Prospettive assistenziali, n. 86, aprile-giugno 1989

 

 

L'ANZIANO, LA SUA FAMIGLIA, LA SOCIETÀ

PHILIPPE MEIRE

 

 

Dal 2 al 5 giugno 1988 si è svolto a Milano il convegno «Nascere, amare, morire: famiglia ed etica oggi», organizzato dal CISF, Centro Internazionale Studi Famiglia, in collaborazione con l'Università Cattolica di Lovanio.

Per gentile concessione del CISF, pubblichiamo la relazione tenuta dal Prof. Philippe Meire, Vice Direttore della Clinica Psichiatrica dell'Università Cattolica di Lovanio.

 

Introduzione

Gli anziani ci sono sempre stati... Tuttavia, la situazione ha subito una profonda evoluzione quantitativa e qualitativa: una volta: i vecchi rap­presentavano i sopravvissuti abbastanza rari di un'ecatombe che colpiva le popolazioni più gio­vani (mortalità perinatale, epidemie, guerre, malattie acute...) e inoltre vivevano in un mondo dove la vulnerabilità era un destino comune. Non è il caso di idealizzare quel tempo, in cui i bambini nascevano molto spesso quando erano già morti i quattro nonni e perciò quando la famiglia non poteva essere multigenerazionale.

L'invecchiamento della popolazione, frutto del progresso medico e sociale, pone quindi dei problemi nuovi alla famiglia, che ne risulta profondamente trasformata. Ora, la risposta della fami­glia è largamente influenzata dalla cultura domi­nante della nostra epoca, dominata dal primato dell'oggettivazione, dalla volontà di dominio e dal prestigio dell'approccio medico. Questa ideolo­gia comporta un'oscillazione, che da una parte nega la vecchiaia, sempre evitata e rinviata, nella esaltazione dell'attivismo e dell'utilitarismo, e d'altra parte riduce la vecchiaia a una malattia che deve essere curata con la medicina, quando sopraggiunge l'ineluttabile vecchiaia stessa. Ve­dremo che questa ipermedicalizzazione della pro­blematica della vecchiaia provoca paradossal­mente un aggravamento dei fenomeni patologici, tramite la rottura della solidarietà familiare e amicale, l'incomprensione delle dinamiche affet­tive e l'espropriazione dell'anziano mediante mec­canismi di oggettivazione.

Se la famiglia vuol essere un luogo per «vivere, amare e morire», deve considerare l'anziano in maniera differente, con una visione del proble­ma che non lo chiuda più in se stesso, ma si apra all'altro come persona. Ciò si può realizzare uni­camente in una profonda interdipendenza fra l'an­ziano, la sua famiglia e gli altri in una società solidale. L'avanzamento negli anni esige che l'in­dividuo vada oltre l'immagine di se stesso, accet­ti questa perdita mediante un «processo di lutto» in cui abbandona le sue identificazioni e si apre ai nuovi avvenimenti. Senza dubbio, tale evolu­zione sarà possibile solo se è accompagnata e sostenuta dalla famiglia e dall'ambiente sociale. Questo dialogo con l'anziano nel suo progressivo evolversi provocherà a sua volta effetti sui paren­ti in una sorta di pedagogia del non-dominio e dell'interdipendenza. Solo un atteggiamento di esclusione o di negazione dell'anziano per­mette agli altri di illudersi sul loro pseudo-domi­nio e sulla loro indipendenza narcisistica.

Questo rimettere in causa i nostri desideri di dominio e le nostre comodità narcisistiche è par­ticolarmente violento nei casi di pazienti detti «dementi», con tutte le riserve che impone questo termine generico. Tale contatto può essere tal­mente sconvolgente da suscitare differenti rea­zioni di rigetto o di fuga. Quegli stati contrasse­gnano effettivamente i limiti della nostra raziona­lità, della nostra affettività e delle nostre con­vinzioni. Una riflessione sull'invecchiamento non può ignorare né quegli individui che vivono la «grande prova», né le loro famiglie che si dibat­tono in problemi materiali, psicologici ed etici. In simili momenti di solitudine, limitatezza e in­certezza estrema, s'impone più che mai la neces­sità della solidarietà fra l'individuo, la sua fami­glia e la società, attraverso umili atti creatori di umanità più profonda.

