Prospettive assistenziali, n. 86, aprile-giugno 1989

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE CONFERMA LA COMPETENZA DEI COMUNI PER I RAGAZZI SOGGETTI A PROVVEDIMENTI DELLE AUTORITA’ GIUDIZIARIE MINORILI

FRANCO OCCHIOGROSSO (1)

 

 

1. II lungo lasso di tempo (quasi sette anni) intercorso tra l'ordinanza 19 novembre 1980 della Sezione minorile della Corte d'appello di Bologna - seguita a distanza di oltre quattro anni da quella di identico contenuto del Tribunale di Salerno - e la decisione della Corte costituzio­nale che esaminiamo (n. 287 del 22 maggio 1987) (2) ha fatto perdere alla questione proposta molto dell'interesse iniziale. Ciò soprattutto perché il nucleo sostanziale del problema, quello relativo alla costituzionalità del nuovo concetto di benefi­cenza pubblica introdotto dall'art. 22 del D.P.R. 616/1977 è stato già anni fa risolto con una im­portante decisione (n. 174 del 1981) più volte citata dalla sentenza commentata con l'effetto che quest'ultima finisce per offrire in buona par­te la sensazione di un déjà vu. Non a caso la Corte trova il modo, nella motivazione, di rilevare che se «la Sezione minorile della Corte d'appello di Bologna, avendo sollevato siffatta questione nel novembre 1980, aveva qualche giustificazione al suo assunto»... molto meno giustificata, inve­ce «era l'ordinanza salernitana intervenuta nel luglio 1985».

Pur in questi limiti, l'esame della sentenza non è privo di interesse sotto vari profili: perché offre l'occasione per analizzare l'evoluzione culturale della materia negli ultimi anni e per inquadrare in questa prospettiva la decisione stessa, perché affronta specificamente il problema della rivisita­zione dei concetti di disagio e della devianza mi­norile, perché induce a qualche osservazione conclusiva sia sulla irreversibilità dei principi affermati dal D.P.R. 616/1977 in materia minorile, sia sull'ultimo tassello di questa grande ridefini­zione culturale degli interventi penali e parapena­li a favore dei minorenni, che è costituito dal nuovo codice di procedura pena,le minorile che entrerà in vigore il 24 ottobre 1989.

2. Com'è noto; in Italia la tutela dei bisogni sociali è stata oggetto nell'ultimo secolo di pro­fonde trasformazioni, nell'ambito delle quali si distinguono due stadi ben definiti, mentre un ter­zo se ne va delineando:

a) il primo stadio è quello della beneficenza. La risposta ai bisogni dei deboli è intesa come benevola concessione dello Stato effettuata an­che per ragioni di ordine pubblico. Questo stadio trova il suo punto di riferimento nella legge 17 luglio 1890 n. 6972 sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e copre il periodo che giunge fino alla fine degli anni sessanta;

b) il secondo stadio è quello della sicurezza sociale. Il bisogno sociale è considerato frutto delle contraddizioni sociali dell'ambito territoria­le, in cui si manifesta e che deve provvedere non solo a coglierle, ma anche a fornire risposte adeguate sia a livello individuale che collettivo. Questo stadio trova il suo punto di riferimento nel D.P.R. 616/1977 ed abbraccia il periodo della fine degli anni sessanta (quando già in alcune re­gioni si erano costituiti consorzi socio-sanitari che avevano anticipato il citato D.P.R. fino a oggi);

c) un terzo stadio si va delineando negli ultimi tempi ed è quello dei «nuovi diritti», di cui il documento più significativo è il progetto di legge del 2 luglio 1987 per la tutela dei diritti del mala­to e che peraltro è del tutto eventuale nella sua realizzazione. Esso potrà segnare il passaggio del sistema di protezione dei bisogni sociali co­me diritti soggettivi pieni ed azionabili nei con­fronti dei responsabili delle istituzioni tenute a svolgere i necessari interventi.

3. La valenza fortemente innovativa dei principi affermati dagli artt. 22, 23 e 25 del D.P.R. 616/1977  e la loro rilevanza nel segnare il passaggio dallo stadio della beneficenza a quello della sicurezza sociale, sancendo il capovolgimento delle regole che avevano disciplinato il periodo precedente, è tanto nota da non meritare se non i riferimenti strettamente indispensabili.

Ma, ai fini del nostro discorso, è particolarmen­te importante tener conto del fatto che la Costi­tuzione - entrata in vigore nel 1948 - sembra contenere tracce non modeste del sistema assi­stenziale vigente all'epoca (quello della «bene­ficenza»); sicché si pose subito il problema se il mutamento di quel sistema e delle regole che lo reggevano non comportassero l'illegittimità costituzionale delle norme innovatrici.

