Prospettive assistenziali, n. 85, gennaio-marzo 1989

 

 

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L'IMPEGNO DELL'ASSOCIAZIONE PAPA GIOVANNI XXIII A DIFESA DEI MINORI PRIVI DI UNA VALIDA FAMIGLIA

 

L'Assemblea nazionale delle famiglie affidatarie, adottive e case famiglia, organizzata annual­mente dalla Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, nella sua edizione del 1988 (9-10-11 settembre) ha suscitato nei mass-media un interesse superiore di quanto sia avvenuto per le edizioni precedenti o per iniziative analoghe. Un interesse giustificato anche per la qualificazione ed il prestigio delle persone chiamate a dare il loro contributo nel corso dei lavori.

Non è escluso, però, che l'interesse dipenda da una maggiore attenzione di tutta l'opinione pubblica verso i minori maltrattati, abbandonati e comunque senza un'adeguata assistenza familiare. Attenzione comunque ancora scarsa, stando al dibattito in assemblea, sul problema dell'emar­ginazione in generale e dei minori in particolare.

L'Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini denuncia infatti da tempo l'inadeguatezza e l'ingiustizia sostanziale delle normative e delle pras­si pubbliche quando di mezzo ci sono i soggetti deboli di questa società anziché potenti corporazioni professionali o lobbies economiche e politiche.

 

L'impegno dell'Associazione Papa Giovanni XXIII

L'Associazione denuncia questa situazione par­tendo dall'esperienza di 20 anni di lavoro con gli handicappati, 15 anni di lavoro con l'affidamento e le case famiglia, 7 anni di lavoro con la tossi­codipendenza, 2 anni di lavoro con le persone senza fissa dimora e tenendo conto del patrimonio di conoscenza delle 40 case-famiglia e pronto­soccorsi sociali sparsi per l'Italia (ed anche in Africa), delle comunità terapeutiche e delle fa­miglie affidatarie che ad essa fanno capo (circa 100 con affidi in corso ed altrettante che ne hanno avuti o si accingono ad averne).

L'Associazione Papa Giovanni XXIII, presenza ormai significativa sul fronte dell'emarginazione, con l'assemblea di settembre, ha chiamato a con­fronto famiglie affidatarie da tutta Italia, case famiglia, operatori sociali, personale religioso e laico degli istituti, magistrati ed esperti per porre in evidenza quella che oggi si presenta come una delle più macroscopiche violazioni di diritti: il diritto naturale, ma sancito anche esplicitamente da una legge, del minore di vivere ed essere edu­cato in una famiglia: possibilmente la propria, ma in assenza od in carenza di questa, comunque in una famiglia.

La realtà italiana, invece, mostra il dato dram­matico di circa 60.000 minori rinchiusi negli isti­tuti. Ma quello che è più grave è che il numero non tende a diminuire se non per il decremento di popolazione nelle fasce di età considerate; comunque non sono reperibili dati certi e corret­tamente censiti (ulteriore dimostrazione di disin­teresse degli organi pubblici). Risulta anzi che in alcune zone il ricorso agli istituti è in aumento ed i tribunali ed i servizi sociali vi facciano ricor­so anche in violazione dell'art. 2 della legge 184 del 1983 che recita: «il minore che sia tempora­neamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un'altra famiglia, possi­bilmente con figli minori, o ad una persona singo­la, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l'educazione e la istruzione.

Ove non sia possibile un conveniente affida­mento familiare, è consentito il ricovero del mi­nore in un istituto di assistenza pubblico o pri­vato, da realizzarsi di preferenza nell'ambito del­la regione di residenza del minore stesso».

È evidente che la legge relega l'istituto a so­luzione estrema ed il ricorrervi senza aver accer­tato la possibilità di un affido familiare rappre­senta una precisa violazione di legge.

 

Un disagio che ha radici strutturali

La «disattenzione» delle istituzioni, degli orga­ni e dei servizi preposti verso i minori non è ca­suale o limitata ai minori senza famiglia: gli han­dicappati e le loro famiglie denunciano la insen­sibilità pubblica (non solo istituzionale, ma anche sociale) ai loro problemi; le città, le convivenze, la scuola, la vita sociale in genere non tengono prioritariamente conto delle necessità e dei diritti dei ragazzi; ad ogni fine legislatura vengono ma­linconicamente archiviati i progetti di legge per una riforma complessiva della giustizia minorile che continua ad essere governata da norme anti­quate se si esclude il recente limitato intervento nella procedura penale.