 

Il contesto socio-familiare

La famiglia si evolve...

Non è più «quella entità economica in cui si effettuava la produzione e che assicurava l'istru­zione, l'educazione, la previdenza sociale, la me­dicina e la composizione dei conflitti». Pertanto, in quel modello tradizionale, solo ad essa incom­beva la responsabilità del benessere dei genitori anziani. Un compito che di solito era assunto in un quadro di coabitazione diretta. Tuttavia, quel modello corrispondeva a un ambiente socio-eco­nomico particolare, poiché si trattava soprattutto dì una società rurale e agricola. Un modello che spesso è idealizzato ed evocato in maniera inge­nuamente nostalgica... Secondo parecchi autori, se esistevano le famiglie multigenerazionali, il loro numero doveva essere scarso per l'età media assai bassa e per l'età avanzata del matrimonio.

Ricordiamo che poco più di un secolo fa (fra il 1830 e il 1850), in Belgio l'età media della vita era di 37 anni per gli uomini e di 39 per le donne. Nel XVIII secolo, l'età in cui la maggioranza dei francesi perdeva il padre e la madre si concen­trava fra i 25 e i 35 anni, mentre oggi va dai 30 ai 60 anni. Così, su 100 bambini, soltanto 5 alla nascita avevano ancora vivi i loro quattro nonni. Oggi ce ne sono 41.

Inoltre, gli uomini si sposavano più tardi e in generale morivano prima che i loro figli più gio­vani raggiungessero l'età adulta, si sposassero e lasciassero il tetto paterno.

Nel XVIII secolo e in precedenza, le generazio­ni si succedevano, mentre ora si accavallano. Come diceva Ph. Ariès, «la storia della famiglia è ancora condizionata da idee false, che risalgo­no al modello costruito alla fine del XVIII secolo e all'inizio del XIX secolo dai filosofi illuministi e dai sociologi tradizionalisti... Ricorderò soltanto che la famiglia patriarcale non è mai esistita, almeno nelle nostre società». Tra queste idee false, c'è la nostra tendenza a idealizzare il pas­sato e a deplorare invece l'abbandono attuale dei vecchi da parte della famiglia.

La famiglia è cambiata. È diventata multigene­razionale, pur restando «nucleare», perché le varie generazioni non sono rimaste sotto lo stes­so tetto. Questa però non significa la fine della coesione familiare. Essa continua a svolgere un ruolo effettivamente essenziale nella vita quoti­diana, come sostiene la tesi dell'«intimità» a distanza. La famiglia fornisce assistenza («una risposta personale ai bisogni individuali dei suoi membri») e relazioni affettive intergenerazionali in cui si fondono indipendenza e solidarietà. Lo conferma il fatto che oltre la metà degli anziani che vivono soli o in coppia hanno un figlio che vive a meno di un'ora di distanza. Siamo lontani da certi miti sull'istituzionalizzazione degli anzia­ni. Secondo uno studio svolto da Jaumotte in Val­lonia e a Bruxelles:

- il 68% degli anziani vive nel proprio domi­cilio;

- il 27% degli anziani vive in famiglia;

- il 5% degli anziani vive in istituti.

Si verificano numerasi scambi fra genitori e figli, nei due sensi. Non di rado i genitori in pen­sione si rendono disponibili ai figli per sorveglia­re i nipoti, dare un aiuto nei lavori domestici, sbri­gare pratiche, senza contare l'aiuto materiale e finanziario alle giovani coppie di sposi...