È opportuno esaminare quindi dettagliatamente il problema, partendo dai principi-base del prece­dente sistema assistenziale, verificando le R trac­ce p, che di essi la Costituzione - almeno nella forma letterale - sembra contenere, accertando in quale modo il legislatore del D.P.R. 616/1977  ha introdotto i principi innovativi in materia e come la Corte costituzionale ha risolto i dubbi insorti sulla legittimità delle norme del D.P.R. stesso.

a) Il sistema della beneficenza, che si fondava sull'accertamento dello stato di bisogno del de­stinatario della prestazione, aveva operato (come posto in particolare evidenza dalla Corte costitu­zionale nella sentenza n. 139 del 24 luglio 1972) la distinzione divenuta poi tradizionale tra «bene­ficenza pubblica» e «assistenza sociale»: la pri­ma era caratterizzata dalla discrezionalità della prestazione sulla base dell'accertamento del bi­sogno, mentre la seconda si distingueva per la grande riduzione degli spazi di discrezionalità dell'ente erogatore, in quanto la prestazione era ancorata alla tipizzazione legislativa degli assi­stibili (e quindi dello stato di bisogno) e sostitui­va o integrava un reddito di lavoro mancante o insufficiente.

Di questa distinzione vi è riferimento nella Costituzione, la quale parla all'art. 38 dell'assi­stenza sociale e all'art. 117 della beneficenza pubblica e prevede solo della seconda, non della prima, il trasferimento agli enti locali.

b) In questa materia (sia nella sua dimensione d'i assistenza sociale che di beneficenza pubbli­ca) non rientravano in ogni caso gli interventi relativi ai minori socialmente disadattati. La de­vianza minorile era intesa, infatti, come manife­stazione dell'irregolarità della condotta o del ca­rattere del singolo soggetto deviante e, pertanto, andava trattata con misure parapenali (ammini­strativo-rieducative) disposte dal tribunale mino­rile e gestite direttamente dal Ministero di giu­stizia.

Anche di ciò sembra esservi cenno nella Co­stituzione, la quale sancisce all'art. 110 che spet­tano al Ministro della giustizia l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giu­stizia.

c) Infine, frutto della cultura della beneficenza era il principio che l'erogazione delle prestazioni qualitativamente e quantitativamente significati­ve spettasse allo Stato, mentre potevano essere attribuite agli Enti locali quelle marginali e di rilevanza secondaria. Anche di questo principio sembra esservi eco nella Costituzione, la quale all'art. 118 prevede l'attribuibilità ai Comuni e alle Province solo di funzioni amministrative che abbiano «interesse esclusivamente locale».

4. Con gli artt. 22, 23 e 25 il D.P.R. 616/1977 capovolse questi tre principi:

a) i problemi del disagio personale, della de­vianza ed altri simili sono ora considerate l'effet­to di situazioni ambientali distorte che li genera­no: per intervenire correttamente non è neces­sario che si crei una situazione di bisogno, ma ben si può efficacemente e meglio operare preventi­vamente sui fattori di rischio. Ciò comporta una adeguata conoscenza del «territorio» ed una pro­grammazione che utilizzi tutte le risorse possibili. Viene meno, quindi, la necessità di accertare lo stato di bisogno, così come la distinzione tra assistenza sociale e beneficenza pubblica; men­tre acquista rilievo la necessità di decentrare al massimo le risorse;

b) anche la devianza minorile (oltre al disagio minorile) è effetto di condizioni ambientali emar­ginanti, che vanno rimosse sì da consentire il superamento di difficoltà di socializzazione già emerse nei giovani o di prevenirne altre. Questi interventi non possono essere più intesi come parapenali e di prevenzione criminale, ma hanno carattere sociale e vanno decentrati agli Enti lo­cali per un'adeguata programmazione, insieme a tutta la materia dei servizi nella quale rientrano;

c) protagonista di tali programmazioni e di tali interventi non può essere lo Stato, lontano e non facilmente in grado di cogliere i bisogni emer­genti nelle diverse realtà locali, bensì l'Ente lo­cale più vicino al cittadino, cioè il Comune sin­golo o associato.

Ma oltre a modificare i principi cardine del pre­cedente sistema assistenziale, il legislatore del D.P.R. 616/1977 dovette preoccuparsi di concilia­re l'esposizione dei nuovi principi con il dettato costituzionale. Da un lato dovette, quindi, fare ricorso a termini ormai superati proprio perché la Costituzione ne faceva uso; dall'altro dovette anche dare alle espressioni usate dalla Costitu­zione contenuti nuovi, in linea con il nuovo siste­ma di politica sociale che intendeva introdurre. Ciò si spiega perché mentre il titolo III del D.P.R. 616/1977 parla di «servizi sociali», usando una espressione in linea con il linguaggio e la cultura del tempo; il capo III dello stesso titolo parla di «beneficenza pubblica» e utilizza un'espressione culturalmente superata per il legislatore del 1977, ma il cui uso era inevitabile per essere tale for­mula quella utilizzata dall'art. 117 della Costitu­zione per indicare la materia della sicurezza so­ciale trasferibile dallo Stato agli Enti locali.

In questo discorso vanno inquadrati gli artt. 22, 23 e 25 sopra citati. La rubrica (beneficenza pub­blica) e il contenuto del primo si spiegano con la necessità di chiarire che la tradizionale preceden­te distinzione assistenza sociale-beneficenza pub­blica era ormai superata e che praticamente tutte le funzioni amministrative inerenti ai servizi so­ciali (can esclusione delle sole prestazioni eco­nomiche di natura previdenziale) venivano tra­sferite agli Enti locali ed a tale scopo venivano tutte inserite nel concetto di «beneficenza pub­blica», che era grandemente ampliato rispetto a quello precedente.

