Prospettive assistenziali, n. 84, ottobre-dicembre 1988

 

 

TESTO DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULLE IPAB (1)

 

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte Costituzionale composta dai signori: Dott. Francesco Saja, Presidente - Prof. Giovanni Conso - Prof. Ettore Gallo - Dott. Aldo Corasaniti - Prof. Giuseppe Borzellino - Dott. Francesco Greco - Prof. Renato Dell'Andro - Prof. Gabriele Pescatore - Avv. Ugo Spagnoli - Prof. Francesco Paolo Casavola - Prof. Antonio Baldassarre - Prof. Vincenzo Caianiello - Avv. Mauro Ferri - Prof. Luigi Mengoni - Prof. Enzo Cheli, Giudici, ha pronunciato la seguente sentenza: nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972 («Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza»), promosso con ordinanza emessa il 28 giugno 1985 dalla Corte di Appello di Bologna nel procedimento civile vertente tra l'Opera Pia Ospizio S. Anna e il Comune di Bologna ed altra, iscritta al n. 765 del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9/1ª ss. dell'anno 1986.

Visti gli atti di costituzione dell'Opera Pia Ospi­zio S. Anna, del Comune di Bologna e della Regio­ne Emilia Romagna nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 gennaio 1988 il Giudice latore Vincenzo Caianiello;

uditi l'avv. Edda Menzani per l'Opera Pia Ospizio S. Anna e l'Avvocato dello Stato Paolo D'Ami­co per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - L'Opera Pia Ospizio S. Anna, richiesta dal­la regione Emilia-Romagna di cancellarsi dal re­gistro di cui all'art. 33 cad. civ. nel presupposto della sua appartenenza alla sfera degli enti pub­blici previsti dall'art. 1 legge 17 luglio 1980 n. 6972, (appartenenza che ne avrebbe comportato, ai sensi dell'art. 25 D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, la soppressione), adiva il Tribunale di Bologna per ottenere l'accertamento, in contraddittorio con il comune e la regione, della propria natura di ente privato.

In seguito all'impugnazione della sentenza di primo grado che respingeva la domanda attrice, la Corte d'Appello di Bologna, decidendo in via non definitiva sulla, giurisdizione, osservava, nel merito, che la generalizzata pubblicizzazione degli Istituti di assistenza e beneficenza, operata dalla legge 17 giugno 1890 n. 6972, non poteva essere posta in dubbio, e con separata ordinanza, impu­gnava dinanzi a questa Corte l'art. 1 della predetta legge, ritenendolo in contrasto con l'art. 8 u.c., della Costituzione.

Sostiene il giudice a quo che la disposizione denunciata, conducendo nella sfera di competen­za pubblica tutta l'assistenza esercitata dagli enti riconosciuti, ha istituito nel settore un vero e pro­prio «monopolio pubblico», così comprimendo, in misura consistente, il principio che sancisce e tu­tela la libertà dell'assistenza privata. Inoltre, ogni indagine volta ad accertare le modalità di nascita e di vita dell'Opera pia appellante, nonché gli sco­pi, anche di natura etica e religiosa, da essa per­seguiti, risulterebbe inutile, dal momento che la sua qualificazione pubblica discenderebbe in mo­do pacifico ed evidente dalla impugnata norma della legge Crispi, mentre, la paventata soppres­sione, conseguenza del previsto trasferimento delle funzioni e dei beni delle IPAB infraregionali ai comuni, non potrebbe più realizzarsi in seguito alla intervenuta declaratoria di incostituzionalità dell'art. 25 del D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616.

2. - Nel giudizio così promosso si è costituito il Comune di Bologna chiedendo che la questione venisse dichiarata inammissibile per insufficiente motivazione sulla rilevanza. L'omissione - nella ordinanza di rinvio - di ogni riferimento alla con­creta fattispecie non consentirebbe, infatti, l'indi­viduazione delle ragioni e dei termini per i quali la norma impugnata dovrebbe trovare applicazio­ne nel giudizio a quo.