Sembrano decisamente superati i titoli che comparivano sui giornali negli anni 1970: «La morte della famiglia», «Finita la famiglia?»... Si è invece tentati di dire: la storia della famiglia è recente ed è in sviluppo. La famiglia appare sempre più come un luogo privilegiato per lo sviluppo e la protezione degli individui. Tuttavia, solo molto di rado, gli studi sulla famiglia affron­tano il problema dell'invecchiamento e della mor­te dei genitori. Ora, il riferimento ai nostri ante­nati (soprattutto quelli che si sono conosciuti, ma anche quelli di cui si è sentito parlare) è di fondamentale importanza, perché contrassegna l'inserimento nella storia e la continuità della famiglia, e perché dà luogo a un tipo particolare di relazione. In modo speciale con la vecchiaia, perché, come ricorda Ormezzano, «la morte non si domina, la si razionalizza. Ci scontriamo con i nostri limiti nel rendere felice la vecchiaia di coloro ai quali siamo attaccati più visceralmente nell'amare e nell'odio: i nostri genitori. Ci è più facile accettare la vecchiaia negli estranei. Il no­stro desiderio di restituire loro tutto ciò che ci hanno dato in passato non è un dovere morale imposto dall'esterno né un conformismo, ma una esigenza interiore e profonda di reciprocità, di identificazione. Noi vorremmo che la fine della loro vita fosse tutta amore, per cancellare i con­flitti che non sono mancati nel corso degli anni e che condizionano ancora il presente».

 

La vecchiaia come malattia

Tuttavia, la famiglia può svolgere questo ruolo fondamentale solo se dispone dei mezzi per com­prendere e integrare le situazioni legate alla vec­chiaia. Lavorando con le famiglie, ci siamo resi conto come la vecchiaia, le sue caratteristiche, le sue difficoltà e le sue potenzialità sono ancora ben poco conosciute. II modello di spiegazione è quasi sempre la malattia: l'anziano è un adulto colpito da malattie, da polipatologie, come si dice oggi. Di conseguenza la medicina deve offrire i rimedi... e si crea una specie di spirale di medi­calizzazione. Ad essa si unisce comunemente una sensazione di frustrazione di fronte alla me­dicina, che può alleviare un certo numero di pro­blemi, ma non riesce ad impedire all'individuo di invecchiare, quindi di cambiare e di entrare in un'altra fase dell'esistenza. La vecchiaia è una età difficile da accettare: come avviene per gli adolescenti, che i genitori considerano ancora bambini, l'entourage degli anziani vorrebbe con­servare la loro immagine di adulti nel fiore dell'età, minimizzando le crisi della senescenza e gli adattamenti necessari.

Prima di parlare delle patologie dell'anziano, è quindi importante parlare della vecchiaia, infor­mare e creare in qualche modo un discorso col­lettivo sulla vecchiaia, che non riguardi solo la malattia, ma sia anche una riflessione sulle evo­luzioní e sugli elementi specifici della vita affettiva degli anziani, dei loro timori e delle loro spe­ranze, delle caratteristiche che sono loro proprie. Occorre anche ricordare che le sindromi psi­chiatriche più frequenti negli anziani sono i feno­meni ansiosi (oltre il 30% degli anziani soffrono di turbe ansiose) e depressivi (i disturbi depres­sivi si riscontrano in circa il 20% degli anziani). È innegabile che i fattori culturali contribuiscono notevolmente a produrre tali disturbi, anche se non ne sono le uniche cause: l'angoscia e il rifiu­to d'invecchiare sono onnipresenti. Se l'anziano è vissuto unicamente come un adulto malato ed handicappato, come evitare questi riflessi psico­logici? Un discorso esageratamente medico può rinforzare un insieme di preoccupazioni somati­che, che spesso prendono una piega ipocondria­ca. Allora c'è il pericolo di concentrasi solo sul corpo, che viene in primo piano considerato come oggetto medico.

Questo rischio esiste sia per l'anziano sia per l'entourage e per i curanti chiamati a intervenire. Certo, è proprio dell'essere umano cercare di respingere i limiti imposti dal corpo, di ritardare la malattia e la morte, ma proprio perché l'indi­viduo sente di non essere limitato al suo corpo. Oggi si è propensi a insistere esclusivamente su un aspetto unidimensionale, biologico, senza tener conto delle dimensioni immaginarie e sim­boliche della persona. Ora, è attraverso lo svi­luppo di queste dimensioni che si può superare l'invecchiamento del corpo, per ricuperarlo poi nella costruzione di nuovi significati.

