libro Natalia Ginzburg ha trovato il modo di pubblicare l'attua­le nomignolo di Serena Cruz, con un'iniziativa che Paolo Granzotto (sul «Giornale» del 22 febbraio) ha così commentato: «Se l'autore non avesse avu­to quel nome, non fosse, come lo è la Ginzburg, un guru delle patrie lettere e un esponente di spicco della intellighenzia, tutti ma proprio tutti l'avrebbero accusato di aver fatto una mascalzo­nata».

Ma, per cercare di mettere un poco di ordine in questo guazzabuglio, e poiché - forse per la fretta dì uscire in vetrina - l'editore Einaudi non ha dotato il volume di un indice, non è inutile fornirne qui di seguito il sommario. Si tratta di sei capitoletti, che possono così formularsi:

1. La storia di Serena secondo i giornali e secon­do «i genitori adottivi». Serena strappata. Gli orecchini. «Imbottita di farmaci». La «pietà»;

2. Le sentenze dei giudici. Il fine non giustifica i mezzi. Cavilli giuridici. Le minacce ai giudici. I «tiepidi». La pseudo-scienza. Il decreto Vas­salli e le madri in carcere. I «desaparecidos»;

3. L'amore dei «genitori adottivi». L'hanno ama­ta come fosse stata una loro figlia di sangue. Serena e Nazario, oggi;

4. Storie di adozioni. Domodossola e Limbiate. Gli spettri. Famiglie distrutte. La Corte di Cas­sazione;

5. Le storture della legge. Era meglio prima. La famiglia. La maternità. I figli;

6. Il «mercato» dei bambini. La legge e i giudici vanno cambiati.

Esaminiamoli.

 

1. La storia di Serena

La storia di Serena è ricostruita in parte sui ritagli dei giornali ed in parte sul racconto che l'Autrice c'informa di aver ricevuto dalla viva voce dei «genitori adottivi» della bambina.

La realtà dei fatti, invece, documenti alla mano, risulta essere la seguente. In un primo tempo Francesco Giubergia ha dichiarato di essere il padre naturale di Serena, sostenendo di averla generata in seguito ad un rapporto con una gio­vane di Manila (pare tredicenne all'epoca dei fat­ti!) nei giorni in cui si trovava in quella città con la moglie per ottenere l'adozione del primo figlio, e chiedendo quindi al Tribunale per i minorenni di Torino di inserire tale figlia naturale nell'ambito della propria famiglia legittima (non potendo cer­tamente, in tale veste, chiederne l'adozione). Il Tribunale, di fronte allo squallido racconto del Giubergia, respingeva la sua richiesta avendo dei serissimi dubbi sulla veridicità del riconoscimen­to di paternità, con provvedimento tempestiva­mente confermato dalla Corte d'Appello.

È quindi falso che i giudici - come sostiene Natalia Ginzburg (e con lei il giurista, Stefano Rodotà) - abbiano applicato in maniera ingiusta e persecutoria l'art. 9 della legge 184 sulle adozioni (1) interpretandolo come se il termine «può» fosse stato scritto «deve». Questo articolo non riguarda affatto casi del genere (come si vedrà meglio più avanti), e perciò non venne né citato né applicato dai giudici!

Successivamente i coniugi Giubergia (che, a soli nove giorni dall'arrivo di Serena in Italia, era­no stati diffidati dal Tribunale in merito alla illi­ceità della loro condotta e quindi avrebbero dovu­to fin da allora rinunciare alla pretesa di continua­re a tenere la bambina presso di sé) cambiano tat­tica e decidono di ammettere il falso riconosci­mento di paternità, chiedendo al Tribunale per i minorenni l'adozione della piccola.

La domanda è respinta perché per la legge (molto precisa in materia) l'introduzione in Italia di un minore straniero a scopo di adozione - per ovvie ragioni di tutela del minore stesso - è consentita soltanto a chi sia stato preventivamen­te dichiarato idoneo dal Tribunale nel caso spe­cifico ed abbia altresì ottenuto l'affidamento del bambino dall'autorità giudiziaria del Paese di origine, mentre Serena è da considerarsi a tutti gli effetti (anche in virtù dei trattati internaziona­li che l'Italia è obbligata a rispettare) come una cittadina filippina minore di età ed in stato di abbandono, potendone essere chiesto il rimpatrio dal suo Paese di appartenenza.

A questo punto, non resta al Tribunale che aprire in Italia, come vuole la legge, la procedura per la dichiarazione dello stato di adottabilità di Serena disponendone - in vista di un suo prossi­mo affidamento preadottivo a famiglia già di­chiarata idonea - quell'allontanamento che ave­va già ordinato quattro mesi prima e che poi era stato sospeso in seguito al reclamo presentato dai coniugi Giubergia. Quindi i giudici hanno agi­to con il massimo scrupolo possibile, decidendo in forma collegiale e con la costante collabora­zione di specialisti qualificati, e motivando in termini di estrema chiarezza e di grande umanità i veri termini del problema, con stretto riferimen­to al caso specifico di una bambina in carne ed ossa (e non in astratto, come è stato ingiustamen­te detto e scritto), esponendo che la bambina si trovava a soffrire per colpa dei grandi, i quali fin dal gennaio 1988 stavano volutamente ostacolan­do l'esigenza di una rapida e lineare definizione della situazione, violando l'interesse di Serena ad essere prontamente e stabilmente inserita in una valida famiglia affidataria (così è scritto nella sen­tenza del 14 marzo 1989 della corte d'Appello).

