Prospettive assistenziali, n. 83, luglio-settembre 1988

 

 

PROCESSO AI SERVIZI O PROCESSO ALLA STAMPA?

MARIENA SCASSELLATI GALETTI (*)

 

 

La spinta per riflettere ulteriormente su questa tavola rotonda me l'ha data un titolo della «Stampa» di Torino dello scorso luglio «Si può morire di USL» (di USL con una sola S - cioè solo sanitaria! infatti, l'assistenza e i servizi sociali non si nominano mai, anche perché in poche Regioni le USSL hanno due S!) (2).

È stata una spinta forte che m'accompagna tuttora, mentre sono qui a rappresentare da sola chi opera mentre chi informa è qui con più voci!

Certo, quella degli operatori è una grossa componente e non va dimenticata pensando ai servizi ed alle risposte per la gente, per la per­sona, per far cambiamento, per far star meglio chi sta peggio.

Perché certo - va subito detto - non tutti gli operatori sono «nemici del popolo» come vengo­no spesso descritti, rispetto al «volontariato» sempre buono e al «privato» sempre bello ed ef­ficiente; infatti molti operatori hanno dentro la «collera dei poveri», di chi non ha casa, né reddi­to sufficiente, di chi è in difficoltà e - pertanto - non ha voce, di chi è di fatto colpito dalle scelte della legge finanziaria annuale e non può prote­stare perché non ha potere: è anziano non auto­sufficiente, è portatore di handicap, è in situazio­ne di disagio.

La riforma sanitaria, che in alcune Regioni è stata seguita anche da una legge di riordino per i servizi socio-assistenziali (e in tali Regioni allo­ra non USL ma USSL), ha voluto promuovere un altro concetto di salute; un concetto positivo, che non significa soltanto non essere malati ma «star meglio possibile», avere «armonia di rela­zioni», avere una qualità di vita migliore.

Peccato però! Alla riforma di fatto non sono state date le gambe, non si sono dati gli stru­menti reali, per far soprattutto prevenzione, per incidere sulle cause, per far formazione al fine di avviare in concreto un'altra metodologia di lavo­ro, che è lavoro in équipe tra diverse professio­nalità, che è rete di risorse integrate ed artico­late, che è distretto di base, che è cambiamento affidato di fatto alla professionalità degli opera­tori.

La riforma, che non si è voluta attuare, oggi la si vuole già distruggere.

Certo si dovrebbe riformare la riforma, anche noi operatori lo pensiamo, ma nel senso di evi­tare che l'ospedale ingoi tutte le risposte perché le risorse servono anche sul territorio, per far prevenzione sul territorio dove c'è anche l'ospe­dale ma non solo; non sono infatti né l'ospedale né la farmacia la prima trincea per far salute, quella salute che ci interessa.

Il territorio, dove si è voluto promuovere l'al­ternativa, per chi ha voluto farlo, è di fatto venu­to ad assumere la connotazione di territorio-labo­ratorio di ricerca e di cultura sulla salute.

L'USSL, articolata in distretti di base, ha signi­ficato attrezzare il territorio con una rete inte­grata di risposte sanitarie e socio-assistenziali, e non solo con una rete di opportunità, per tutti ma soprattutto per chi è più in difficoltà, con l'obiettivo di promuovere la massima autonomia possibile mettendo al centro dell'attenzione la persona con la sua unicità e complessità. man­tenendola il più possibile nel suo naturale am­biente.

E l'attenzione alla persona è entrata in noi or­mai come operatori; è un concetto laico che ci ha radicato dentro» il «territorio che è come un giardino, con allori e cipressi»; e l'obiettivo è su­perare nell'intervento la dimensione individuale verso la presa in carico da parte della comunità locale di chi ha problemi, di chi non ha risorse personali, di chi, cioè, «non sta bene»; come per esempio quel bambino che dice «sto bene se i miei non litigano».

E la ricerca nella quotidianità, vicino alla gen­te, osservando e leggendo la realtà attraverso «i servizi, finestre sul mondo» dà a chi opera la forza dell'utopia, per fare quello che non è proi­bito e quindi è consentito, per perseguire quelle finalità che il DPR 616 e la legge 833 avevano for­malizzato ed oggi sembrano rimaste illusione di pochi.

Di pochi o di tanti? Non so quale potrebbe es­sere la via. La fattibilità è ormai dimostrata an­che se si dispone di poche risorse, certo bisogna volerlo; bisogna voler essere, sia a livello tecni­co che politico, dei «decisori consapevoli», tito­lari di un potere da gestire come servizio - il potere per il potere non ci interessa - non ser­ve: «fa morire di USL».

L'esperienza ce lo ha dimostrato:

la legge 184 sull'affidamento e l'adozione mi­norile, le poche leggi regionali di riordino dell'a­rea socio-assistenziale (poche e precarie perché oggi le si sta distruggendo!), la riforma carcera­ria, la legge 180 hanno dato dignità a chi non era persona, a chi era: «oggetto» di diritto, a chi ave­va reale volontà di recupero.

Perché non se ne parla? Perché non si scrive vivere di USSL e quando dico USSL penso al set­tore pubblico, alla parte di un tutto più vasto, dove una programmazione corretta ed adeguata può - se c'è - far miracoli, risuscitare, far sco­prire delle persone, non dei numeri, non delle cose, delle persone con nome e cognome.