L'individuo che invecchia corre effettivamente il grosso rischio d'identificarsi col suo corpo in maniera narcisistica, rifiutando la sua inevitabile alterazione, nel senso etimologico del termine. Si finisce così di sfociare in un sentimento de­pressivo d'abbandono o in un sentimento di per­secuzione da parte di quel corpo che invecchia, dì quel falso fratello, di quell'alter ego che arriva a tradirvi diventando fonte di preoccupazioni ipo­condriache.

 

Dinamica dell'invecchiamento

Ecco perché è importante passare attraverso fa distinzione fra la persona - emergenza mai compiuta di un'articolazione bio-psico-sociale - e le differenti istanze che contribuiscono alla sua costituzione, come il corpo, la sua immagine (che poggia sull'lo Ideale) e il ruolo sociale (sostenuto dall'Ideale dell'io). L'invecchiamento comporta una modifica, a volte drammatica, dell'immagine di sé e dell'ideale di sé, provocando una vera cri­si di identità. Ma questa crisi è appunto vissuta e percepita dolorosamente solo perché esiste un 4oggetto del tempo puro, del presente conti­nuo, fuori del tempo immaginario e cronologico delle nostre rappresentazioni. Tale divisione del soggetto permette di comprendere come il feno­meno universale dell'invecchiamento sia sentito in qualche modo come estrinseco al soggetto: non ci si vede come vecchi (e d'altronde neppure come giovani: ci si vede in un continuo presen­te, in qualche modo eterno) ed è l'immagine o il mito ad informarci del nostro invecchia-mento.

Si pensi a questa osservazione tanto frequente negli anziani che arrivano all'ospedale: «Qui ci sono solo dei vecchi», dimenticando che essi spesso hanno un'età molto superiore alla media; o a quella deliziosa vignetta di Faizant in cui si vede un'anziana signora dire al suo vecchio ma­rito: «Certo, tu mi ami ancora... ma quando sarò vecchia?».

Credo che tale fenomeno, legato alla divisione del soggetto, sia essenziale per affrontare il pro­blema della psicologia dell'invecchiamento. In­nanzi tutto, può chiarire tutta l'ambivalenza degli anziani in rapporto all'uso di parole che riguar­dano l'invecchiamento: vecchio, vecchia, anzia­no, terza età, ecc... C'è qualcosa di perfettamen­te sano nel rifiuto di essere identificati con il proprio corpo, con la propria immagine o con la propria posizione sociale. La persona non è solo quello: se l'identificazione diventa etichettatura, abbiamo a che fare con il meccanismo dell'insul­to. Nella nostra società, in cui predomina il punto di vista biologico e materialista, la parola «vec­chio» è percepita solo in senso negativo.

È una delle ragioni per cui bisogna essere mol­to prudenti prima di organizzare iniziative desti­nate esclusivamente agli anziani, perché in que­sto modo confermiamo una condizione che può essere paralizzante. Questo non vuol dire neppu­re, secondo una moda opposta, ma in fondo anche essa riduttrice nel suo rifiuto, che si debba ne­gare il problema dell'invecchiamento... parlare di «sempre giovani» e far credere che tutto è sempre possibile ad ogni età. Ci sono dei cicli di vita inevitabili, che provocano crisi personali, non sostanzialmente differenti dalle crisi precedenti.