Anche a questo proposito è stato citato a spro­posito l'art. 9 («può» e non «deve») della L. 184 sull'adozione, poiché la regolamentazione - mol­to chiara - dettata da questa norma (la quale va sempre letta insieme a quelle di cui agli artt. 71 e 72 della stessa legge, che privano della capa­cità di ottenere adozioni o affidamenti coloro che abbiano dato od accolto in affidamento dei minori previa corresponsione di denaro) è la se­guente: ogni qualvolta si scopre che qualcuno ha trattenuto abusivamente un minore presso di sé per più di sei mesi, il minore dovrà essere re­stituito ove possibile alla sua famiglia d'origine o - in caso di suo accertato abbandono - ne sarà tempestivamente disposto l'affidamento pre­adottivo a coppia in lista d'attesa perché già dichiarata idonea, e l'autore dell'abuso (oltre ad essere incriminabile per i reati eventualmente commessi), qualora inoltrasse in futuro una qual­che domanda di adozione o di affidamento nei con­fronti di un minore (diverso, evidentemente, da quello che aveva illecitamente accolto), potrà es­se anche riconosciuto inidoneo, se quel suo pre­cedente comportamento sarà stato giudicato grave.

Successivamente ancora i coniugi Giubergia, sostenendo sulla base di una consulenza di parte che l'allontanamento (avvenuto il 16 marzo 1989) aveva procurato a Serena un trauma tale da inci­dere sulla sua salute psico-affettiva, chiedevano al Tribunale la revoca della precedente decisione, e il Tribunale (che non vi era assolutamente ob­bligato, perché i provvedimenti che respingono una domanda di adozione sono irrevocabili, ed avrebbe quindi potuto semplicemente archiviare la pratica senza alcuna motivazione) si pronun­ciava per la terza volta respingendo il ricorso con un dettagliato decreto anch'esso poi confermato da una ancor più dettagliata sentenza della Corte d'Appello.

Su tutto questo Natalia Ginzburg tace comple­tamente, dando in questo modo l'impressione (così come, del resto, lei sostiene) che i giudici abbiano deciso tutta la penosa vicenda in manie­ra incomprensibile e spietata, calando come fal­chi su di un nucleo familiare per il semplice gu­sto di distruggerne la felicità. Pensiamo sia ne­cessario, per rendere tutti convinti del contrario, riprodurre al riguardo almeno uno dei tanti pas­saggi dell'ultima sentenza emessa dalla Corte d'Appello:

«Il 24 novembre 1988 questa Corte vive una giornata drammatica. Sospendere o non sospen­dere? Non sospendere (e quindi allontanare subi­to la bambina) sembrerebbe la soluzione più lo­gica: eviterebbe di prolungare uno stato di fatto che ormai appare, con ogni probabilità, illegale e destinato a finire; eviterebbe, quindi, maggiori sofferenze future alla bambina, perché più la bambina resta presso ai Giubergia, più soffrirà nell'allontanarsi. Il bene immediato della bambina consiglierebbe, dunque, l'allontanamento subito, cioè l'immediata esecuzione del provvedimento del Tribunale per i minorenni. Senonché i Giuber­gia ancora il 21 novembre (cioè tre giorni prima) hanno ripetuto ai giudici il loro racconto della re­lazione adulterina. E se quel che dicono fosse vero? Se fosse vero che il Giubergia è realmente padre della bambina? Allontanare subito Serena, per poi restituirla dopo, non significherebbe in­fliggerle una sofferenza inutile?

«II Tribunale per i minorenni è già sicuro che i Giubergia dicono il falso. Ma la Corte non è anco­ra sicura, perché c'è un appello appena proposto, sul quale la Corte stessa dovrà pronunciarsi. Lo Stato (e quindi il giudice, che dello Stato è un organo) deve partire dal presupposto che il cit­tadino sia onesto e sincero, non dal presupposto che sia bugiardo, ingannatore, frodatore. E allora bisogna credere ai Giubergia finché non si è si­curi del contrario. Conseguentemente bisogna procedere con estrema prudenza prima di allon­tanare la bambina».

Così ragiona il Presidente. E tra le due possi­bili soluzioni sceglie quella che gli sembra met­tere in primo piano l'interesse attuale della bam­bina. Basta una probabilità su cento che Serena sia figlia dei Giubergia per consigliare di andar cauti e di non far soffrire inutilmente la bambina. Con decreto 24 novembre 1988 il Presidente di questa Corte sospende l'immediata esecuzione dell'ordine di allontanamento. Serena resterà an­cora presso i Giubergia, finché non sia fatta com­pleta chiarezza. Non è, tutto questo, stare «dal­la parte di Serena», cercare di evitarle ogni pos­sibile sofferenza?