La questione, poi, sarebbe comunque irrilevan­te dal momento che la legge Crispi, anche se con­trastante con l'invocato parametro costituzionale, resterebbe, ciò nondimeno, applicabile alle istitu­zioni sorte anteriormente all'entrata in vigore della Costituzione, che le trovò, secondo l'opinio­ne di un'autorevole dottrina «viventi e operanti come enti pubblici». Al riguardo ritiene il comune che, non avendo l'opera pia impugnato una serie di atti amministrativi, ed in particolare il R.D. 9 settembre 1909, che (in applicazione dell'art. 1 della legge del 1890 e dei relativi regolamenti am­ministrativo e contabile del 1891) ne approva il nuovo Statuto, la sua natura pubblica costituireb­be, ormai, uno status consolidato ed intangibile sul quale nessun effetto potrebbe spiegare una eventuale dichiarazione di incostituzionalità del­la norma censurata.

Nel merito la parte osserva che la questione, già sollevata contestualmente e subordinatamen­te all'altra concernente il trasferimento delle IPAB ai comuni (art. 25 D.P.R. n. 616 del 1977), sarebbe stata ritenuta irrilevante da questa Corte (sent. n. 173 del 1981 e ord. n. 34 del 1982) nell'implici­to presupposto che, se la situazione creata dalla legge Crispi non riesce ad evolvere verso proces­si di svuotamento e soppressione di tutte le IPAB, ciò significa che gli elementi privatistici in esse presenti sono garantiti e, quindi, anche il princi­pio di cui all'art. 38 Cost. non risulta violato.

D'altro canto, considerando le ipotesi sottratte alla disciplina della legge, e cioè le eccezioni di cui all'art. 2, nonché le attività assistenziali svol­te in forma individuale o con strutture facenti ca­po ad enti di fatto, appare inesatto affermare che la stessa abbia instaurato un «monopolio pubbli­co» dell'assistenza e beneficenza. La tesi, co­munque; non risulterebbe sufficientemente suf­fragata dal dato del tutto estrinseco e formale della qualificazione pubblica degli enti; ed infatti, tutte le scelte concernenti la forma dell'istituzio­ne, le specifiche finalità, la configurazione degli organi amministrativi e i criteri per la designazio­ne dei rispettivi componenti, restano riservate all'autonomia privata, che si prolunga così anche al di là del momento genetico riflettendosi sulla vita dell'ente.

3. - La regione Emilia-Romagna, costituendosi, ha invece eccepito l'irrilevanza della questione, non essendo contestata nel giudizio a quo la possibilità, per l'opera pia, di trasformarsi in ente privato, quanto piuttosto il raggiungimento di tale trasformazione in modo indiretto, e cioè attraverso una sentenza che accerti ab origine la natura privata, quando invece sia lo statuto che il suo modo di operare ne dimostrerebbero incontestabilmente, la qualità di IPAB.

Nel merito, la regione ha poi chiesto che la questione venisse dichiarata infondata in quan­to la disposizione denunciata consentendo, se­condo l'interpretazione datane dalla Cassazione e dalla giurisprudenza di merito, lo svolgimento di attività assistenziali anche da parte di persone giuridiche private, non importerebbe affatto un «monopolio pubblico» nella materia.

4. - È intervenuta l'Avvocatura Generale dello Stato, eccependo l'inammissibilità della questio­ne per omessa motivazione sulla rilevanza. Se il giudice a quo, infatti, prima di sollevare l'inciden­te di costituzionalità, avesse indagato sulle mo­dalità di nascita e di vita dell'opera pia, avrebbe potuto acquisire elementi tali da far ritenere con­fermata o esclusa la pubblicità dell'ente anche a prescindere dal disposto della forma impugnata.

L’interveniente ha poi osservato che ai tempi dell'Assemblea Costituente, la pubblicità degli enti morali svolgenti attività di assistenza e bene­ficenza - tranne quelli elencati nell'art. 2 della legge Crispi - era un dato di fatto ben conosciu­to, e quindi non ignorato al momento in cui fu det­tato l'art. 38. Pertanto, non essendoci elementi, in tal senso, contrari, si deve ritenere che la vo­lontà dei costituenti non era quella di sconvolge­re la materia in esame, riprivatizzando le istitu­zioni che la legge del 1890 aveva pubblicizzato, ma piuttosto di lasciare alla legge ordinaria il compito di disciplinare quella libertà garantita dall'art. 38 e per la quale, diversamente da quan­to prevede il precedente art. 33 in materia di istruzione, non risulta affatto contemplata la pos­sibilità di istituire enti privati.

