Prospettive assistenziali, n. 89, gennaio-marzo 1990

 

 

RIPARTIRE LE RISORSE PER RIMUOVERE GLI OSTACOLI: LEGGE FINANZIARIA E ATTESE DEI CITTADINI PIÙ DEBOLI

CARITAS ITALIANA (*)

 

 

Premessa

Da più di dieci anni, nel nostro paese, l'econo­mia è governata principalmente, se non esclusivamente, attraverso lo strumento della Legge fi­nanziaria, predisposta annualmente dal governo e approvata dal parlamento.

Al di là delle diverse configurazioni, che pure la Legge finanziaria ha conosciuto in questo de­cennio, essa ha finito col porsi come la sede pri­vilegiata di confronto tra l'autorità politica e le forze sociali, attorno a quella questione cruciale che è la distribuzione del reddito e l'allocazione delle risorse di cui dispone il paese.

Si è così assistito, nel corso di questi anni, a lunghe trattative del governo (ma anche del par­lamento) con i sindacati dei lavoratori, le asso­ciazioni imprenditoriali, gli ordini professionali, insomma con le molteplici categorie di cui si compone la struttura economica e sociale del paese.

Se si eccettuano sporadici incontri, è invece mancato quasi del tutto il confronto con i punti di vista degli strati più deboli e meno organizzati della popolazione, con le diverse tipologie di po­vertà, di disagio, di handicap, di emarginazione.

È quindi assai fatale che questa minoritaria, ma tuttora consistente porzione della società ita­liana, sia stata sostanzialmente dimenticata, e spesso danneggiata, nell'impostazione delle di­verse manovre finanziarie e di bilancio, varate da governo e parlamento.

Questa situazione appare in evidente contra­sto con quanto previsto e prescritto dalla Costi­tuzione che, all'art. 3, afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine eco­nomico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini.

Scopo di questo documento, di cui si assumono le responsabilità gli organismi firmatari, vuol essere allora quello di dare voce più forte e chia­ra ai punti di vista dei cittadini mai interpellati e in particolare degli «ultimi», alle loro attese e alle loro rivendicazioni rispetto ad una più equa destinazione della ricchezza di cui paese dispone.

Del resto, se è vero che il livello di civiltà di una nazione si misura anche da come essa af­fronta i problemi di chi sul mercato è più debole e rischia l'emarginazione, l'Italia non può imma­ginare di prepararsi adeguatamente alla grande sfida del mercato unico europeo, prevista per il 1993, concentrando la propria attenzione all'ap­parato produttivo: il nostro paese potrà giocare un ruolo importante in Europa, solo se si dimo­strerà «competitivo» anche sul terreno dell'equi­tà e della qualità sociale.

 

Le politiche economiche e sociali degli anni '80

Non è facile dare un giudizio sintetico - che non voglia essere schematico - sulle politiche economiche e sociali di questa seconda metà de­gli anni '80.

Sarebbe indubbiamente ingeneroso accusare governi e parlamento di aver perseguito lucida­mente una linea antipopolare, di dura penalizza­zione dei ceti più deboli, di smantellamento del­lo Stato sociale.

E tuttavia non si può ignorare come, in parti­colare proprio negli ultimi anni, si sia verificata, a livello macroeconomico, una tendenza che non può non essere definita come regressiva da chi si ponga dal punto di vista degli interessi meno forti: intendiamo riferirci alla graduale, ma rapi­da e consistente, erosione della spesa sociale, a vantaggio di quella per interessi.

È ormai largamente noto che la causa primaria di questo snaturamento della spesa pubblica e dell'intero sistema economico nazionale, è da ricercare nel debito dello Stato, la cui crescita, alimentata dal disavanzo dei bilanci annuali, pro­voca un dirottamento delle risorse dagli impieghi di carattere sociale al finanziamento della ren­dita speculativa.

Nel periodo 1980-1988, la spesa dello Stato per interessi sul debito è cresciuta ad un ritmo assai superiore al resto della spesa corrente e a quella per investimenti. Gli interessi, che nel 1980 rappresentavano un sesto della spesa cor­rente, pesano oggi per un quarto: per fare solo un esempio, la spesa annuale per interessi è og­gi il doppio di quella sanitaria.