Erik Erikson ha molto insistito sui diversi cicli della vita, a partire dalla prima infanzia, che mo­dificano le nostre identificazioni. In fondo, il pro­blema dell'invecchiamento si pone per noi fin dall'inizio: a cominciare dall'infanzia, dobbiamo affrontare il problema dell'alterazione, cioè, alla lettera, del diventare un altro, e questo non av­viene senza dolore e difficoltà. Non per nulla, la maggior parte delle ricerche che studiano l'adat­tamento all'invecchiamento e l'equilibrio psicolo­gico degli anziani insistono sul ruoto della perso­nalità antecedente («Si invecchia come si è vis­suto», diceva Ajuriaguerra). Le crisi della senescenza si distinguono soprattutto per la loro in­tensità, tanto che si potrebbero paragonare alle crisi dell'adolescenza. Ho precisato «le» crisi della senescenza, perché è chiaro che la vec­chiaia non è uno stato uniforme, ma un processo continuo su cui sì possono inserire diverse crisi: ambiente di vita, menopausa, partenza dei figli, pensionamento, malattia, vedovanza, dipendenza.

Perché si parla tanto di crisi della senescenza allo stesso modo in cui si parla dell'adolescenza e in cosa si somigliano? Due caratteristiche ren­dano queste crisi difficili e a volte dolorose:

1. L'immagine di sé, fondamento del nostro narcisismo primario, si modifica profondamente. Nelle persone che invecchiano, come negli ado­lescenti, il corpo si modifica e la percezione di sé ne è turbata. Ora noi sappiamo come la perdita dell'immagine di sé può essere all'origine della angoscia e della sensazione di vuoto. C'è tutto un lavoro di destrutturazione e poi di ristrutturazio­ne psichica; in sostanza si deve realizzare una elaborazione di «lutto», un lutto della propria immagine. L'invecchiamento implica un lavoro psichico: c'è una elaborazione dell'invecchia­mento, come c'è l'elaborazione del «lutto», e non sono né il lutto né l'invecchiamento ad essere patologici, bensì l'arresto dell'elaborazione a causa del rifiuto, della repressione, ecc.;

2. Non si modifica solo l'immagine di sé, ma viene meno il significato, l'ideale dell'io, veico­lato dal mito personale e collettivo... L'elaborazio­ne del lutto che ho ricordato può avvenire solo attraverso la simbolizzazione, la formazione di un nuovo linguaggio personale.

Ora, anche in questo caso, troviamo un punto comune con l'adolescenza: manca un discorso sociale sull'invecchiamento, o è molto limitato. Come per l'adolescente, c'è un vuoto simbolico, legato in parte al fatto che tale situazione, anche perché dura più d'una volta, è relativamente nuo­va per la nostra società, in parte anche ad una povertà simbolica, a un'elusione del problema del senso che provoca un ripiegamento narcisistico sul corpo. Non per niente la risposta offerta alle inquietudini e alle domande degli adolescenti e degli anziani, è molto spesso una risposta me­dica.

Nei contatti con gli anziani e con la loro fami­glia, è veramente sorprendente constatare che ogni comportamento, anche la reazione più natu­rale del soggetto a una situazione penosa, è in­terpretato nel senso della malattia e della mino­razione. È necessaria tutta una « pedagogia d'un diverso approccio » nei riguardi della vecchiaia.

 

Un approccio diverso al problema

Si deve relativizzare ogni visione che tende a oggettivare, che isoli l'anziano in un approccio riduttivo (sia esso medico, economico o psico­logico), per offrirgli un approccio diverso, di apertura, o meglio ancora un «ascolto» che per­metta al soggetto di esprimersi e di farsi cono­scere. La dinamica dell'invecchiamento ci porta a scoprire che l'anziano è sempre di più di ciò che vediamo, sentiamo e pensiamo di lui: «Il suo essere supera sempre l'immagine che possiamo averne. Salo il nostro immaginario può aspirare a toccare con mano la realtà dell'altro...». «Cono­scere l'altro significa aspettare che si manifesti come persona, che renda percettibile ciò che è realmente, e quando si è manifestato, aspettare ancora...».