Ad avviso dell'Avvocatura, infine, l'impossibi­lità di svolgere attività assistenziale nella forma organizzata della persona giuridica privata non violerebbe il principio della libertà di assistenza, trattandosi di una scelta discrezionale operata dal legislatore e giustificata dalla particolare delica­tezza e importanza dell'attività svolta. Così come, allo stesso modo, il divieto posto alle persone fi­siche e giuridiche (ad eccezione delle sole socie­tà per azioni) di esercitare le assicurazioni (art. 1883 cad. civ.), costituendo un limite intrinseco alla particolare natura delle attività, non viola la libertà di iniziativa economica.

5. - Con memoria depositata nei termini l'Ope­ra Pia Ospizio di S. Anna, precedentemente costi­tuitasi, ha svolto le proprie deduzioni osservando anzitutto che la legge Crispi si preoccupò di ren­dere pubblico il fine assistenziale, trascurando però di verificare la natura giuridica degli enti da costituire in IPAB, per i quali, l'assenza dell'ob­bligatorietà di conseguire il fine istituzionale, del­la costituzione per specifica iniziativa statale, nonché del godimento di una certa sfera di pote­stà pubbliche, dimostrerebbe la «forzatura» ope­rata dalla legge del 1890 che derivò la pubblicità degli enti dalla mera pubblicizzazione dei loro fini.

Ha poi rilevato che soltanto l'eventuale cadu­cazione della norma impugnata consentirebbe al giudice a quo un'indagine istruttoria sul carattere pubblico o privata dell'istituzione, il cui assogget­tamento alla legge Crispi ed il relativo riconosci­mento, di natura meramente dichiarativa, non ne avrebbero nella sostanza modificato la personali­tà di diritto privato.

Confutando la tesi dell'Avvocatura Generale, secondo cui l'attività assistenziale svolta dai pri­vati incontrerebbe un limite nell'impossibilità di utilizzare a tal fine lo strumento della persona giuridica, la parte osserva che una tale interpretazione dell'art. 38 Cost., oltre che contrastare con i principi di cui agli artt. 3 e 18 dello stesso testo, sarebbe stata già respinta da questa Corte con sentenza n. 139 del 1972. D'altro canto, soste­nere l'incostituzionalità della legge Crispi limita­tamente agli enti sorti dopo l'entrata in vigore della Costituzione significherebbe riconoscere al­la qualificazione autoritativa del soggetto una natura - di rapporto definitivo - che invece non ha. Trattandosi infatti di uno status personale, e quindi di una situazione ancora in atto da cui de­rivano diritti imprescrittibili, nessuna acquiescen­za può essere riferita all'ente, in relazione alla sua natura pubblica o privata.

 

Considerato in diritto

 

1. - È sottoposta all'esame della Corte la que­stione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 (c.d. legge Crispi) perché esso, riconducendo nell'ambito degli enti pubblici tutte le istituzioni di assistenza e benefi­cenza (IPAB), sarebbe in contrasto con l'art. 38, ultimo comma, Cost. che tutela la libertà dell'as­sistenza privata.

Ad avviso del giudice a quo, non può revocarsi in dubbio che, come riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza unanimi, la norma denun­ciata abbia prodotto una generalizzata pubbliciz­zazione delle istituzioni predette, ciò discenden­do dalla inequivoca intestazione della legge, dal­la struttura e dalla disciplina ad esse imposta, dalla esplicita qualificazione loro attribuita.

Il monopolio pubblico dell'assistenza esercita­ta dagli enti riconosciuti, così determinato, com­primerebbe perciò in modo consistente la libertà dei privati di contribuire all'assistenza predetta, in contrasto con l'opposto principio sancito dal precetto costituzionale invocato.