Quel che si sta silenziosamente verificando è dunque un progressivo (ma rapido) stravolgimen­to dello Stato sociale: si ridimensiona la quota destinata alla spesa sociale - dalla sanità, alla scuola, all'assistenza, all'insieme dei servizi col­lettivi - con un evidente danno secco per i ceti più deboli e con una caduta di solidarietà per il paese nel suo insieme, mentre si assiste ad una incontrollabile espansione della spesa per inte­ressi, che si traduce in finanziamento, da parte dello Stato, della crescita del potere d'acquisto e della ricchezza privata dei ceti più forti, ossia di coloro che dispongono di quote consistenti di capitale da offrire in prestito allo Stato in cam­bio di interessi.

Il risultato di questo processo è che negli ulti­mi anni, mentre il reddito nazionale è cresciuto a ritmi elevati (3/4% annuo), le disuguaglianze, gli squilibri, le ingiustizie presenti nel paese, non solo non si sono ridotte, ma hanno finito con l'accrescersi: basti pensare al divario Nord-Sud, che ha ripreso, proprio in questo decennio, ad allargarsi; ma anche, più generalmente, al ria­cutizzarsi di vecchie, e al diffondersi di nuove, forme di povertà.

Le leggi finanziarie varate in questi anni non sono riuscite a contrastare efficacemente questa tendenza. È nostra convinzione che questo «in­successo» sia dovuto ad una complessiva debo­lezza delle istituzioni, di fronte al potere contrat­tuale dei ceti più forti.

Non si riescono a spiegare altrimenti, ad esem­pio, i ritardi su una questione decisiva come la equità fiscale: senza una migliore politica delle entrate tributarie, fondata su un allargamento della base contributiva, ossia sulla lotta all'eva­sione e alle tante forme di elusione fiscale, è infatti inevitabile che si finisca col comprimere la spesa sociale.

Ma non può essere considerato giusto uno Stato che, sulla pelle dei cittadini più deboli, pre­ferisca prendere in prestito a interesse dai ceti più forti quella ricchezza che gli sarebbe dovuta attraverso il fisco.

Le responsabilità dei governi, del Parlamento, di molte forze politiche o sociali, sono pertanto gravi, rispetto al mancato conseguimento dello obiettivo dell'equità fiscale, senza la quale lo stesso patto sociale si fa ambiguo e dunque pre­cario.

La debolezza riformatrice dell'azione di gover­no, in particolare negli ultimi anni, è riscontrabile anche nella progressiva dequalificazione della spesa: anche in questo campo le forze politiche e sociali non hanno saputo esprimere la determi­nazione necessaria a far sì che la spesa pubblica, ossia la ricchezza dei cittadini, produca vantaggio durevole alla collettività, e in particolare ai più deboli, e non si limiti invece - come oggi spesso accade - alla pura erogazione di trasferimenti monetari, siano essi sotto forma di misure as­sistenzialistiche indiscriminate o, peggio, clien­telari, o sotto forma di lavoro pubblico non ade­guatamente produttivo.

 

Per un nuovo Stato sociale

Se commisurate all'obiettivo di favorire una crescita complessiva del paese, apprezzabile non solo sul piano quantitativo, ma anche su quello qualitativo e dell'equità sociale, le politiche eco­nomiche e sociali degli ultimi anni non possono essere giudicate positivamente.

La tendenza manifestatasi in questi anni ad un ridimensionamento e ad uno snaturamento dello Stato sociale va combattuta e rovesciata.

Non può essere accettata la riduzione dello Stato sociale a strumento di mera ridistribuzione del reddito, per di più in chiave regressiva.

Va invece riaffermata la sua funzione di stru­mento di rafforzamento della solidarietà sociale, attraverso l'organizzazione di risposte collettive ai bisogni sociali.

Al di fuori di questa strada, c'è solo la mercan­tilizzazione spinta dei rapporti sociali, che com­porta effetti tutt'altro che positivi, non solo in termini di logoramento della solidarietà sociale, ma anche in termini di irrazionalità, anche econo­mica del sistema.