Con Jean Tritschler, noi pensiamo che i «i vec­chi delle nostre società vivano due drammi che si sviluppano attorno a due concetti ambigui ma assai diffusi nella società: la nozione di utilità e quella di indipendenza». Noi sentiamo continua­mente lamentele di vecchi o osservazioni su di essi che riguardano la loro inutilità o la loro per­dita di indipendenza. Così si misura tutto il peso delle immagini e degli ideali sociali che riducono l'utilità allo scambio materiale e il processo di personalizzazione a una ricerca d'indipendenza. Chi può dire che l'altro o noi stessi siamo inutili, se non in una riduzione in cui il fare prende il sopravvento sull'essere, l'immagine sul divenire? Quanto al mito della nostra indipendenza, non dobbiamo ammettere di essere ben ciechi di fronte alla realtà della nostra interdipendenza, al punto di tentare una fuga in avanti?

Nei confronti delle persone anziane, sono sem­pre presenti le tentazioni di riduzione, di ogget­tivazione e di esclusione. Per evitare di ricono­scere la nostra fragilità, la nostra debolezza, sia­mo tentati incessantemente di ritrovare un senti­mento di dominio in un rifiuto più o meno masche­rato da buone intenzioni. Ad esempio, volendo far morire i vecchi dignitosamente prima che perdano la coscienza, dimenticando che la dignità sta nello sguardo, nella tenerezza e nella speran­za di chi li accompagna... Queste tentazioni sono universali, e ciò significa che gli anziani, i loro parenti e i loro curanti hanno bisogno della soli­darietà di tutti, della loro attenzione e del loro sostegno.

Non nego che i sanitari nei reparti di geriatria hanno a volte l'impressione di essere abbando­nati con i loro pazienti, vittime dello stesso rifiu­to o dell'indifferenza cortese di chi li vuole igno­rare in una gerontofobia generalizzata. Allora, che cosa pensare dell'angoscia di certe famiglie che affrontano e sopportano per lungo tempo le situazioni complesse legate agli scompensi psico­-organici degli stati demenziali? Quegli stati ri­guardano solo una piccola porzione di anziani (5% di ultrasessantacinquenni, ma già il 20% degli ultraottantenni), ma suscitano un tale coin­volgimento della nostra fragilità e limitatezza davanti a quella notte apparente della ragione e dello sviluppo di personalizzazione che non pas­siamo dimenticarli.

 

Il sostegno alle famiglie

Sono le famiglie a vivere giorno dopo giorno la maggior parte delle difficoltà incontrate dagli anziani. Ricordiamo le statistiche del Belgio: solo il 5% degli anziani vivono in istituti e del restan­te 95% malti sono inseriti nella rete familiare di reciproco aiuto; il 27,5% di questi ultimi vivono anche con un figlio. Perciò i componenti della famiglia sono certamente i primi ad offrire un aiuto. Spesso si chiede loro molto e a volte trop­po, al punto che l'entourage familiare diventa i1 «paziente occulto» della situazione. Le diverse crisi legate all'avanzamento dell'età, i gravi pro­blemi di salute, gli adattamenti familiari, le divi­sioni dei ruoli: tutto questo turba l'equilibrio fa­miliare. La coesione di quel sistema particolare che è la famiglia può essere gravemente scon­volta. Il sistema familiare può produrre soluzioni, aggiustamenti o compromessi, che a loro volta diventano fonti di problemi o di conflitti in una spirale di crisi.

Non insisteremo mai abbastanza sulla doman­da di aiuto e collaborazione reciproca, che deve esserci nel contatto con le famiglie. Esse sono dei pionieri in situazioni a volte molto difficili. Se tutti parlano oggi, a giusto titolo, di cure do­miciliari, bisogna anche capire cosa si chiede a certe famiglie. Una recente tesi di laurea in scien­ze medico-sociali, discussa all'Università Catto­lica di Lovanio, sul vissuto della coabitazione ge­nitore anziana-figlio adulto, ci informa o ci con­ferma in maniera convincente sul carico fisico e soprattutto psicologico che sì assumono quei «fi­gli» (a volte di 50 anni o più), spesso ai limiti dell'esaurimento fisico e morale. Le famiglie af­fermano di essere spesso sconvolte dai proble­mi psico-geriatrici, ignare dei vari aiuti possibili e isolate nelle loro difficoltà. Questo può ingene­rare diverse turbe nella sfera familiare, oltre a indurre a un ricovero in ospedale o in istituto in una atmosfera d'urgenza e sensi di colpa. L'aiuto a coloro che aiutano comprende numerosi aspetti, fra cui i colloqui con la famiglia sano solo un anello della catena, che deve essere preceduto dal lavoro di prevenzione e accompagnato da nu­merose forme di aiuto psico-sociale meno appa­riscenti rispetto alla creazione di nuove strutture (ospizi, case di riposo...), ma molto più vicine alle famiglie e al loro desiderio di tenere a casa loro gli anziani.