La formulazione dell'art. 23 ha lo scopo di spe­cificare che il trasferimento riguardava alcune funzioni (tra cui la gestione del disagio e della devianza minorile) per il cui trasferimento agli Enti locali poteva suscitare dubbi e perplessità.

Quella dell'art. 25 si spiega con la necessità di individuare senza incertezze nel Comune l'Ente locale destinatario del trasferimento delle fun­zioni e stabilire le condizioni e modalità di tale trasferimento.

5. Queste norme erano funzionali al progetto politico, di cui il D.P.R. 616/1977 era portatore: quello - come si è detto - di consentire pro­grammazioni di interventi anche per gruppi di soggetti, prescindendo da un titolo che legitti­masse la prestazione e da uno specifico stato di bisogno; quello di favorire il reinserimento so­ciale degli esclusi e di prevenire esclusioni, com­presa quelle dei giovani devianti; quello di ren­dere il Comune protagonista di questo disegno.

Ma sorsero subito alcuni dubbi. Il primo riguar­dò l'art. 22 e fu il seguente: questa norma, ampli­ando enormemente il concetto di «beneficenza pubblica» non finiva in realtà per violare la Co­stituzione, trasferendo agli Enti locali compiti, che secondo la Costituzione avrebbero dovuto rimanere allo Stato, perché rientranti nel concet­to di assistenza sociale di cui all'art. 38 e non in quello di beneficenza di cui all'art. 117?

Prima che dalle ordinanze di rinvio della Corte d'Appello di Bologna e del Tribunale di Salerno, questo dubbio era stato sollevato dalle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione con una ordinanza pronunziata il 3 luglio 1980.

Altri dubbi riguardano gli artt. 23 e 25 e furono posti in modo specifico dalle due ordinanze che hanno dato luogo alla decisione commentata: l'esecuzione di provvedimenti giudiziari riguar­danti i minori non rientrava nei compiti spettanti al Ministero di giustizia a norma dell'art. 110 del­la Costituzione? II trasferimento ai Comuni non costituiva, quindi, una violazione a tale norma? E se ai Comuni - per l'art. 118 della Costituzio­ne - possono essere trasferite materie di inte­resse esclusivamente locale, non costituisce vio­lazione di tale principio costituzionale il trasfe­rimento a tali enti delle funzioni di recupero e di «prevenzione criminale» per i minori, che invece involgono un fondamentale interesse generale dello Stato?

6. Al quesito dell'art. 22 sia per la sua impor­tanza che per l'autorevolezza del proponente (la Cassazione a Sezioni riunite), la Corte costitu­zionale rispose con particolare celerità: trascor­sero, infatti, solo sei mesi tra la pubblicazione dell'ordinanza della Cassazione sulla Gazzetta ufficiale del 28 gennaio 1981 e la decisione n. 174 pronunziata il 30 luglio 1981.

La Corte costituzionale dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale e precisò che adottare un disegno organico di riforma dei servizi sociali non può ritenersi in contrasto con la Costituzione né provoca incostituzionali alte­razioni nel riparto di competenze tra Stato e Regioni.

E anche l'attribuzione delle funzioni di assisten­za sociale previsti dall'art. 38 della Costituzione alle Regioni è costituzionalmente legittima, per­ché lo Stato non è escluso dalla gestione della materia, ma sceglie (cosa che ben può fare con legge ordinaria) solamente un intervento diverso: preferisce alla gestione diretta, l'intervento indi­retto costituito dalla promulgazione (futura) di una legge di riforma dell'assistenza e dalla inte­grazione finanziaria degli organi ed istituti regio­nali, che devono provvedere ai compiti previsti dall'art. 38 della Costituzione.

Risolta con celerità la questione principale perdettero di importanza le altre relative agli artt. 23 e 25. Così si spiega che, malgrado l'ordinanza della Corte di appello di Bologna segua solo di pochi mesi quella della Cassazione, la decisione sia giunta con un ritardo di molti anni.

La nostra sentenza (n. 287 del 1987) si limita - come già si è detto - a richiamare quella n. 174 del 1981 sulla questione principale relativa all'art. 22.

Interviene, invece, specificamente sulle altre due questioni (relative agli artt. 23 e 25) e lo fa in termini perentori. In relazione all'art. 23, sotto­linea la cultura «pancriminalista» da cui muovo­no le ordinanze di rinvio per contestarla ed ope­rare una distinzione tra gli interventi della giu­stizia minorile appartenenti all'area amministra­tivo-penale (misure di sicurezza), le quali solo si possono collocare nell'area della «difesa socia­le» e della «prevenzione criminale», le cui atti­vità sono riservate allo Stato e gli interventi am­ministrativo-civili (previsti dagli artt. 25 e segg. della legge minorile), i quali ci interessano nella specie ed hanno carattere di tutela del minore, di aiuto per il superamento delle difficoltà di so­cializzazione e che meglio viene realizzata con il decentramento territoriale dei servizi.