Per fare solo un esempio, una città priva di un efficiente sistema di trasporto pubblico non solo penalizza i più deboli e accresce la disugua­glianza, ma diventa invivibile (anche da un punto di vista economico) per tutti.

Difendere lo Stato sociale non significa tutta­via difenderlo così come è oggi, tanto meno così com'è oggi in Italia. Una profonda ristrutturazio­ne dello Stato sociale è anzi necessaria e urgen­te: purché l'obiettivo sia quello del suo raffor­zamento, non quello della sua liquidazione.

Su questo punto, come organismi che concor­rono a rappresentare la voce degli ultimi, inten­diamo incalzare in modo più pressante governo, parlamento, forze politiche e sociali.

Presupposto di qualunque rilancio dello Stato sociale è la ristrutturazione del sistema fiscale. Non è vero che in Italia si paghino troppe tasse: semmai il carico fiscale è troppo gravoso per alcuni (in particolare i lavoratori dipendenti), per­ché è mal distribuito, perché consente a larghi strati di cittadini una sostanziale immunità fi­scale.

Una riforma fiscale, che vada nella direzione di una effettiva attuazione dei principio costituzio­nale per cui tutti i cittadini devono concorrere al finanziamento della spesa pubblica in modo pro­porzionato al loro reddito, è dunque un obiettivo irrinunciabile, pena il degrado civile del paese.

Per risanare la spesa pubblica e rilanciare lo Stato sociale non basta tuttavia agire sul versan­te delle entrate. Occorrono incisivi interventi an­che dal lato delle uscite: perché la spesa pub­blica si traduca in beneficio reale per i cittadini, è necessario attrezzare lo Stato di una macchina amministrativa più efficiente.

Ciò significa in primo luogo responsabilizzare i centri di spesa, attraverso un rafforzamento dei controllo sociale sull'utilizzo delle risorse pub­bliche. Un rafforzamento che presuppone maggio­re trasparenza e maggiore vicinanza, anche fisica, tra cittadini e istituzioni.

La riforma degli enti locali, in una linea che dia loro maggiori poteri a cominciare dall'auto­nomia impositiva bilanciati da maggiori spazi e strumenti di controllo da parte dei cittadini - a cominciare dalle procedure elettorali - si pone quindi come un atto necessario e non più rin­viabile.

Grandi responsabilità, ai fini dei risanamento dei bilancio dello Stato, ha poi sulle spalle la contrattazione sindacale nel pubblico impiego: non si possono chiedere incrementi salariali, cioè un aggravio dei costi sopportabili dalla col­lettività, se non in cambio di precisi, verificabili risultati in termini di efficienza della pubblica amministrazione. Mai come in questo caso è evi­dente il legame strettissimo tra efficienza e so­lidarietà.

Più generalmente, occorre qualificare la spesa corrente: non solo riducendo il peso relativo del­la voce degli interessi, mediante una diversa po­litica delle entrate, ma anche ridimensionando la incidenza della spesa corrente dei puri trasferi­menti monetari, siano essi erogati sotto forma di stipendi ai dipendenti, come sotto forma di contributi assistenziali, in favore della spesa per il miglioramento dei servizi collettivi (sanità, scuola, trasporti, abitazioni, verde pubblico, tu­tela dei beni culturali e ambientali) e di quella per investimenti, finalizzati soprattutto al Mez­zogiorno, alla creazione di un nuovo lavoro, con­dizione imprescindibile per una piena cittadi­nanza. In un simile contesto di riforma, si dovrà necessariamente por mano anche ad una ristrut­turazione del vasto e oggi caotico settore della assistenza.

In primo luogo, si fa sempre più urgente il varo della legge quadro sull'assistenza, che da troppi anni giace in Parlamento. Occorre un qua­dro normativo certo, perché il principio che fa dell'assistenza non una arbitraria concessione dello Stato, ma un diritto soggettivo dei cittadi­no, possa tradursi in precisi strumenti e in pro­cedure trasparenti, al fine di evitare discrimina­zioni, abusi, lungaggini burocratiche, ingiustizie, sprechi.