Ebbene, questa sentenza è stata (insieme agli altri provvedimenti prima citati) dapprima fatta oggetto di irrisione sarcastica da parte del Mini­stro di grazia e giustizia Vassalli (il quale il 3 maggio 1989 ha tra l'altro dichiarato alla Camera dei Deputati che quel provvedimento «è una sor­ta di trattatello», «stilato da un insigne magi­strato, professore di diritto penale ed autore di bellissimi libri di diritto penale militare», criti­cando con «conclusioni melanconiche» la «lotta intrapresa dai magistrati contro i coniugi Giuber­gia»), ed è adesso sbeffeggiata nel libro di Na­talia Ginzburg in quanto sarebbe stata concepita «nel buio» e nel solo intento di colpire con cru­deltà una innocente (e un articolista dell'«Unità» del 28 febbraio 1990 non è da meno, definendola con signorilità come «una cavolata»!).

In compenso si insiste molto sul fatto che, appena allontanata da Racconigi, Serena sarebbe stata spogliata degli orecchini donatigli dalla sua «madre adottiva», e «imbottita di farmaci» per­ché dormisse (particolari che, per un elementare principio di correttezza valido anche per gli scrit­tori, avrebbero dovuto essere dimostrati).

 

2. Le sentenze dei giudici

I giudici, secondo Natalia Ginzburg, vanno con­dannati perché si sono fatti travolgere da un de­lirio di distruzione, e le loro frasi di comprensio­ne per l'immaginabile dolore provato dai coniugi Giubergia nel vedersi privati di Serena rappre­sentano - secondo lei - una sorta di pietà «stranissima», e quindi suonano sospette (p. 17). Hanno perseguito un fine (quello di proteggere tutti gli altri bambini dalle frodi) che non giustifi­ca il mezzo usato (e cioè l'azione crudele di se­parazione commessa sulla persona di una bam­bina innocente) (p. 29), facendosi forti di un cavillo giuridico (l'art. 9!) ed ignorando che le leggi devono essere a servizio ed a soccorso degli uomini (p. 32), e per questo sono stati rag­giunti dalle minacce, che però non gli hanno fatto né caldo né freddo (sono, infatti, dei «tiepidi») perché sapevano di essere «forti» e di essere «tanti» (p. 37).

Essi hanno sbagliato perché hanno fatto di Se­rena il simbolo della loro lotta contro le frodi nelle adozioni, decidendo di sacrificarla in nome della giustizia astratta, separandola da chi le vo­leva bene. Così agendo si sono comportati, ap­punto, da ««tiepidi», appoggiandosi al linguaggio della pseudo-scienza ed avvalendosi di false co­gnizioni scientifiche, del tutto indifferenti al reale destino di una creatura senza difese. Essi, insom­ma, hanno voluto scrivere una «sentenza esem­plare», mentre avrebbero dovuto limitarsi a ri­spettare i legami affettivi di quella bambina in carne ed ossa, lasciandola dove si trovava.

Contestiamo recisamente questa impostazione. I giudici hanno agito non soltanto rispettando lo spirito profondo della legge, ma immedesiman­dosi con impegno e sofferenza nel caso concre­to, spiegando le ragioni che inducevano a rende­re preferibile per Serena l'inserimento in una fa­miglia affidataria che le garantisse un avvenire sicuro sia sotto il profilo giuridico che sotto quel­lo affettivo.

Forse avranno sbagliato nell'accondiscendere troppo alle tattiche temporeggiatrici dei Giubergia e nel non aver immediatamente disposto, con l'ur­genza che l'art. 10 della legge 184 avrebbe per­messo, l'allontanamento di Serena dal nucleo che la tratteneva abusivamente, ma questo sarebbe comunque un ragionare con il senno di poi, né infirma lo scrupolo che ne ha sempre ispirato le decisioni, che dovevano conciliare l'interesse di Serena ad una vita trasparente e priva di rischi con le garanzie che fanno capo a chi (come i Giubergia) accampa sul minore dei «diritti» o del­le «pretese» fondate sul fatto compiuto.

Non si insisterà mai abbastanza nel sottoli­neare che se i Giubergia avessero veramente ed esclusivamente avuto a cuore il benessere di Serena, avrebbero dovuto innanzi tutto astenersi da un'iniziativa (la sua illecita introduzione in Italia) che sapevano votata al fallimento e forie­ra di grave pregiudizio per lei e - una volta sco­perti dopo pochi giorni - avrebbero dovuto sen­tire il dovere di collaborare con le istituzioni per assicurarne un sollecito inserimento in una fa­miglia idonea (come faceva giustamente notare la Corte d'Appello nella sua seconda sentenza del 14 marzo 1989: «In questa situazione c'è un solo modo per voler bene ai due bambini, e a Serena in particolare: sdrammatizzare la vicen­da, preparare la bimba all'inserimento in una nuo­va famiglia, creare le premesse perché i tre Giubergia (marito, moglie, figlio adottivo) pos­sano continuare a coltivare rapporti affettivi con la bambina, attraverso l'instaurazione di un buon rapporto con la famiglia affidataria. In tal modo, superate le iniziali difficoltà (che sono gravi, ma che non vanno enfatizzate), la bimba potrà frui­re di una ricchezza affettiva tutt'altro che trascu­rabile. Quello che avrebbe potuto essere costrui­to nel gennaio 1988 può ancora essere costruito oggi, sia pure con maggiori difficoltà e sofferen­ze. Ma bisogna decidersi a farlo subito, se si vuole davvero il bene della bambina».