Tutto ciò in una situazione di trasformazioni velocissime di valori culturali, modelli di vita e cambiamenti sociali che determinano zone sem­pre più vaste di emarginazione; producono ne­vrosi e rapporti violenti e prevaricatori di cui le vittime sono, ovviamente, i soggetti deboli ed i bambini in primo luogo.

Questo quadro, non certamente lusinghiero, è stato analizzato con lucidità nel corso dei lavori dell'assemblea di settembre. Un grosso contri­buto è venuto dai relatori: il Prof. Alfredo Carlo Moro, Consigliere della Suprema Corte di Cassa­zione che ha collocato il problema dei minori sen­za adeguata assistenza familiare nel quadro più complessivo della condizione dei minori nella famiglia e nella società ed ha rilevato l'esigenza di una nuova cultura dell'infanzia; la Dr. Giovanna De Cellis che ha relazionato sulla gravità quanti­tativa e qualitativa della violenza sui minori e sui danni provocati dall'abuso sessuale che è più frequente di quanto risulti ufficialmente; la Dr. Silvia Tagliavini, neuropsichiatra, che ha descritto le dinamiche dei processi che riguardano il perio­do dell'adolescenza, processi che da occasioni positive di maturazione possono diventare occa­sioni negative di devianza ed emarginazione nell'impatto con una realtà non adeguata di cui hanno responsabilità tutte le componenti della società; il Dr. Orlando Ghirardi dell'UNICEF che ha collo­cato la condizione dei minori in Italia nella situa­zione internazionale, descrivendo un quadro non lusinghiero né consolante.

I dati più drammatici parlano di 38.000 bambini imprigionati (11.000 in due anni solo in Sud-Afri­ca), arruolati a forza negli eserciti, abbandonati per le strade all'accattonaggio ed alla prostitu­zione, in paesi poveri che effettuano tagli sempre maggiori alle spese per l'assistenza e per la sa­nità per acquistare armi.

Un contributo prezioso per la conoscenza della situazione in altri paesi è venuto anche da alcune delegazioni presenti ai lavori dell'assemblea: Grace Nsiah dal Ghana, Rosemary Winder dagli Usa, Ivonne Gemayel dal Libano, Harriet Baldeh dal Gambia, Alain e Béatrice Lenoir dalla Francia.

La posizione complessiva dell'Associazione Papa Giovanni XXIII è stata portata dal fondatore ed attuale responsabile della Associazione stes­sa, Don Oreste Benzi, che, utilizzando ogni dato disponibile, ha denunciato l'inquietante fenome­no del ritorno alla utilizzazione dell'istituto come risposta ai problemi dei minori.

La presenza di numerose autorità, fra cui il Mi­nistro per gli affari sociali, Rosa Russo Jervolino, ha permesso di ampliare il confronto con le isti­tuzioni e di avanzare alle stesse precise richie­ste di impegno.

 

Problematiche in continua evoluzione

Particolarmente nei gruppi di lavoro, sulle varie problematiche ed in particolare sui rapporti fra famiglie affidatarie e famiglie d'origine, sull'affi­damento degli adolescenti, sui rapporti dei minori affidati con il territorio (scuola, gruppo, parroc­chia), è emerso il contributo decisivo dei parteci­panti che ha poi determinato le proposte operati­ve e di prosecuzione dell'impegno annunciate in chiusura dei lavori.

Possono essere trascurate le considerazioni ormai scontate che caratterizzano l'affidamento nei rapporti sopra elencati, ma alcune informazio­ni e denunce hanno raggiunto livelli di dramma­ticità tali da indurre l'Associazione Papa Giovanni XXIII a confermare ed intensificare l'azione a vasto raggio in difesa dei minori senza adeguata assistenza familiare.