Senza una legge quadro è dei resto impossibile superare le settorialità degli interventi, procede­re all'integrazione tra assistenza sociale e assi­stenza sanitaria, responsabilizzare in modo chia­ro gli enti locali, superare le attuali sperequa­zioni regionali, far prevalere il principio di un'as­sistenza riabilitante, quindi operata sul territorio, preferibilmente a domicilio, rispetto alle solu­zioni di assistenza segregante mediante istitu­zionalizzazione.

In secondo luogo, e sulla stessa linea, occorre procedere con sollecitudine all'unificazione dei mille rivoli, nei quali oggi si disperde (impanta­nandosi) l'erogazione di trasferimenti monetari, attraverso l'istituzione dell'assegno sociale cali­brato in base al reddito familiare.

 

Le nostre priorità

Sulla base delle analisi sin qui condotte, in­tendiamo formulare alcune precise richieste a governo e parlamento, in relazione alla legge fi­nanziaria per il 1990.

• La finanziaria deve prevedere un finanziamento adeguato della legge quadro sull'assistenza, la cui approvazione potrebbe figurare tra i provve­dimenti di accompagnamento.

• Ugualmente, deve prevedere un fondo per il varo della legge istitutiva dell'assegno sociale, pure da inserire tra i provvedimenti di accompa­gnamento.

• Deve inoltre dotare di adeguati stanziamenti la legislazione già in vigore in materia di immi­grazione. Parallelamente si dovrà procedere ad un rafforzamento di questa legislazione, oggi par­ticolarmente lacunosa - basti pensare al gran­de capitolo dei rifugiati e si dovranno rendere più trasparenti i meccanismi di decisione circa l'utilizzo dei cospicuo fondo in dotazione al Mi­nistero degli Esteri per la cooperazione allo svi­luppo.

• Si deve prevedere la copertura finanziaria dei cinque -progetti -obiettivo del Piano sanitario nazionale (al di là del merito dei singoli progetti sul quale chiediamo venga riaperto un confronto).

• Prevedere stanziamenti non simbolici per la formazione permanente di operatori, dirigenti e amministratori dei servizi socio-sanitari, premes­sa imprescindibile per la qualificazione dei servi­zi stessi.

• Aumentare lo sforzo, anche finanziario, per in­vestimenti finalizzati a creare nuova occupazione, soprattutto giovanile, nel Mezzogiorno.

• Rilanciare gli investimenti nell'edilizia pubbli­ca, destinando a tal fine il fondo ex-Gescal, tutto­ra trattenuto dalle buste paga dei lavoratori e non speso.

• Finanziare un piano per l'obbligo scolastico, oggi paurosamente evaso, soprattutto nel Mez­zogiorno.

 

 

 

(*) Il documento è stato sottoscritto da: Gruppo Volon­tariato Vincenziano, Via Pompeo Magno 21, Roma; Movimento di Volontariato Italiano, Via Dardanelli 13, Ro­ma; F.O.C.S.I.V., Via Palombini 6, Roma; Federazione Na­zionale della Cooperazione Sociale, Piazza della Libertà 13, Roma; Conferenza Nazionale Misericordie d'Italia, Piazza S Giovanni 1, Firenze; Federazione Nazionale Pubbliche Assistenze, Via S. Gallo 32, Firenze; Associazione Volon­tari Ospedalieri, Via Monte di Pietà 79, Milano; Coordina­mento Nazionale Comunità di Accoglienza, Via Zumbini 32, Milano; Consiglio Superiore per l'Italia di S. Vincenzo de' Paoli, Via Traini 14, Pisa; Associazione per il Volonta­riato nelle Unità Locali dei Servizi Socio Sanitari, Località Canonica 3 Brezzo di Bedero (Varese); Consorzio Coope­rative Integrate, Via Lungro 3, Roma.

Il documento è stato inviato in data 12 settembre 1989 al Presidente del Consiglio e ai Ministri Carli, Formica, Pomicino e Russo Jervolino.

 

 

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