In relazione all'altra questione, riguardante l'art. 25 del D.P.R. 616/1977, la sentenza respinge decisamente i dubbi di legittimità costituzionale, rilevando anche in questo caso che le ordinanze di rinvio esprimono «una superata concezione che ravvisa negli Enti locali e negli interessi di cui sono portatori situazioni secondarie e mar­ginali».

In sostanza, la Corte afferma decisamente che il ruolo attribuito dalla Costituzione agli Enti lo­cali e ai Comuni, in particolare, non può desumersi solo dal riferimento alle materie di «inte­resse esclusivamente locale» contenuto nell'art. 118, ma va tratto dall'esame complessivo dello spazio e dei rilievo che la Costituzione attribuisce alle autonomie locali. Un tale esame consente di pervenire alla conclusione che la Costituzione «valorizzando decentramento ed autonomie lo­cali ha inteso sottolineare l'opportunità che la cura di determinati interessi sia decentrata pro­prio per assicurare una più completa e penetran­te realizzazione».

Né alcun rilievo ha a questo riguardo l'art. 110 della Costituzione, perché questa disposizione si è preoccupata solo di assicurare la piena indipen­denza della Magistratura e distinguere le compe­tenze spettanti al Consiglio Superiore della Ma­gistratura da quelle spettanti al Ministro di giusti­zia, senza porsi il problema se e quali competen­ze fossero specifiche e quali, invece, trasferibili ad altri enti.

7. In conclusione, con questa sentenza sono definitivamente superati i residui dubbi sul D.P.R. 616/1977, dubbi che appartengono ormai al pa­trimonio storico della cultura dei servizi.

Una cultura ormai irreversibile, come confer­mano le disposizioni relative al processo penale minorile pubblicate sul supplemento n. 1 alla G.U. n. 250 del 24-10-1988 e che entreranno in vigore il 24 ottobre 1989.

Tali disposizioni sanciscono il divieto di appli­care (sia in flagranza di reato che per disposizio­ne del giudice: artt. 16 e 23) la misura della cu­stodia cautelare ai minori se non per reati per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore al massimo a dodici anni. Identico limite è imposto per la misura del riformatorio giudiziario (art. 36).

Ora, quando si consideri che, allo stato attuale il 98% dei circa quattrocento minori attualmente custoditi nelle carceri minorili italiane sono dete­nuti in via cautelare (o preventiva) - come ha riferito alla Camera dei deputati il direttore dell'Ufficio minorile del Ministero di giustizia - non v'è dubbio che le citate disposizioni equivalgono ad una sostanziale decarcerizzazione degli inter­venti penali relativi ai minori.

Si accentua decisamente, in sostanza, la ten­denza - già espressa del D.P.R. 616/1977 - di­retta a rafforzare l'intervento protettivo per i mi­nori devianti rispetto a quello di difesa sociale con il superamento di un'ultima forma di esclusio­ne totale (quella della carcerazione). Divengono praticamente realtà - almeno per i minori - le aspirazioni di movimenti quali «Liberarsi dalla necessità del carcere», che fino a pochi anni fa sembravano del tutto utopiche.

8. Non c'è dubbio, pertanto, che i principi, di cui il D.P.R. 616/1977 è stato portatore undici anni fa, si sono consolidati culturalmente al pun­to da non correre più alcun rischio di essere mes­si in discussione, specialmente dopo la promul­gazione del codice di procedura penale minorile.

Il rischio è tuttora un altro. Il rischio deriva anche qui - come è accaduto per la legge 180/ 1978 - dal rilievo che i principi del D.P.R. 616/1977 in una larga parte d'Italia ed in particolare nell'Italia meridionale non sono stati attuati, per cui tuttora dominante in tali zone è rimasta la tradizionale e non ancora superata cultura della beneficenza. In queste condizioni l'entrata in vi­gore del nuovo codice di procedura penale rischia di determinare una ennesima situazione di abban­dono al territorio di minori, giustamente non più sottoposti a misure penali ma sempre privi di effettivi interventi di tutela.

Occorre a questo punto che lo Stato si faccia carico delle inadempienze di molte Regioni e di altri Enti locali nell'attuazione del D.P.R. 616/1977, intervenendo con opportune stimolazioni per evi­tare che i gravi ritardi già riscontrati anche su questi problemi nelle aree depresse divengano incolmabili.

 

 

TESTO DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 287/1987

 

La Corte costituzionale composta dal Presiden­te, prof. Virgilio Andrioli e dai Giudici prof. Giu­seppe Ferrari, dott. Francesco Saja, prof. Giovan­ni Conso, prof. Ettore Gallo, dott. Aldo Corasa­niti, prof. Giuseppe Borzellino, dott. Francesco Greco, prof. Renato Dell'Andro, prof. Gabriele Pescatore, avv. Ugo Spagnoli, prof. Antonio Bal­dassarre, prof. Vincenzo Caianello, ha pronuncia­to la seguente sentenza nei giudizi riuniti di le­gittimità costituzionale dell'art. 1, lett. e) della legge 22 luglio 1975, n. 382 (Norme sull'ordina­mento regionale e sulla organizzazione della pub­blica amministrazione) e degli artt. 22, 23 e 25 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975 n. 382), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 19 novembre 1980 dal­la Corte d'Appello di Bologna - Sez. minorenni, sul ricorso proposto dal Procuratore della Repub­blica presso il Tribunale dei minorenni di Bolo­gna, iscritta al n. 83; del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repub­blica n. 117 dell'anno 1981;