Va notato, infatti, che - contrariamente a quan­to sostenuto a spada tratta da Natalia Ginzburg - i coniugi Giubergia non erano e non sono affatto da considerarsi come degli «sprovveduti», trat­tandosi al contrario di persone che già avevano maturato una precedente esperienza adozionale all'estero e sapevano molto bene quello che sta­vano facendo, così come non potevano ignorare i pericoli gravissimi che avrebbero fatto correre a Serena con il loro comportamento a dir poco scriteriato. Che, in più, abbiano trovato dei le­gali senza scrupoli pronti ad assecondarli, que­sto non vale certo a giustificarli, dovendo caso mai indurre a riflettere se non sia il caso di at­tuare dei controlli più penetranti e delle precise sanzioni nei confronti di chi esercita la profes­sione travalicando i limiti della deontologia.

Sostenere, poi, che l'adozione sia un istituto concepito per i «ricchi» e per gli «intellettuali» (p. 47), è una fandonia bell’e buona: quello che occorre è serietà e senso di responsabilità, ave­re rispetto per il bambino e - perché no? - anche per chi ha il compito di proteggerlo. Que­sta, dei ricchi e dei soldi, sembra essere una vera e propria ossessione per la scrittrice, che già sull’«Unità» del 1° maggio 1989 aveva avuto modo di spiegare come i Giubergia avessero prodigato nella loro impresa «soldi, tempo, sonno, fatica», e che ne continua a parlare ad ogni piè sospinto in questa sua fatica letteraria (p. 5, 49, 51, 87, ecc.).

Non si capisce, poi, tutta questa ironia sulle «sentenze esemplari»: applicare la legge non soltanto nella sua forma ma soprattutto nella sua sostanza, cos'è se non compiere un atto esemplare? Punire il colpevole, assolvere l'inno­cente, premiare il benefattore. difendere l'iner­me, spiegare nelle proprie sentenze le ragioni profonde e gli scopi reali delle decisioni assun­te in concreto, non sono forse, per un giudice, azioni esemplari, specialmente quando ci si muo­ve in una materia in cui, come quella della pro­tezione dell'infanzia abbandonata, il diritto si sposa necessariamente e strettamente all'etica?

Ed allora è del tutto ingiusto e mortificante ap­plaudire (p. 41) al progetto di decreto-legge im­maginato dal Ministro Vassalli, che si propone­va di introdurre in Italia il condono anche nel settore delle adozioni e che è stato bloccato gra­zie alla fermissima azione di protesta posta im­mediatamente in essere dai comitati di base e dalle associazioni del volontariato. Secondo Na­talia Ginzburg, tale progetto avrebbe invece di mira lo scopo di evitare che continui ad aver vigore quella infausta legge che impone che «a una madre straniera che è in carcere con una lunga condanna, e non può tenere con sé i figli nel carcere se hanno passato i tre anni, siano tolti i figli per sempre e messi in adozione» (p. 41).

Qui siamo in presenza di un falso grossolano. La norma di legge incriminata da Natalia Ginz­burg è, in realtà, l'art. 11 della legge 26 luglio 1975 n. 354 sull'ordinamento carcerario, la qua­le prescrive: «In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l'as­sistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all'età di tre anni. Per la cura e l'as­sistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido».

Dunque, con una disinvolta opera di manipo­lazione, si è trasformato un precetto di chiaro stampo umanitario in una inesistente norma per­secutoria verso le madri in difficoltà. E che cosa c'entrano, poi, le «madri straniere»? Si citi, co­munque, un solo caso in cui in Italia un minore sia stato dichiarato in stato di adottabilità per il solo fatto di avere la madre in carcere! Che, for­se, anche Natalia Ginzburg si sia fatta consiglia­re, nello scrivere il suo libro, da qualche avvoca­to incompetente?

La mappa del mondo delle adozioni che Nata­lia Ginzburg traccia nella sua opera ci appare come una desolata landa senza regole e senza confini su cui regna il buio, il terrore, il silen­zio e il mistero, con bambini che vengono strap­pati a viva forza ai loro genitori, su ordine dei giudici, da assistenti sociali e carabinieri (già Furio Colombo si era dilettato a fare una simili­tudine di questo genere), per poi sparire nel nul­la (la stessa Serena, che fine avrà fatto? Non sarà forse rinchiusa tra le mura di un qualche istituto? La faranno passeggiare? Come mai nes­suno di noi la incontra per strada?), una specie di campo di concentramento che sta a mezzo tra un girone dell'inferno dantesco ed un lager na­zista. Un mondo disseminato di desaparecidos, come nelle peggiori dittature.