Per quanto riguarda gli adolescenti è stata con­fermata l'esistenza di una vera e propria emer­genza: la domanda di interventi a favore di ado­lescenti bisognosi di un supporto familiare si moltiplica e si specializza per la particolarità della domanda stessa. A fianco della normale attività di affidamento familiare, emerge la richiesta di fornire agli adolescenti, senza una adeguata assi­stenza in famiglia, un punto di riferimento sicuro per gli anni che li separano dall'età matura.

Sono state rilevate le difficoltà spesso insupe­rabili che incontra la famiglia affidataria nel rap­porto con l'adolescente affidato, soprattutto se i servizi hanno atteso di toglierlo dall'abbandono quando ormai il recupero diventa difficile o sia stato lasciato «guastare» totalmente in un istitu­to. Alcuni istituti dimettono gli adolescenti solo quando non riescono più a «reggerli», scarican­doli su famiglie spesso insufficientemente pre­parate.

Al momento del raggiungimento dell'adolescen­za dei figli affidati, anche l'inserimento lavorativo si presenta più problematico che per altri, trat­tandosi di ragazzi spesso poco competitivi sul mercato del lavoro.

In ogni caso i genitori e gli operatori presenti hanno denunciato l’inadeguatezza dei servizi nell'assistenza agli adolescenti; si è parlato di vera e propria «terra di nessuno» con riferimento alla competenza assistenziale per gli adolescenti.

Puntuali ed interessanti anche le indicazioni emerse dai gruppi di lavoro sugli altri aspetti affrontati. L'attenzione alle famiglie d'origine rappresenta quasi sempre una svolta nella storia dell'affidamento: il rapporto con esse resta sem­pre difficile e spesso viene a presentarsi come un problema in più per le famiglie affidatarie. Sta crescendo però la convinzione che è sulla fami­glia d'origine che si deve operare affinché il feno­meno dell'abbandono e del maltrattamento ai mi­nori non si riproduca, nonostante l'intervento pubblico e privato che avviene spesso in ritardo.

Un intervento di sostegno alla famiglia di ori­gine può risolvere appunto «all'origine» una buo­na parte dei casi, che, affrontati a posteriori, han­no costi umani, sociali ed anche finanziari enor­memente più alti (l'Associazione denuncia casi di sottrazione di minori a famiglie non in grado di assicurarne il sostentamento; questi minori ven­gono poi messi in istituti che costano alla collet­tività diversi milioni al mese).

La famiglia affidataria si trova spesso a carico anche la famiglia di origine, situazione a cui non sempre riesce a fare fronte, se non c'è una pre­cisa e qualificata presenza del servizio socio-assi­stenziale.

Difficoltà anche, secondo le testimonianze dei partecipanti, nei rapporti con la scuola, il quar­tiere, la parrocchia, dove non sempre l'inserimen­to è facile ed a volte l'affidamento viene visto con sospetto.

Una denuncia unanime nei confronti degli isti­tuti: al di là delle polemiche sulle cifre circa i «rinchiusi», è stata colta pienamente la «insop­portabilità» della situazione degli istituti per le coscienze dei genitori affidatari. In particolare è preoccupante la dimensione del fenomeno e il trattamento riservato ai bambini da alcune istitu­zioni, la speculazione di cui spesso sono stru­mento.

 

Verso la IV assemblea con progetti ambiziosi

Nonostante la presenza notevole di istituzioni religiose nella gestione degli istituti, l'Associa­zione ha confermato con forza la propria irridu­cibilità nella lotta per lo svuotamento degli isti­tuti e per l'obiettivo di dare una famiglia ad ogni bambino.

Ed è con questa determinazione che l'Associa­zione si accinge a continuare la sua azione nell'anno che la separa dalla IV assemblea già fissata per il settembre 1989: aggredire il fenomeno del­la istituzionalizzazione sollecitando ogni possibile disponibilità di famiglie affidatarie e denunciare le violazioni della legge 184/1983 da parte di mol­ti servizi e di alcuni tribunali per minorenni.

Per quest'azione sul fronte dei minori, l'Asso­ciazione Papa Giovanni XXIII si propone come punto di riferimento nazionale di coordinamento permanente di tutte le piccole e grandi realtà (gruppi, associazioni e singole persone o fami­glie) impegnate in difesa dei minori.