2. - Va preliminarmente disattesa l'eccezione di inammissibilità dedotta dall'Avvocatura gene­rale dello Stato per pretesa mancanza di motiva­zione sulla rilevanza. Risulta invece che la que­stione è stata sollevata dall'ordinanza di rimes­sione, nel corso di un giudizio promosso da una Istituzione di assistenza e beneficenza che aveva chiesto che venisse accertata la sua natura di ente privato. Detta Istituzione, il cui Statuto era stato approvato nel 1909, ai sensi della legge Crispi, si era iscritta successivamente, nel 1962, al registro delle persone giuridiche private pre­visto dall'art. 33 c.c. Avendole, però, la Regione Emilia-Romagna richiesto la cancellazíone da det­to registro, nell'assunto del suo carattere di ente pubblico, l'istituzione predetta aveva convenuto in giudizio il Comune e la Regione per far accer­tare la propria natura privata. Il Tribunale aveva respinto la domanda affermando il carattere pub­blico dell'ente. In sede di appello, il giudice di secondo grado disattendeva, con sentenza par­ziale, una eccezione di difetto di giurisdizione, confermando in tale occasione la natura pubblica dell'Istituzione, in quanto riconosciuta ai sensi della legge Crispi, ma, proprio partendo da que­sta premessa, ha sollevato questione di legitti­mità costituzionale dell'art. 1 della legge stessa, sostenendo la rilevanza della questione, nell'as­sunto che dalla eventuale dichiarazione dì ille­gittimità costituzionale di detta norma, avrebbe potuto trovare ingresso la domanda dell'ente di far accertare la propria natura privata.

Risulta così assolto l'obbligo di motivazione sulla rilevanza.

3. - Deve essere parimenti disattesa l'altra eccezione di inammissibilità per irrilevanza, sol­levata dalla Regione Emilia-Romagna, dal Comu­ne di Bologna e dall'interveniente Presidenza del Consiglio dei Ministri, can prospettazioni formal­mente diverse ma sostanzialmente analoghe, nell'assunto che l'invocato parametro costituzionale non sarebbe applicabile alle istituzioni sorte ante­riormente all'entrata in vigore della Costituzione, che le aveva trovate in vita come enti pubblici ed in particolare, relativamente al caso di specie, che, non avendo l'ente impugnato all'epoca il de­creto del 1909, il quale ne aveva approvato lo Statuto ai sensi della legge del 1890, la sua natu­ra pubblica non potrebbe più essere messa in discussione.

In proposito va osservato che questo profilo rappresenta proprio l'oggetto principale del pre­sente giudizio di legittimità costituzionale, aven­do il giudice a quo investito questa Corte appunto del problema volto a stabilire se la legge del 1890 n. 6872, che qualificava come pubblici tutti gli enti aventi finalità di assistenza e beneficenza, per il solo fatto di ottenere il riconoscimento del­la personalità giuridica, sia divenuta incompati­bile con l'art. 38, ultimo comma, Cost., che san­cisce il principio della libertà dell'assistenza pri­vata. Va perciò rilevato che se, come è stato an­che prospettato da alcune delle parti costituite, e come sarà ancora ricordato in prosieguo, si sta­rebbe ora determinando un orientamento nel sen­so che enti aventi dette finalità, possano, dopo l'avvento della Costituzione, essere riconosciuti come persone giuridiche private, ciò non elide la rilevanza della questione di legittimità dell'art. 1 della legge del 1890. Difatti, vigendo questa leg­ge, la qualificazione pubblica di tali enti costitui­va una conseguenza necessitata dal riconosci­mento della personalità giuridica, anche se essi presentassero, per il resto, tutti i requisiti che avrebbero loro consentito di essere riconosciute come persone giuridiche private, se non fosse stata vigente la norma impugnata.

Né può essere condiviso l'assunto secondo cui, trattandosi di una istituzione riconosciuta in pre­cedenza, diverrebbe irrilevante la richiesta di ille­gittimità della norma censurata, per non essere stato impugnato, all'epoca, il decreto di ricono­scimento come persona giuridica pubblica. L'as­sunto si risolve in una evidente petizione di prin­cipio, ove si consideri che, all'epoca in cui l'ente aveva ottenuto il riconoscimento come pubblico, il relativo decreto era legittimo perché conforme alla legge allora vigente, laddove, proprio per ef­fetto della eventuale dichiarazione dì illegittimità costituzionale di questa, venendo meno il denun­ciato monopolio pubblica di questo tipo di enti, diverrebbe possibile - come appunto si auspica nella ordinanza di rimessione - accertare, nelle opportune sedi giudiziarie o amministrative, il possesso di requisiti tali che consentano loro di continuare a sussistere come persone giuridiche di diritto privato.