Tutto ciò ci sembra il parto di una fantasia allucinata, oltre ad essere profondamente offen­sivo - a dir poco - nei confronti delle famiglie adottive e affìdatarie, delle istituzioni, degli ope­ratori, dei giudici minorili e delle associazioni impegnate a tutelare i diritti di questi bambini.

Il confronto di idee si è trasformato in una caccia alle streghe: il sonno della ragione genera i mostri!

A chi si scaglia con furore apocalittico contro l'universo astratto ed irreale voluto dai «tiepidi» che rifuggono dal freddo della vera scienza e dal calore della immedesimazione emotiva, facciamo notare che, con tutte le loro imperfezioni ed i loro limiti culturali e pur nell'inadeguatezza di tante strutture di supporto e nelle inadempien­ze di troppi pubblici amministratori, è merito di questi «tiepidi» se dal 1967 ad oggi, grazie alla disponibilità ed all'entusiasmo di tanti nuclei fa­miliari, circa 250.000 bambini hanno potuto tro­vare il calore degli affetti, se tante vite spezzate sono state ricostruite nel loro tessuto umano, se tanti bambini e tanti ragazzi hanno incomin­ciato ad assaporare il gusto di vivere un'esisten­za decente, hanno ripreso a crescere per diven­tare gli uomini di domani.

Certamente, non pochi sbagli sono stati com­messi e continuano a commettersi tutti i giorni, certe facilonerie e certe incurie dovrebbero e potrebbero essere evitate e superate. Ma fare di ogni erba un fascio, e seminare zizzania, solle­vando polveroni là dove sarebbero invece neces­sari razionalità ed impegno sociale, non rappre­senta davvero un servizio alla verità, e non giova proprio a nessuno.

 

3. L'amore dei «genitori adottivi»

Leggiamo che i «primi genitori adottivi» di Se­rena l'amavano veramente, proprio «come fosse stata una loro figlia di sangue» (p. 49). Le ave­vano anche insegnato a non rovistare nell'immon­dizia e a non dormire per terra (p. 40).

Ci permetta di osservare, signora Ginzburg, che queste espressioni non ci piacciono ed anzi ci inquietano, perché le abbiamo sentite troppe volte ripetere tali e quali da parte di chi, in pas­sato, considerava l'adozione come il surrogato dell'amore materno, un rimedio contro la sterilità e la solitudine (quando non anche la ricerca di un bastone per la vecchiaia): una progenitura di seconda categoria.

La lettura del suo scritto legittima in pieno que­sta nostra impressione, poiché i valori veri dell'adozione, il suo significato di paternità e ma­ternità responsabile, le scelte di solidarietà e di creatività che essa sottintende non trovano mai espressione e riconoscimento in nessuna pagina del libro, dove invece l'espressione «adottare» ha completamente perso il suo intenso signifi­cato di «accoglienza» per diventare soltanto il sinonimo di «prendere un bambino»: non a caso lei usa più volte nel suo volume l'espressione «mettere un bambino in adozione» (né più né meno come un tempo si diceva: «mettere un bam­bino in istituto»). Tutto è ridotto su di un piano così limitato, così povero, che vien da chiedersi se veramente sia stata recepita - soprattutto dagli «intellettuali» - l'importanza della posta in gioco per la nostra dignità di uomini, per il presente e l'avvenire della società.

E così anche il racconto dell'adozione di Na­zario, come è descritto alla pagina 51, suona falso e irreale. Ci creda, signora Ginzburg, le ado­zioni internazionali non si fanno così. Non occor­re né soggiornare nei grandi alberghi, né essere ricchi o far finta di esserlo (a meno che si abbia a che fare con loschi trafficanti) per adottare un bambino nel solo ed unico modo che sia rispet­toso della legge e dell'umanità. e cioè a mezzo di associazioni di volontariato riconosciute dallo Stato e che da anni operano senza fini di lucro allo scopo di procurare ad un bambino una fa­miglia che risponda alle sue esigenze, dopo che si è cercato di penetrare nel suo mondo e di met­terne a fuoco i vuoti affettivi ed i bisogni che si porta dentro, scongiurando in partenza anche il più piccolo rischio che quel bambino - o la sua famiglia di origine - possa essere veicolo di cessioni e di mercanteggiamenti.

Le adozioni, non ci stancheremo mai di ripeterlo per chi ha orecchie per intendere e cuore per capire, non sono e non saranno mai uno stru­mento per togliere alle famiglie povere i figli da dare a quelle ricche: questa è una delle tante mistificazioni messe in circolazione da chi è pre­venuto o mal informato, una affermazione dema­gogica smentita dalla stessa realtà delle cose e dall'esperienza concreta, poiché la maggior par­te dei nuclei adottanti è costituita da famiglie di operai e di impiegati. Per adottare bisogna essere ricchi, ma ricchi «dentro».