 

 

ANZIANI MALTRATTATI IN UN ISTITUTO DI MILANO

 

Riportiamo integralmente quanto è stato pubblicato sul n. 1, marzo 1988 dei Fogli di informa­zione trimestrali del MO.V.I., a cui chiediamo di rendere pubblica la denominazione dell'istituto in oggetto.

 

Rilievi emersi dalle riunioni di reparto dei volon­tari in un istituto di Milano:

«Nei reparti dell'istituto, per anziani autosuffi­cienti, sono ricoverati moltissimi anziani non au­tosufficienti cronici. I rapporti con i medici sono inesistenti. Il medico chiamato per un anziano in condizioni aggravate non si è visto per due giorni: la giustificazione è che l'ospite è considerato fuo­ri di mente e segnala disturbi inesistenti o non urgenti. È stata negata la presenza notturna ad una volontaria per un ospite peggiorato e poi mor­to di notte. Non esistono campanelli per chiamate urgenti da parte di ospiti allettati. Essendo i letti vicini alle finestre queste non vengono aperte per aerare il locale. Pur essendoci ospiti alcoolizzati o con tendenza all'alcolismo, al bar dell'istituto si vendono alcoolici. Ci sono nei reparti persone con turbe psichiatriche: oltre alla mancanza di cure nei loro confronti, la situazione comporta problemi e stati di angoscia nei vicini. Esistono problemi di udito per molti ospiti: non si può far nulla? Per gravi e moribondi non esiste un luogo appartato e reso discreto per rispetto di chi vive e di chi muore. Gli abulici vengono fasciati a let­to: provvedono i volontari a farli alzare e accom­pagnarli al tavolo. Non esistono diete personaliz­zate. La dieta normale è ad alto contenuto di co­lesterolo (uova sode, cervella, formaggi grassi, insaccati misti, poca frutta, poche verdure, vino in quantità). Durante la distribuzione dei pasti c'è freddezza e frettolosità specie nel recupero delle stoviglie a fine pasto, a volte ancora con il cibo non consumato per la lentezza dell'ospite che rimane con il pranzo interrotto. Con la presenza dei volontari che aiutano a mangiare, il personale si ritira. C'è mancanza di collaborazione con i vo­lontari. Il personale non è stato preparato al ser­vizio dei volontari in reparto e a volte li ostacola. Ci vorrebbero attività di aggiornamento comune. Insufficienza di infermieri e inservienti rispetto al numero degli ospiti non autosufficienti; per 50 ospiti un solo infermiere caposala e quattro in­servienti per ognuno dei due turni giornalieri; di notte una persona sola. Totale: 11 persone per 50 anziani. Il personale infermieristico cambia so­vente per rotazione eccessiva. Dovrebbe essere più numeroso e responsabilizzato. Gli inservienti dovrebbero intervenire anche fuori degli orari sta­biliti per il cambio in casi particolari per non la­sciare il paziente nelle feci. Altri pazienti sono abbandonati sulla commoda per parecchio tempo ciondoloni. È diventata abitudine in un reparto rifiutare la padella richiesta con conseguente di­sagio del paziente costretto a sporcare il letto. I servizi igienici sono poco puliti, promiscui. Urina versata sul pavimento resta da un giorno all'altro. La pulizia del pavimento viene fatta con sola acqua senza detersivi. Piatti, stoviglie, bava­gli sono spesso sporchi prima dell'uso, così com­made e sedie. Gli indumenti una volta lavati ven­gono ridistribuiti a caso e non al singolo proprie­tario. Nella stagione invernale gli ospiti vengono coperti solo con un camicione. Dei letti non hanno sponde efficienti. Non esiste un locale per auto­sufficienti che non sia disturbato dalla televisione o da chi gioca a carte. A volte i pazienti per fare il bagno devono aspettare fino a tre mesi. Quando viene fatto spesso provoca scottature per l'acqua troppo calda».

 

 

SONO HANDICAPPATI PSICHICI GRAVI E GRAVISSIMI, MA SCRIVONO E STAMPANO UN GIORNALINO: È POSSIBILE?

 

I centri territoriali riabilitativi, gestiti dal Co­mune di Milano o convenzionati, sono «un servi­zio di riabilitazione fisica, psichica e sociale per portatori di handicap psichici e psicofisici gravi e gravissimi».