 

Conclusioni

Mi sembra quindi che sarebbe veramente rivo­luzionario affrontare sul serio il fenomeno dell'invecchiamento e della nostra inevitabile «alte­razione». In effetti, proporre una politica per i vecchi o per la terza età (se si vuol essere più garbati) è certamente utile, ma terribilmente am­biguo se gli anziani vengono separati dagli altri cittadini. Mentre è insufficiente rispetto all'obiet­tivo. Una vera politica dell'invecchiamento do­vrebbe ricadere come un boomerang sulla socie­tà, ponendole gli interrogativi della solitudine, della limitatezza e dell'incertezza, che essa è tentata di scaricare sopra una minoranza. L'ac­cettazione degli anziani nella nostra vita familiare o sociale resta problematica: basti pensare all'aumento drammatico dei suicidi con l'avanzare degli anni. In generale non si tratta di patologie psichiatriche, come nella psicosi depressiva, ma piuttosto di atti di natura reattiva. L'isolamento è il fattore principale di rischio e, a questo pro­posito, si è parlato di una « morte sistematica » che precede la morte reale. Anche altri fattori, come l'insicurezza materiale, l'inattività, la ma­lattia e le infermità sensoriali sono fattori di ri­schio. Come non temere che l'investimento affet­tivo attuale della società nel mito del corpo per­fetto e della vita efficiente, nel suo ideale di dominio e nella sua perentoria negazione di altre dimensioni personali, non prepari una grande angoscia rispetto alla vecchiaia, molto più che nei confronti della morte? Non si tratta di accu­sare sistematicamente la società, ma è un fatto che quegli atti compiuti dagli anziani, al di fuori di precise turbe psicopatologiche, sono una sfida e un appello alla nostra solidarietà e alla nostra immaginazione.

Se le risposte sono difficili e incerte, porsi questi interrogativi è un passo preliminare al ri­fiuto dell'oggettivazione e una condizione per la instaurazione di un vero rapporto personalizzato. Manifestando ciò che è nel fondo del cuore di tutti, incominciamo a prendere gli anziani sul se­rio, perché hanno vissuto e vivono, in maniera a volte drammatica. «Si parla di anziani, non si parla con loro». Non ascoltarli non significa solo respingere le persane magari a favore di finalità o idee, anche molto nobili, ma anche mutilare noi stessi, perché anche noi siamo parte di quel rap­porto fra vita e morte, desiderio e limitatezza. È se pare che la persona non possa più esprimersi, ricordiamoci che il suo corpo rimane il simbolo della sua storia, «il memoriale di una vita, di una presenza che si è espressa, di un mistero che ha irradiato luce attorno a sé, senza mai esaurirsi del tutto».

Quando curiamo, tocchiamo o abbracciamo un corpo anche colpito dalla malattia, o in apparen­za disfatto, noi testimoniamo a noi stessi e agli altri che i corpi sono qualcosa di più che oltre­passa i corpi stessi. Ci ricordiamo anche che la elaborazione riguardante la personalizzazione passa attraverso la prova del tempo e del lutto nei confronti dei nostri investimenti narcisistici. La maniera con cui rispondiamo all'invecchiamen­to degli altri condiziona l'immagine che attribuia­mo a noi stessi nella ricerca della nostra uma­nità.

 

 

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