 

4. Storie di adozioni

Il quadro si fa ancora più cupo quando il libro commenta l'atteggiamento delle istituzioni nei confronti dell'infanzia e delle famiglie, e descri­ve come sono oggi decise e amministrate le ado­zioni. Nei giudici, nei medici, nei tecnici dei ser­vizi sociali lo sguardo che sa distinguere il bene dal male si è spento definitivamente, ed essi se­parano i figli dai genitori, i fratelli dai fratelli, perseguendo un'idea rarefatta di perfezione, scor­gendo ad ogni angolo gli spettri delle violenze sessuali e degli abusi e mandando i carabinieri a prelevare i bambini nelle case, nelle scuole e negli asili per farli sparire per sempre, distrug­gendo le loro vite con la pretesa di ricostruirle migliori o magari per affidarli a famiglie di loro gradimento o per metterli a languire per anni negli istituti (il giornale «L'Unità» del 28 febbraio, facendo becera eco a questa diagnosi, ha conia­to ad hoc questa suggestiva espressione: «il Super-io sadico delle istituzioni»!). Ed a compro­va di simili atrocità, l'Autrice porta ad esempio alcuni casi; ne riprendiamo due:

a) il caso del ragazzo undicenne Christian Za­non, ingiustamente ed affrettatamente separato nell'aprile 1989 dal fratello sedicenne Demis che viveva con lui in un istituto di Domodossola, per essere messo in adozione, e poi affidato al padre che si era opposto alla dichiarazione di adottabi­lità, grazie anche alla tenacia del frate preposto all'istituto.

Va soltanto rilevato che la vicenda è purtroppo ben più complessa di quanto non sia riferito nel libro, e si inserisce in un quadro impressionante di sfascio familiare. L'undicenne Christian era stato l'unico ad essere dichiarato adottabile (do­po anni di istituzionalizzazione e di totale disinte­resse da parte dei due genitori separati!) perché il fratello sedicenne aveva espresso il suo rifiuto (vincolante per i giudici) nei confronti sia di una sua adozione con il fratello più piccolo che di un affidamento familiare. Soltanto al termine della procedura per la dichiarazione di adottabilità il padre si è fatto vivo impegnandosi a provvedere, con l'aiuto dell'Ente locale, all'educazione dei figli, consentendo così al Tribunale per i minoren­ni di sospendere l'esecuzione del provvedimen­to in via sperimentale. Va anche ricordato che il frate sopra citato si è sempre rifiutato di colla­borare in qualsiasi modo con il Tribunale per cer­care altre soluzioni alternative all'istituzionalizza­zione, vantandosi con i giornalisti di essere con­trario alle adozioni e agli affidamenti;

b) una sentenza emessa nel maggio 1989 dal­la Corte di Cassazione, e secondo la quale «i supremi giudici dicono ai magistrati che dovran­no decidere se strappare un bambino alla fami­glia naturale: non tenete in nessun conto la sof­ferenza dei genitori. E non considerate come im­pedimento per le vostre decisioni nemmeno le sofferenze che possono derivare al piccolo dal temporaneo ricovero in istituto. Perché l'impor­tante... non è il presente, ma il futuro: e voi giudi­ci dovete giudicare proprio pensando al futuro del bambino». Questa sentenza, commenta la scrit­trice, ha gelato il sangue a tutti. Tutti sono in­sorti, ma dinnanzi al potere supremo la gente non può farci nulla (p. 64).

Ebbene, in quella sentenza i giudici, dopo aver esposto che nel caso di specie era stata accer­tata una gravissima trascuratezza dei genitori verso i loro tre figli (i quali avevano persino su­bìto un ritardo evolutivo impressionante ed era­no stati tra l'altra privati di qualsiasi assistenza medica) e che quindi si trattava di intervenire tempestivamente «per impedire che la demoli­zione della personalità in evoluzione di quei bam­bini venga portata ad estreme ed irreversibili conseguenze», scrivevano testualmente:

«Correttamente i giudici del merito hanno rite­nuto di confermare la decisione volta ad una suc­cessiva adozione dei tre bambini da parte di un nuovo nucleo familiare pur in presenza di una temporanea sofferenza dei bambini privati dei loro genitori naturali a seguito dei provvedimenti di allontanamento. È doveroso, da parte dei giu­dici, non tener conto di questa temporanea sof­ferenza, proprio perché gli adulti sanno quello che non sa un bambino, che cioè esiste un futuro, che questo futuro sarà indubbiamente migliore, perché darà dei veri genitori, impegnati a com­pensare i loro figli adottivi delle privazioni che hanno subìto nella famiglia d'origine».

Come si vede, è stato distorto e travisato il pensiero dei giudici, che avevano affermato l'ov­vio ed elementare principio secondo cui l'inte­resse del bambino ad essere lasciato nel suo ambiente di vita non va solamente guardato nel momento presente ma deve essere proiettato anche su tutto il suo itinerario di crescita, lungo il difficile cammino verso la conquista della sua maturità.