Sorprendente, trattandosi appunto di handicap­pati gravi e gravissimi, è il fatto che essi siano in grado di scrivere e stampare un giornalino.

Uno dei redattori, R.B. del CTR 9 ha scritto sul n. 13, aprile-maggio-giugno 1988 la nota che ripor­tiamo integralmente: «Siamo andati in gita al la­go di Como. Alle ore 10 siamo partiti col pulmino dal Centro per la stazione nord, abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Como. Poi siamo saliti sul battello, era molto bello sembrava una casa, c'era anche il ristorante dove abbiamo mangiato. Siamo così arrivati a villa Carlotta, l'abbiamo vi­sitata c'erano dei bellissimi fiori e tante piante di agrumi. Io mi sono molto divertito e spero di fare presto altre gite».

Ma si tratta proprio di handicappati gravi e gra­vissimi?

Devono frequentare un C.T.R. perché le condi­zioni psico-fisiche sono così gravi da impedire qualsiasi inserimento lavorativo nelle normali aziende pubbliche e private? E, se sono così gra­vi, com'è che scrivono così bene?

Come vengono scelti i ragazzi da inviare a que­sti C.T.R.? Quali rapporti vi sono fra i C.T.R., la formazione professionale e l'inserimento lavora­tivo?

Ci ha impressionato molto la seguente lettera di un ragazzo a «Cristina licenziata», lettera pub­blicata sul numero speciale del giornalino di Na­tale; dal testo risulta che la ragazza, inserita al lavoro dopo la frequenza del C.T.R., e in seguito messa in cassa integrazione, «non fa più parte del Comune» e non può più partecipare alle atti­vità del Centro...: «Cristina Camponovo veniva al giornalino dal C.T.R. di Zona 8, era una ragazza, simpatica, allegra, spiritosa. Adesso il C.T.R. di zona 8 l'ha mandata via prendendo ragazzi nuovi al suo posto. Il C.T.R. 8 mandava Cristina alla “formazione nel lavoro” negli uffici. È stata as­sunta dall'azienda Tenax, solo che la ditta chiude e Cristina viene messa in cassa integrazione. Ora Cristina non fa più parte del Comune e questo dispiace, quindi non può venire più al giornalino a cui era affezionata molto, quindi deve restare a casa. Quando ho saputo la notizia sono rimasto male perché cominciavamo a lavorare insieme, eravamo una coppia affiatata essendo appena all'inizio. Adesso mi tocca svolgere il lavoro da solo e sento molto la sua mancanza. Jean Paul».

Ci sembra inoltre poco opportuno il largo uso di fotografie dei ragazzi handicappati che si fa nei vari numeri del giornalino... Ma soprattutto dobbiamo sottolineare il fatto che, qualificando «gravi e gravissimi» tutti indistintamente i fre­quentanti i C.T.R., si va compiendo un'azione di «stigmatizzazione» molto negativa, nei confronti dell'opinione pubblica, in particolare verso i geni­tori, gli amministratori pubblici e gli operatori economici (futuri eventuali datori di lavoro), e si va costruendo e diffondendo una immagine dei ragazzi più negativa di quanto non siano in realtà, e quindi si contribuisce ad aggravare la loro emar­ginazione.

Non saremo certo noi a sottovalutare i meriti di questi C.T.R., e siamo d'accordo con le osser­vazioni della professoressa C. Morosini contenute in una relazione pubblicata sul giornalino n. 13/1988: «I C.T.R. sono nati dallo smantellamento dei grandi Centri sovrazonali, all'insegna delle de­centralizzazione, della deistituzionalizzazione, del­la demedicalizzazione (...). Carattere di bipolarità del C.T.R.: inserimento del portatore di handicap nel suo contesto socio-culturale, ma anche edu­cazione all'accoglimento ed alla accettazione del portatore di handicap da parte dell'ambiente».

Ma alcune perplessità sorte dalla documenta­zione prodotta da questi C.T.R. rimangono. In par­ticolare, gradiremmo avere precisazioni dall'As­sessore all'assistenza del Comune dì Milano, essendo noi molto dubbiosi sul fatto che si tratti proprio di handicappati gravi e gravissimi.

 

 

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