2) ordinanza emessa il 29 luglio 1985 dal Tri­bunale di Salerno nel procedimento civile verten­te tra Istituto «Villa dei Pini» di Lettere e Comune di Pagani, iscritta al n. 19 del registro ordinan­ze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, 111 serie speciale, dell'anno 1986;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 5 maggio 1987 il Giudice relatore Ettore Gallo;

Udito l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - La Corte d'Appello di Bologna - sezione minorenni, accogliendo le sollecitazioni contenu­te nel reclamo proposto dal Procuratore della Re­pubblica avverso decreto del Tribunale minorile dell'Emilia Romagna, con ord. 19 novembre 1980 sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, lettera e), della legge 22 luglio 1987 n. 382 e 22, 23 e 25 del D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 con riferimento agli artt. 117, 76, 118 e 110 Cost.

Il decreto impugnata aveva disposta il colloca­mento del minore Tuppi Domenico in casa di rie­ducazione, affidandone l'esecuzione al consorzio per i servizi sociali e sanitari di Bologna-Bolo­gnina.

Secondo il giudice a quo le funzioni ammini­strative relative «agli interventi in favore dei mi­norenni, soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell'ambito della competenza amministrativa e civile», non sarebbero inqua­drabili nelle attività di beneficenza o di assisten­za sanitaria ed ospedaliera, rientrando piuttosto nel concetto di pubblica assistenza. Le norme im­pugnate, pertanto, nella parte in cui prevedono l'attribuzione a Comuni e Province delle funzioni suddette, sarebbero in contrasto con l'art. 117 Cost. perché si riferiscono a materia estranea alla tassativa elencazione della norma costitu­zionale.

D'altra parte, la stessa legge di delegazione (art. 1, lettera e) della legge 22 luglio 1975, n. 382) faceva esclusivo riferimento all'art. 117 Cost., sicché le norme delegate, attribuendo ai Comuni funzioni in materie estranee a quelle elencate nella norma costituzionale, avrebbero esorbitato dai limiti della delega.

Per di più l'art. 118 Cost. consente l'attribuzione ad altri enti locali di funzioni amministrative - sempre nell'ambito delle materie ex art. 117 - ma purché di interesse esclusivamente locale: al contrario, gli interventi in favore dei minorenni, soggetti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria, non sarebbero di interesse esclusivamente loca­le in quanto involgerebbero un fondamentale in­teresse dei cittadini e, quindi, dello Stato.

Infine l'esecuzione dei provvedimenti dell'au­torità giudiziaria nel campo minorile sarebbe compresa - secondo l'ordinanza - nell'ambito dei servizi relativi alla giustizia attribuiti al Mi­nistro dall'art. 110 Cost.

2. - Analoga questione veniva avanzata dal Tribunale di Salerno, con ordinanza 29 luglio 1985, nel procedimento civile pendente tra l'istituto «Villa dei Pini» di Lettere ed il Comune di Paga­ni, con riferimento agli stessi parametri.

3. - Entrambe le ordinanze sono state rego­larmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale. Nei giudizi innanzi alla Corte Costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato.

Nel chiedere che la questione sollevata dalla Corte d'Appello sia dichiarata inammissibile, per­ché irrilevante, l'Avvocatura osserva che la for­mulazione letterale dell'art. 23, lettera c) del D.P.R. 616/1977, la natura stessa dell'attività di esecuzione dei provvedimenti dell'autorità giudi­ziaria minorile, la distinzione chiaramente operata dall'ordinamento vigente tra l'attività di rieduca­zione dei minori e quella di assistenza, portano ad escludere che le norme impugnate dal giudice a quo abbiano trasferito dal p.m. a Regioni e Co­muni la competenza a dare esecuzione ai provve­dimenti adottati dall'autorità giudiziaria minorile ai sensi degli artt. 25 e 32 del r.d.l. n. 1404 del 1934.

Aggiunge nei merito che la formulazione dell'art. 22 del D.P.R. 616/1977, frutto di una trava­gliata elaborazione dottrinaria e giurisprudenzia­le, ha ricompreso nella materia della «beneficenza pubblica» la disciplina, la predisposizione e l'ero­gazione di tutti i servizi sociali riconducibili al concetto di «sicurezza sociale» di cui all'art. 38 Cost., escluse solamente le prestazioni di natura previdenziale.

Il successivo art. 23 ha poi specificato che nell'ambito delle funzioni amministrative di cui all'art. 22 sono ricomprese anche le attività di as­sistenza economica alle famiglie bisognose dei detenuti e delle vittime del delitto, e di assisten­za post-penitenziaria, gli interventi in favore dei minori soggetti a provvedimento del giudice tu­telare, e gli interventi di protezione sociale di cui alla legge n. 75/1958.