 

5. Le storture della legge

Dove, poi, il pessimismo raggiunge veramente il culmine è quando l'Autrice concentra l'atten­zione sulle storture della legge sulle adozioni. Una «legge pessima», a suo giudizio, perché im­pedisce alle coppie anziane ed alle persone sole di adottare (p. 70). Perché, invece di badare sol­tanto al desiderio di un figlio che muove coloro che chiedono di adottare, si vuol scoprirne a tutti i costi i motivi. Perché li considera «come volpi o lupi o uccellacci da preda», facendoli aspettare per anni ed anni, costringendoli alla fine ad an­dare all'estero, mentre in Italia i bambini languo­no negli istituti (p. 72-73). Perché consente di «mettere in adozione» i bambini contro la volon­tà dei loro genitori e di toglierli alla famiglia anche se si tratta di semplice povertà, mentre per il bambino è sempre meglio restare con la sua famiglia, anche se questa è pessima e se lui vi cresce nell'odio, nell'infelicità e nella vergogna (p. 75), anche se la madre nutre rancore contro il figlio e non l'ha mai desiderato (p. 78-79). Dun­que era meglio prima, quando per legge era sem­pre necessario il consenso dei genitori, e la gen­te non aveva paura delle istituzioni.

Qui il libro è davvero come un treno che è andato fuori dei binari. Evidentemente la scrit­trice o ignora del tutto o respinge in blocco (il che, in fondo è la stessa cosa) la riforma che nel 1967 ha introdotto in Italia l'istituto (prima sconosciuto) dell'adozione legittimante e che poi è stata ulteriormente perfezionata nel 1975 con la revisione del diritto di famiglia e nel 1983 con l'approvazione della legge 184 Una riforma che ha significato la rottura del vecchio schema se­condo cui i genitori potevano fare ciò che voleva­no dei propri figli, ed attraverso la quale i mi­nori non sono più da considerare l'appendice e la proprietà di chi li ha generati, ma bensì come soggetti autonomi sia affettivamente che giuri­dicamente, con il diritto socialmente tutelato di godere di un rapporto di filiazione che garantisca lo sviluppo della loro personalità. Una riforma che ha inteso anche introdurre dei precisi meccani­smi per sottrarre tutta la materia del disagio in­fantile alla logica della domanda e dell'offerta tra adulti.

È chiaro come tutto questo comporti un radi­cale cambiamento di mentalità, che evidentemen­te non è stato ancora ben compreso dalla co­scienza collettiva e che - come dimostra an­che questa iniziativa editoriale - continua a scontrarsi con delle sacche di resistenza e delle ideologie «familiariste» dure a morire, secondo cui «la famiglia è una monade chiusa, senza fi­nestre sullo Stato» (Ferdinando Camon, sulla «Stampa» del 21 febbraio), l'educazione deve re­stare (come il talamo coniugale) una faccenda privata dove nessuno deve ficcare il naso, e to­gliere un bambino ad una famiglia - anche se questa lo rende infelice e ne distorce irrepara­bilmente la crescita - è sempre un sacrilegio.

Se Natalia Ginzburg avesse appena sfogliato le interviste raccolte da Neera Fallaci nel libro «Di mamma non ce n'è una sola» (Milano, 1982), si sarebbe forse resa conto di quanto sia essen­ziale per i bisogni primari del bambino il fatto di essere inserito in una famiglia composta da persone capaci di esprimere amore ed equili­brio, ed a quali disastri vadano incontro certe adozioni fatte in modo affrettato, senza una ade­guata preparazione del ragazzo e della famiglia e quindi senza una reciproca accettazione. Sa­prebbe che l'adozione è un mestiere per giova­ni, come ha dichiarato un giovane allevato da una famiglia di anziani.

Se avesse sfogliato un po' di statistiche e qual­che rivista specializzata, saprebbe che mai nes­sun bambino è stato tolto ai suoi genitori sol­tanto perché questi non avevano i mezzi econo­mici per occuparsi di lui (se non altro perché, in questi casi, interviene la clausola della «for­za maggiore» che impedisce al giudice di dichia­rare l'adottabilità), e che alla base dell'abban­dono di un figlio non c'è mai un problema econo­mico e basta, ma c'è sempre un problema di ri­fiuto e di incapacità affettiva grave. Saprebbe, so­prattutto, che è una stupida favoletta il pensare che nell'adozione l'amore si accenda con la fa­cilità di una lampadina: perché possa a sua vol­ta trasmettere amore, un bambino deve essere amato e desiderato lungo tutto l'arco della sua crescita.

Sul piano della cosiddetta creazione letteraria tutto può tollerarsi, persino la stravaganza del paradosso ed il gusto della provocazione, anche se rischia di creare sconcerto e false opinioni in chi non è preparato a decantare l'artificio che è sempre presente nella letteratura: così, nell'Ot­tocento, lo «scrittore maledetto» Thomas De Quincey si dilettava a scrivere l’elogio dell'as­sassinio «come espressione delle belle arti», ma poi nella vita di tutti i giorni era uno stimato pa­dre di famiglia che certamente non andava in giro ad ammazzare la gente. Ma quello che troviamo gravissimo è che, sul piano della vita reale, giu­risti e uomini di cultura si allineino pedissequa­mente, e ne predichino l'attuazione pratica, alla esposizione di concetti che si collocano ad anni­luce di distanza dagli obiettivi di promozione e di tutela dei minori su cui è imperniata tutta la legislazione sull'adozione. Padrona la signora Ginzburg di scrivere quello che vuole e di gua­dagnarci magari anche sopra, ma sia ben chiaro che per scrivere di cose serie bisogna prima do­cumentarsi e poi riflettere, e non affidarsi alla ca­sualità dell'emozione.