Ciò comunque non senza considerare, quanto al caso di specie, che proprio il decreto reale del 1909, che (analogamente a tutti i simili decreti di riconoscimento) aveva approvato il nuovo Statuto dell'ente, non contiene una espressa attribuzione della personalità giuridica di diritto pubblico, de­rivando tale qualificazione come effetto naturale del riconoscimento, e cioè come diretta conse­guenza della legge del 1890 n. 6972. Per queste ragioni la caducazione dell'art. 1 della legge stes­sa, da cui direttamente discende la qualificazione pubblica dell'ente, necessitata in base a detta leg­ge per il solo fatto che essa ha finalità di assi­stenza e beneficenza, farebbe automaticamente riemergere la possibilità di escludere il perma­nere di tale effetto, ove dovesse essere ricono­sciuto, nelle competenti sedi, che sussistano i requisiti per una qualificazione privatistica dell'ente.

D'altronde, spetta soltanto al giudice a quo sta­bilire la portata dei suoi poteri a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che, altrimenti, esso avrebbe dovuto ap­plicare. Ebbene nell'ordinanza di rimessione, co­me si è già avuto modo dì rilevare, si è affermato che, ove la norma denunciata dovesse essere di­chiarata illegittima, ciò consentirebbe di esami­nare la domanda giudiziale volta a far accertare la natura, privata dell'ente che ha promosso il giu­dizio. Questa sola circostanza è sufficiente a far disattendere la dedotta eccezione di inammissi­bilità, perché è preclusa a questa Corte la possi­bilità di contraddire il giudizio sulla rilevanza formulato dal giudice a quo, ove esso risulti, co­me nella specie, plausibile.

4. - Nel merito la questione è fondata.

Sembra opportuno premettere che la Corte è stata già investita dalla medesima questione nel giudizio definitivo con la sentenza n. 173 del 1981, nella quale il suo esame era però rimasto, per espressa affermazione in questo senso, assorbito dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616.

Tuttavia, già in tale occasione la Corte aveva avuto modo di rilevare che la legge del 1890 n. 6972, avendo disciplinato una serie di istituzioni aventi uno «spessore storico» del tutto peculiare, era ispirata a due principi fondamentali, quali il rispetto della volontà dei fondatori e i controlli giustificati dal fine pubblico dell'attività svolta in situazione di autonomia.

Questa posizione ambivalente di dette istitu­zioni è stata ancora più di recente messa in evi­denza nella sentenza n. 195 del 1987, in cui si è rilevato come il loro regime giuridico sia caratte­rizzata dall'intrecciarsi di una disciplina pubbli­cistica in funzione di controllo, con una notevole permanenza di elementi privatistici, il che confe­risce ad esse una impronta assai peculiare rispet­to agli altri enti pubblici.

In presenza di tali peculiarità devesi convenire con quella dottrina che parla di una assoluta tipi­cità di questi particolari enti pubblici, in cui con­vivono forti poteri di vigilanza e tutela pubblica con un ruolo ineliminabile e spesso decisivo della volontà dei privati, siano essi i fondatori, gli am­ministratori o la base associativa. Esse quindi sono istituzioni pubbliche che, non solo in rife­rimento alla situazione precedente alla legge del 1890, ma anche per le successive iniziative assi­stenziali, sono per lo più il prodotto del riconosci­mento di iniziative private, sia inter vivos che mortis causa.

La scelta operata dalla legge Crispi, come è stato ben messo in evidenza dalla dottrina, non fu una vera e propria pubblicizzazione del settore della beneficenza e poi (per effetto del D.P.R. n. 2841 del 1923) della assistenza, ma la creazione progressiva di strumenti statali di «beneficenza legale» e la predisposizione di forme di controllo e di disciplina uniforme, nella beneficenza di ori­gine privata.