D'altra parte, la piena legittimità costituziona­le di una tale ampia accezione della categoria «beneficenza pubblica», così come accolta nel­l'art. 22 del D.P.R. 616/1977, sarebbe stata con­fermata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 174 del 17 luglio 1981, in cui è stata ritenuta superata la storica distinzione tra «beneficenza pubblica» (di competenza regionale, ex art. 117 Cost.) e «assistenza sociale» (di competenza sta­tale) di cui all'art. 38 della Cost.

Questa Corte, infatti, avrebbe posto in evidenza come l'art. 22 del D.P.R. 616/1977 «prevedendo una ampliatio dei destinatari, che prescinde in taluni così dallo stato di bisogno; una diversifi­cazione delle prestazioni, congiunta all'estendersi del carattere di non discrezionalità della loro ero­gazione; la tendenza a superare la tipizzazione degli interventi a seconda delle categorie indivi­duate dall'attività lavorativa degli assistibili...» abbia comportato il superamento de,i presupposti e delle contrapposizioni disegnati nella sentenza n. 139/72.

Alla luce delle suesposte considerazioni, l'as­sunto del Tribunale di Salerno, secondo cui gli interventi in favore dei minorenni soggetti a prov­vedimenti dell'autorità giudiziaria rientrerebbero nel concetto di «pubblica assistenza» e non di «beneficenza» e pertanto riguarderebbero una materia estranea alla tassativa elencazione di cui all'art. 117 Cost., non sarebbe fondato.

Analogamente infondata sarebbe l'eccezione dì incostituzionalità degli artt. 22 e 23 del D.P.R. 616/1977, in relazione all'art. 76 della Costituzione, sollevata dalla Corte bolognese, alla stregua del­le stesse osservazioni.

La materia «sicurezza sociale», per l'obbiettivo cui è diretta e per la connessione ed inscindibili­tà delle sue componenti, che si ricollegano agli artt. 117 e 38 della Cost. - ad eccezione delle prestazioni previdenziali di natura economica - sarebbe ormai interamente passata alle Regioni. E ciò in attuazione di quel criterio direttivo, dato al Governo dall'art. 1, terzo comma, legge 382/75, secondo cui l'identificazione delle materie da tra­sferire alle Regioni doveva avvenire per settori organici, in base a criteri oggettivi desumibili dal pieno significato che esse hanno e dalla più stret­ta connessione esistente tra le funzioni affini, strumentali e complementari.

D'altra parte, la norma dell'art. 25 del D.P.R. 616/1977, inquadra nell'ambito di disposizioni concernenti il trasferimento ai Comuni di funzioni varie, porrebbe in luce l'intento del legislatore delegato di concentrare in un unico ente-tipo la erogazione dei servizi, onde evitare settorialismi ed al fine di ricomporre «servizi sociali su basi territoriali».

Peraltro, le funzioni attribuite ai Comuni riguar­dano non già, genericamente, i servizi de quibus ma soltanto «l'organizzazione» e «l'erogazione» degli stessi, cioè una dimensione squisitamente locale del servizio, considerato nel suo momento operativo.

Infine - secondo l'Avvocatura - l'art. 110 del­la Costituzione non avrebbe creato una riserva a favore del Ministro di Grazia e Giustizia in ordine all'organizzazione di qualunque servizio comun­que collegato alla Giustizia, ma sarebbe finaliz­zato soltanto a ripartire le competenze fra Con­siglio Superiore della Magistratura e Ministro.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due ordinanze sollevano identica que­stione nei confronti delle stesse norme e con riferimento ai medesimi parametri costituzionali. Gli incidenti possono essere, perciò, riuniti e risolti con unica sentenza.

2. - II primo argomento della doglianza fa le­va sui concetti di «beneficenza» e di «assistenza sanitaria ed ospitaliera», di cui all'art. 117 Cost., per sollevare il dubbio che in essi non siano in­quadrabili «gli interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell'ambito della competenza ammini­strativa e civile». Un tale dubbio viene fondato su di una nozione di «beneficenza» che trae ori­gine dalla vecchia legge organica 17 luglio 1890 n. 6972 e, in parte, anche dalla sentenza di questa Corte n. 139 del 1972. Questa effettivamente rie­cheggia il motivo tradizionale di «beneficenza» come erogazione di servizi e di prestazioni eco­nomiche concessi nell'esercizio di un potere di­screzionale, mentre fa rientrare nel concetto di «pubblica assistenza» quelle stesse attività svol­te nell'ambito di norme che le prescrivono e le regolano come dovute.

Fra l'altro osservano le ordinanze che l'art. 117 Cost, non parla di «pubblica assistenza» ma di «assistenza sanitaria ed ospitaliera», sicché sotto ogni riguardo i predetti provvedimenti minorili non potrebbero trovare allocazione nel contesto del citato articolo della Costituzione. Poiché, in­vece, il decreto impugnato, alla lett. c) dell'art. 23 ricomprende i provvedimenti in parola fra le funzioni amministrative relative alla materia «be­neficenza pubblica», l'art. 117 Cost.ne restereb­be pregiudicato.