 

6. II mercato dei bambini

Le paginette che chiudono il libro di Natalia Ginzburg sono, forse, le più terribili. Essendo Na­talia Ginzburg celebrata come «protagonista di generose campagne civili», ci si aspettava da lei che almeno nella parte conclusiva del suo pamphlet lo sguardo si innalzasse un tantino più in alto: all'altezza, se non altro, di quella «vera giustizia» che dà il titolo al libro e che - come è scritto nella pagina finale - dovrebbe difen­dere i diritti dei più deboli contro i più forti. Ed invece ecco quali sono le brillanti conclusioni:

a) E vero, il mercato dei bambini è sempre più diffuso e prospera e mette spavento. Però non bisogna nemmeno vedere sempre il male dap­pertutto. Ad esempio, due coppie di italiani sono state arrestate l'anno scorso a Bogotà per traffi­co di minori insieme ad una donna di nazionalità colombiana, in una villa di un quartiere elegan­te dove c'erano tre bambini denutriti e con segni di maltrattamenti sul corpo: ma poi si è scoper­to che quelle coppie erano «senza colpa» perché si erano semplicemente messe in contatto con quella donna «per comprare quei bambini e adot­tarli». In fin dei conti, se l'adozione si fa in ma­niera «non troppo legale», se qualcuno la tra­sforma in un'industria, non dipende forse dal fat­to che in Italia è diventato troppo difficile adot­tare?;

b) bisogna assolutamente cambiare la legge sulle adozioni, prevedendo la possibilità di adot­tare anche in condizioni di illegittimità, quando la permanenza illecita di un bambino in una fa­miglia abbia avuto una certa durata, per non esporre il bambino al trauma della separazione: sarà una legge un po' «ballerina», ma non c'è niente da fare;

c) i giudici minorili non devono, forse, «spa­rire» proprio del tutto (come vuole il Partito So­cialista), ma sicuramente devono diventare «com­pletamente diversi da come oggi sono».

La morale che si ricava da questa tristissi­ma storia di Serena è che, quando uno non rie­sce a trovare in Italia un bambino da adottare (o perché non è stato ritenuto adatto da chi di do­vere o perché si è stufato di aspettare), può an­darselo tranquillamente a scegliere come han fatto i Giubergia - pagando il dovuto alla madre od a qualche trafficante - in un posto qualsiasi del Terzo Mondo (purché naturalmente, si tratti di un bambino «bellino» e non troppo malconcio, e, soprattutto, non troppo negro, perché i bambi­ni negri danno troppo nell'occhio e non li vuole nessuno, nemmeno in America, dove li esporta­no in cambio di quelli con gli occhi a mandorla).

Intanto, il «mercato» lo fa soltanto chi vende il bambino, mica chi lo compra, che diamine? Che cosa sono tutte queste fisime?

Poi, basterà tenerselo in casa per un po' di tempo, e il gioco sarà fatto. Se un giudice o un assistente sociale ficcanaso volesse metterci il becco, lo si manderà a quel paese dicendogli di farsi i fatti suoi perché ormai il bambino è «no­stro» e ci vuol bene. Se, poi. nascessero delle discussioni, ci sarà sempre qualche solone, qual­che luminare della vera scienza (di quella scien­za «fredda» che non si lascia condizionare dai «tiepidi») che in punta di forchetta e con la puzza sotto il naso farà entrare in testa a quel mucchio di incompetenti, che non capiscono un accidenti di psichiatria, che il bambino va lasciato lì dove si trova, perché lì sta tanto bene e guai a chi lo tocca.

Non importa proprio niente se chi è andato a comprare il bambino non sa assolutamente nulla di lui, delle sue tragedie passate, dei rancori e delle rabbie e delle paure che si porta dentro, dei bisogni che ha. Se si adatterà alla nuova fa­miglia, bene. Se no, fra qualche mese o fra qual­che anno, come hanno fatto quei genitori di Milano, potremo sempre depositarlo al servizio dei pacchi rifiutati presso i magazzini dell'assisten­za, e chi s'è visto s'è visto.

 

 

 

(1) L'art. 9 della legge 4 maggio 1983 n. 184 «Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori» prevede:

«Chiunque, non essendo parente entro il quarto grado, accoglie stabilmente nella propria abitazione un minore, qualora l'accoglienza si protragga per un periodo superio­re a sei mesi, deve, trascorso tale periodo, darne segna­lazione al giudice tutelare, che trasmette gli atti al Tribu­nale per i minorenni con relazione informativa. - L'omis­sione della segnalazione può comportare 1'inidoneità ad ottenere affidamenti familiari o adottivi e l'incapacità all'ufficio tutelare».

 

 

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