Così ancora la dottrina, commentando il siste­ma della legge del 1890 nell'immediatezza della sua emanazione, aveva posto in evidenza come l'assunzione, da parte di dette istituzioni, delta personalità giuridica, che non poteva non essere pubblica, era finalizzata allo scopo «di mettere il Governo in grado di assicurare che la personali­tà giuridica della nuova istituzione... non solo è realmente di beneficenza... ma che inoltre contri­buisce alla soddisfazione di un interesse pubblico armonizzante con l'indirizzo generale della beneficenza».

Il rafforzamento dell'obbligo di riconoscimento come persona giuridica pubblica di ogni istituzio­ne di origine privata, finalizzata alla beneficenza, anche se strutturata in forma minima, era garan­tita dall'art. 103 della legge in parola, che sanciva la nullità delle disposizioni o convenzioni dirette a sottrarre alla tutela o alla vigilanza. delle pub­bliche autorità le istituzioni di beneficenza, non­ché successivamente dall'art. 26 del D.P.R. del 1923 n. 2841, che attribuiva al prefetto il potere di promuovere di ufficio la fondazione di nuove istituzioni. Disposizione quest'ultima che è stata esattamente indicata come ulteriore strumento volto a trasferire all'area degli enti pubblici tutte le strutture di beneficenza e di assistenza che potessero sfuggire alla pubblicizzazione.

Da ciò l'esclusione dalla possibilità che, nella area dell'assistenza e beneficenza, esistano fon­dazioni ed associazioni dotate di personalità giu­ridica privata.

5. - Gli aspetti testé evidenziati e l'esame del­le modalità di applicazione della legge Crispi nel­la sua evoluzione portano a concludere che nel tempo sono finite per essere ad essa assogget­tate non solo enti che, in quanto erogatori di ser­vizi pubblici, avrebbero potuto, aspirare a pieno titolo alla qualificazione di enti pubblici anche se non fosse stato sancito il monopolio ora messo in discussione ma pure «organizzazioni espressi­ve dell'autonomia dei privati che hanno conser­vato caratteri propri dell'organizzazione civile anche dopo la loro formale pubblicizzazione».

Una prima rottura del sistema monolitico così descritto è derivata dalla legge del 1968 n. 195 che, in una prospettiva di progressivo avvicina­mento (conclusosi nel 1978 con la legge di rifor­ma sanitaria n. 833) al sistema di sicurezza socia­le, ha sottratto alla disciplina della legge del 1890 le istituzioni sorte, soprattutto ad iniziativa di pri­vati, per l'assistenza ospedaliera.

Le istituzioni preesistenti sono state perciò as­sorbite negli enti ospedalieri, determinandosi co­sì varii effetti e cioè, da un canto, quello della impossibilità per le istituzioni aventi finalità ospe­daliere di essere riconosciute come IPAB (se nuo­ve) o di continuare a sopravvivere (se già esi­stenti) nel sistema della legge Crispi del 1890, dall'altro la possibilità per il futuro di istituire enti ospedalieri con personalità giuridica privata, perché questo settore dell'assistenza ospedalie­ra non era ormai più compresa, da quel momento, nel sistema delle IPAB.

Invece, ancorché l'art. 38, u.c., Cost., tuteli or­mai la libertà dell'assistenza privata, è rimasta immutata fino ad oggi la situazione delle istitu­zioni che, sorte per iniziativa privata, svolgono altre svariate forme di beneficenza e di assisten­za, diverse da quella ospedaliera.

Mentre per le istituzioni a carattere interregio­nale, il loro assetto è stato definito con la discipli­na dettata dagli artt. 113 e seg. del D.P.R. n. 616 del 1977, quelle a carattere regionale e infrare­gionale sono tuttora assoggettate al regime della legge del 1890, anche se, nonostante la loro for­male pubblicizzazione, necessitata dalla previsio­ne generalizzante dell'art. 1 di detta legge, esse abbiano requisiti tali da poter continuare ad esi­stere come persone giuridiche private. E ciò per­ché, da un lato, i fini di esse non sono per loro natura esclusivi delle strutture pubbliche, e dall'altro perché lo Stato e gli altri enti pubblici, ove ritengano di dover realizzare certi fini di assisten­za e beneficenza, ben potrebbero ormai farlo at­traverso proprie strutture, come è già in larga parte avvenuto.