Deve rilevarsi che la Sezione minorile della Corte di Appello di Bologna, avendo sollevata siffatta questione nel novembre del 1980, aveva qualche giustificazione a) suo assunto perché tale era effettivamente, fino a quel momento, lo stato della dottrina tradizionale e della stessa giuri­sprudenza costituzionale: anche se, per verità, in dottrina già andavano maturando i rilievi che la fondamentale sentenza di questa Corte 17 luglio 1981 n. 174 ha poi sviluppato con ampia motivazione.

Molto meno giustificata, invece, l'ordinanza dei Tribunale di Salerno che, intervenendo nel luglio del 1985, esattamente quattro anni dopo l'ultima sentenza ora richiamata, la ignora del tutto: essa, infatti, si limita a riportare integralmente la mo­tivazione della Corte bolognese senza proporre alcun profilo nuovo a fronte dei risolutivi argo­menti contenuti nella sentenza n. 174 del 1981v.

3. - In realtà, quest'ultima sentenza, proprio aderendo allo spirito della sintesi operata dall'art. 22 del decreto impugnato, osserva che «le finalità e l'ampiezza della ridefinizione contenuta nell'art. 22 rappresentano il frutto di una nuova analisi delle funzioni razionalmente suscettibili di essere riunite nella materia, e costituiscono i primi risultati di una nuova linea di politica socia­le, come è attestato anche dalle proposte di leg­ge presentate (in quella legislatura) dai gruppi parlamentari più numerosi». Secondo detta sen­tenza, quindi, «la ridefinizione operata dall'art. 22 del D.P.R. n. 616 del 1977 deve essere inqua­drata in tale prospettiva che ricomprende non solo la beneficenza e assistenza pubblica ex art. 117, ma anche l'assistenza sociale ex art. 38 Cost.». Dopodiché la sentenza enumera quell'in­sieme di elementi che «comporta il superamento dei presupposti sui quali si fondavano le distin­zioni e le contrapposizioni disegnate nella sen­tenza n. 139 del 1972» e conclude rilevando che «adottare un disegno organico di riforma dei ser­vizi sociali nei termini accennati, se rappresenta un indirizzo politico diversamente valutabile in relazione a differenti parametri, non può certo ritenersi in contrasto con la Costituzione: e non provoca incostituzionali alterazioni nel riparto di competenza fra Stato e Regioni. Dopodiché, pre­messa ulteriore ampia motivazione, la sentenza esplicitamente dichiara che «l'art. 22 ex D.P.R. n. 616 del 1977 non viola gli artt. 117 e 118 perché non eccede i limiti della materia intesa nel qua­dro della legislazione vigente, avuto riguardo al concetto di beneficenza pubblica quale fu presen­te al legislatore delegante all'atto del trasferi­mento alle Regioni delle funzioni relative (sent. n. 89 del 1977)».

4. - Con ciò resta superata anche la seconda doglianza delle ordinanze secondo cui il trasferi­mento agli enti locali di materie diverse da quel­le contemplate nell'art. 117 costituirebbe anche violazione ex art. 75 Costituzione, dato che alle materie in quell'articolo contenute la legge delega faceva riferimento.

In proposito, infatti, a parte l'esplicita dichia­razione or ora riportata, la citata sentenza aveva anche rilevato, benché incidenter tantum, che quell'indirizzo di superamento dei presupposti sui quali si fondavano le vecchie distinzioni «era se­gnato, sia pure in forma ellittica, nel primo dei criteri direttivi della legge di delega n. 382 del 1975 allorché nell'art. 1, comma terzo, n. 1, si pre­scriveva che il trasferimento delle funzioni ammi­nistrative doveva essere finalizzato ad assicurare una disciplina ed una gestione sistematica e pro­grammata; delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alle Regioni per il territorio e per il cor­po sociale»: il che appunto il decreto di attuazio­ne aveva realizzato mediante gli artt. 22 e 23.

5. - L'art. 25 del decreto è, però, impugnato anche per un motivo tutto particolare. Rilevano, infatti, le ordinanze che l'art. 118 Cost. consente bensì che le materie elencate nell'art. 117 Cost. possano essere attribuite dalla legge dello Stato direttamente alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali, purché però abbiano «interesse esclu­sivamente locale». Ma l'art. 25 in esame attribui­sce ai Comuni tutte le funzioni amministrative contemplate dagli artt. 22 e 23 del Decreto: e fra quelle funzioni vi sono appunto anche i citati «interventi in favore di minorenni soggetti a prov­vedimenti delle Autorità giudiziarie minorili nel­l'ambito della competenza amministrativa e civi­le»: ebbene, secondo le ordinanze, sarebbe estre­mamente dubbia la possibilità di considerare sif­fatti interventi come attinenti a materia di inte­resse esclusivamente locale, giacché essi, invece involgerebbero un fondamentale interesse gene­rale dei cittadini e, quindi, dello Stato.

Ma anche questa doglianza non è fondata. Essa trae argomento, infatti, da una considera­zione pancriminalistica di qualsiasi intervento rieducativo di soggetti in età evolutiva: interventi che vengono, perciò, indiscriminatamente collo­cati nell'area della «difesa sociale» e della «pre­venzione criminale», in guisa da farli rientrare in quel campo amministrativo che, concernendo la competenza penale dei Tribunali minorili, rientra sicuramente nelle attività riservate allo Stato. Ma così non è, giacché - come bene ha messo in luce la più moderna dottrina specialistica fra cui quella di insigni magistrati che al problema dei minori hanno dedicato gran parte della loro vita - la specie di provvedimenti in esame ha carattere di tutela del minore e rientra nel qua­dro di un impegno pedagogico di aiuto al supera­mento di quelle situazioni che la legge definisce di «irregolarità».

Ne consegue che opportunamente la legge, sulla base dell'indicazione degli esperti e della concreta esperienza degli istituti, ha ritenuto che la tutela dei minori «irregolari» sia meglio realiz­zata mediante il decentramento territoriale dei servizi. E ciò sia perché, nell'ambiente dove il minore è cresciuto e dove vive (specialmente se si presta quello familiare) meglio si profila l'impe­gno rieducativo che mira, non ad estraniare, ma a mantenere il minore nel suo habitat nell'intento di reinserirlo risocializzandolo, sia perché più immediato è il contatto degli operatori locali con i soggetti interessati.

Il rilievo delle ordinanze, peraltro, corrisponde ad una superata concezione che ravvisava negli enti locali, e negli interessi di cui sono portatori, situazioni secondarie e marginali. Al contrario, la Costituzione, valorizzando decentramento ed au­tonomie locali, ha inteso sottolineare l'opportu­nità che la cura di determinati interessi sia de­centrata proprio per assicurarne una più comple­ta e penetrante realizzazione attraverso una de­centrata organizzazione territoriale dei servizi.

D'altra parte, il legislatore si è anche preoccu­pato di assicurarne l'efficienza commettendo alle Regioni, sentiti i Comuni interessati, la determi­nazione di ambiti territoriali adeguati alla gestio­ne di servizi sociali e sanitari, attraverso la pro­mozione di forme di cooperazione fra enti locati territoriali (art. 25, secondo e terzo comma del Decreto). II che si è verificato nella specie riguar­dante l'ordinanza di Bologna, dove appunto agisce il Consorzio per i servizi sociali e sanitari Bolo­gna-8alognina, cui il Tribunale minorile dell'Emilia Romagna aveva affidato l'esecuzione del provve­dimento a tutela del minore Domenico Tuppi.

Non sussiste, quindi, la denunziata violazione dell'art. 118 Cost.

6. - Ed infine la questione riguardante l'art. 110 Cost.

Ricordano le ordinanze che l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia spettano, ai sensi dell'articolo citata, al Ministro della Giustizia. E poiché i provvedimenti in paro­la riguardano evidentemente i servizi relativi alla giustizia, la loro esecuzione non può essere affi­data - secondo i giudici rimettenti - ad enti locali.

Senonché - come esattamente ha rilevato la Avvocatura generale dello Stato nell'intervento concernente l'ordinanza del Tribunale di Salerno - è anche evidente che il Costituente nella pri­ma Sezione del titolo IV della Parte li, concernenti la magistratura e l'ordinamento giurisdizionale in particolare, si è preoccupato soltanto di risolvere il secolare problema dei l'indipendenza e dell'au­tonomia della magistratura da ogni altro potere (art. 104, comma primo).

Ed, infatti, dopo averlo solennemente procla­mato, ed avere attribuito ad un organo di rilevan­za costituzionale il governo della magistratura, ha voluto confermare nell'art. 110 che al Ministro rimaneva soltanto l'organizzazione e il funziona­mento dei servizi, mentre ogni altra competenza spettava al Consiglio Superiore della magistra­tura («Ferme le competenze ...» inizia, infatti, il dettato dell'articolo).

Tutto ciò, quindi, non significa istituzione di competenze per il Ministro circa l'organizzazione di qualunque servizio comunque in relazione con la giustizia, ma soltanto la delimitazione del cam­po di intervento del Ministro rispetto a quello ef­fettivamente riservato - quello sì - all'Organo di governo.

Nemmeno quest'ultima questione, pertanto, ha fondamento.

 

Per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Riuniti i giudizi, dichiara non fondata la que­stione di legittimità costituzionale degli artt. 1, lettera e), della legge 22 luglio 1975 n. 382 (norme sull'ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione), e 22, 23 e 25 del D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 (attuazione della dele­ga di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1973 n. 382) con riferimento agli artt. 117, 76, 118 e 110 Cost., sollevata dalla Corte d'Appello di Bologna - Sezione minorenni, con ord. 19 novembre 1980 (n. 83/1981 reg. ord.) e dal Tribunale di Salerno con ord. 29 luglio 1985 (n. 19/1986 reg. ord.).

Così deciso in Roma, in udienza pubblica, nella sede della Corte Costituzionale, palazzo della Consulta il 22 maggio 1987. Depositata in cancel­leria il 22 luglio 1987.

 

 

(1) Giudice del Tribunale per i minorenni di Bari.

(2) La sentenza n. 287/1987 è pubblicata dopo il com­mento di F. Occhiogrosso.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it