Sono, quindi, venuti ormai meno i presupposti che avevano presieduto, all'epoca della legge Crispi, al generalizzato regime di pubblicizzazio­ne, oggi non più aderente alla mutata situazione dei tempi ed alla evoluzione degli apparati pubbli­ci, per l'avvenuta assunzione diretta da parte di questi di certe categorie di interessi, la cui rea­lizzazione era invece assicurata, nel sistema del­la legge del 1890, quasi esclusivamente dalla ini­ziativa dei privati, che veniva poi assoggettata al controllo pubblico per costituire un sistema di «beneficenza legale», che altrimenti sarebbe mancata del tutto.

Una volta mutata tale situazione, non possono armai non essere assecondate le aspirazioni di quelle figure soggettive sorte nell'ambito della autonomia privata, di vedersi riconosciuta l'ori­ginaria natura.

Questa esigenza è imposta dal principio plura­listico che ispira nel suo complesso la Costitu­zione repubblicana e che, nel campo della assi­stenza, è garantito, quanto alle iniziative private, dall'ultimo comma dell'art. 38, rispetto al quale è divenuto ormai incompatibile il monopolio pub­blico delle istituzioni relative.

6. - Le considerazioni che precedono denota­no, perciò, il contrasto con la norma costituziona­le citata, dell'art. 1 della legge del 1890, che in­vece continua ad esigere - pur essendo supera­ta la situazione sociale e l'assetto delle strutture dello Stato che avevano ispirato la legge stes­sa - un sistema di pubblicizzazione generaliz­zato, esteso a tutte le iniziative originate dall'au­tonomia privata.

Queste perciò ben potrebbero essere restituite all'ambito privato ove fosse constatata la pre­senza di requisiti propri di una persona giuridica privata.

7. - Per quel che riguarda gli enti di nuova istituzione, non può non prendersi atto di quanto già riferito in precedenza, e che è stato posto in luce sia in dottrina che negli scritti difensivi, circa il già avvenuto superamento del regime di obbligatoria pubblicizzazione proprio della legge Crispi.

Questo superamento manifestatosi più di re­cente sia in sede amministrativa, sia in sede di controllo, sia in sede giurisdizionale, afferma il principio che enti di nuova istituzione, aventi fi­nalità di assistenza e di beneficenza, possano essere riconosciuti come persone giuridiche pri­vate: un principio che è la diretta conseguenza del precetto costituzionale dell'art. 38, u.c., Cost., il quale, affermando la libertà dell'assistenza pri­vata e conformando l'intero sistema costituzio­nale dell'assistenza ai principi pluralistici, sanci­sce il diritto dei privati di istituire liberamente enti di assistenza e, conseguenzialmente, quello di vedersi riconosciuta, per tali enti, una qualifica­zione giuridica conforme alla propria effettiva na­tura.

Per effetto della Costituzione, si è perciò già realizzata un'inversione di tendenza, nel senso del superamento del principio di pubblicizzazione generalizzata per realizzare quel sistema di «plu­ralismo delle istituzioni in relazione alla possibi­lità di pluralismo nelle istituzioni», auspicato dal­la già richiamata sentenza n. 173 del 1981, che le interpretazioni e le prassi applicative prima ri­cordate, hanno puntualmente colto.

Ciò basta per esimere questa Corte dal dover dichiarare l'illegittimità costituzionale della nor­ma impugnata con riferimento alle nuove istitu­zioni di assistenza, relativamente alle quali, in ba­se all'indicata inversione di tendenza, è già pos­sibile il loro riconoscimento come enti privati.

Per 1e istituzioni preesistenti, invece, la cui pubblicizzazione non sia aderente alle caratteri­stiche dell'ente, la loro riprivatizzazione, garanti­ta dall'art. 38, u.c., Cost. è possibile solo a segui­to della dichiarazione di illegittimità della norma denunciata, che afferma l'opposto principio.

8. - La Corte non può comunque non sottoli­neare come, nonostante il lungo tempo trascorso, sia rimasto irrealizzato l'auspicio che, nella già richiamata sentenza n. 173 del 1981, era stato for­mulato, sia pure in forma indiretta, circa l'esigen­za di un intervento legislativo di carattere gene­rale che prendesse atto del superamento del re­gime della legge n. 6972 del 1890. Di un interven­to cioè che avrebbe dovuto riconsiderare i prin­cipi fondamentali che avevano ispirato, all'epoca, il regime di pubblicizzazione generalizzato nel campo della assistenza e riflettere sulla pluralità di forme e di modi in cui l'attività assistenziale viene prestata, differenze queste che non erano state prese in considerazione dalla legge Crispi che aveva perseguito l'opposto disegno.

Essendo mancato fino ad oggi un intervento or­ganico, non può ulteriormente rimanere disattesa l'esigenza di adeguamento del sistema al princi­pio costituzionale di libertà dell'assistenza priva­ta. Né potrebbe costituire remora alla realizza­zione di tale esigenza la considerazione della mancanza di una espressa disciplina alternativa che, per effetto della dichiarazione di illegittimi­tà costituzionale, possa consentire in concreto il rientro delle istituzioni preesistenti, che ne pre­sentino i requisiti, nella categoria dei soggetti privati, cui per loro natura sarebbero fin dalle origini dovute appartenere, ove non fosse diver­samente stato imposto dalla pubblicizzazione ge­neralizzatrice della legge del 1890.

Al riguardo sembra sufficiente considerare che, anche in mancanza di una apposita normativa che disciplini le ipotesi ed i procedimenti per l'accer­tamento della natura privata delle IPAB, la possi­bilità di realizzare in concreto le finalità auspicate dall'ordinanza di rimessione sarebbero offerte, non solo perseguendo la via dell'accertamento giudiziale, come nel caso oggetto del giudizio a quo, ma anche la via della trasformazione in via amministrativa, sulla base dell'esercizio dei po­teri di cui sono titolari sia l'amministrazione sta­tale che quella regionale in tema dì riconosci­mento, trasformazione ed estinzione delle perso­ne giuridiche private.

Al riguardo potrebbe costituire utile punto di riferimento, in quanto esprime principi generali insiti nell'ordinamento, l'art. 17 del D.P.R. 19 giu­gno 1979 n. 348 (recante norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna) il quale indica una serie di caratteristiche e di presupposti co­me idonei a consentire la trasformazione in per­sone giuridiche private, di enti già in precedenza appartenenti alla categoria della IPAB, sottraen­doli così alla soppressione prevista per le istitu­zioni aventi natura di enti pubblici veri e propri.

Altro esempio normativo da assumere in pro­posito come punto di riferimento, in quanto anche esso espressione di principi generali, può essere considerato l'art. 30 della legge regionale sicilia­na n. 22 del 1986 il quale prevede che «le istitu­zioni in atto qualificate quali IPAB per atto posi­tivo di riconoscimento o per possesso di Stato, che, avuto riguardo alle disposizioni della legge fondamentale sulle opere pie 17 luglio 1890 n. 6972 e successive modifiche, agli atti di fonda­zione ed agli statuti delle iscrizioni medesime, nonché ai criteri selettivi da determ-inare con le procedure di cui al successivo comma, per preva­lenza di elementi essenziali sono classificabili quali enti privati, sono incluse dal Presidente del­la Regione, su proposta dell'Assessore regionale per gli enti locali, in apposito elenco ai fini del riconoscimento ai sensi dell'art. 12 del Codice civile».

Gli esempi normativi richiamati, a parte le in­dicazioni procedimentali, che potrebbero valere solo per le Regioni cui esse si riferiscono, costi­tuiscono per il resto un significativo superamen­to della legge n. 6872 del 1890, con l'indicazione di principi e criteri che, ove dovesse ancora man­care una apposita normativa che disciplini com­piutamente la materia dell'assistenza, in confor­mità ai principi costituzionali, possono essere considerati utili punti di riferimento, per far con­seguire nelle competenti sedi giudiziarie o am­ministrative, la qualificazione privatistica a quelle IPAB che dovessero mostrarsi interessate a tale diverso riconoscimento, fino ad oggi impedito dalla vigenza della norma di cui viene dichiarata l'illegittimità costituzionale.

 

Per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 («Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficen­za») nella parte in cui non prevede che le IPAB regionali e infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano tuttora i requisiti di un'istituzione privata.

 

 

 

 

(1) Sentenza n. 396, decisa il 24 marzo 1988, depositata in Cancelleria il 7 aprile 1988.

 

 

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