Ed allora perché la stampa - con cui si vor­rebbe «lavorare - con» per promuovere salute, per far politica contro l'emarginazione, per co­gliere tutte le opportunità - non parla anche di ciò che va bene, di quanto si è realizzato dove si so­no volute attuare le riforme?

Perché parla del 3% che non è rientrato in car­cere con la sperimentazione delle nuove norme e non del 97% che ha rispettato l'impegno?

Perché si schiera sempre dalla parte dei geni­tori, mentre ciò che conta è «l'interesse preva­lente» del minore per cui c'è infatti un tribunale che è appunto «per» i minorenni e non «dei» mi­norenni? Perché racconta sul giornale di chi è figlio quel minore procurando al bimbo adottato un danno incalcolabile? Perché su un giornale per ragazzi racconta con nome e cognome la sto­ria vera di Giovannino?

Perché i giornali quest'estate scrivevano tanto e a lungo degli anziani (dei nonni - anzi ) abbandonati d'estate in ospedale, nonni «più pe­santi» d'estate per chi li ha vicino, senza analiz­zare le cause, con un'analisi politica (non parti­tica) senza promuovere una ricerca di alternati­ve che esistono, che sono reali certo - se le si vuole a livello politico?

Dove si voleva arrivare sul «problema nonni» con giornali e TV? a «far adottare un nonno»? Perché non si informa sui perché e per come? sul come e quanto mancano mezzi dove si lavora, e si vorrebbe lavorare di più, verso la prevenzio­ne del disagio, lavoro che fa individuare strumen­ti ma chiede anche, certo, risposte concrete e ri­sorse?

Perché la stampa non dice tutto, non spiega, non fa cultura nuova sulla salute? Perché non va a fondo, non ricerca, si accontenta di notizie spesso approssimative, prese per la strada, sen­za tener conto dei contesto?

La persona non esiste più, è già classificata colpevole in quanto è drogata; matta, ladra...; i titoli sono questi: «sieropositivo, malato di men­te, maniaco sessuale». .

Ma la stampa: può lavorare con la gente; con gli operatori motivati per «far più salute»? Può «produrre per vendere» facendo, ad esem­pio, anche promozione dell'alternativa al ricove­ro senza più parlare di ospizio, di brefotrofio (come fa ancora l'ISTAT), di istituto?

La stampa conosce l'assistenza domiciliare socio-assistenziale e sanitaria integrata, l'affida­mento familiare, il foyer invernale per gli anziani in montagna, la rete integrata di risposte sul ter­ritorio che per gli anziani ad esempio potrebbe voler dire, oltre al foyer ed all'assistenza domi­ciliare socio-assistenziale e sanitaria integrata, pilastro dell'alternativa, anche:

- assistenza economica;

- ­riabilitazione (anche domiciliare);

- abbattimento delle barriere architettoni­che, casa adeguata;

- mensa, lavanderia;

- attività motorie e soggiorni di vacanza «in­tegrati»;

- tempo libero «non pieno di vuoto» per chi è in situazione di isolamento;

- comunità terapeutica per gli utenti del ser­vizio di salute mentale;

- rete di trasporti.

La stampa può fornire una informazione chiara e accessibile? Può parlare delle cose che funzio­nano e sono efficaci per promuovere migliori condizioni di mantenimento del naturale habitat? Ma «il padrone» del giornale è d'accordo? Come incide la sua scelta politica sulle linee della «sua» stampa? Come può la professio­nalità del giornalista non essere condizio­nata dalle scelte della testata? Può voler pro­muovere la lotta al disagio se ostano indirizzi di restaurazione? Perché scrive «gli assistiti co­stretti a cambiare il medico», «i mutuati perde­ranno il medico», o «i nuovi orfani della sanità» quando è chiaro che la riduzione del massimale mira ad aumentare la qualità del servizio?

Perché la stampa non si muove insieme agli operatori affinché:

- non ci siano più sindaci che chiedono: «gli handicappati sono contagiosi?»;

- non ci siano più presidi che dicono: «i figli degli operai debbono fare gli operai», op­pure «visto che non ci sono i professori che ci siano almeno le tapparelle!»;

- ministri di culto che affermano ai contadi­ni desiderosi di pioggia: «non piove perché siete cattivi».

Allora chi compra il giornale che garanzie ha di corretta informazione, come può conoscere le cose?

Le informazioni sui servizi di base, quelli di tutti i giorni chi le dà? Chi le dà, conosce anche «il contorno», i condizionamenti, le carenze di strumenti che caratterizzano l'operatività di chi vorrebbe far star meglio chi sta peggio?

Ma allora - sbagliano i giornalisti o i ministri? Che «padrone» vuole i managers per la «cara» sanità?

Certo sono brutte le notizie che vengono da Roma perché sono fatti concreti che si traduco­no «in altra pioggia sul bagnato!».

E gli operatori spesso sono demotivati: come garantire infatti risposte corrette, efficaci, effi­cienti, accessibili?

Peccato perdere delle opportunità!

E i giornalisti penso ne avrebbero molte, par­tendo anche dalla cronaca per «far notizia» ma anche analisi, riforma, ponendosi dalla parte dei più deboli - ma i giornalisti possono farlo?

La lottizzazione della carta stampata, le leggi del mercato, lo consentono? Ai cittadini si dà, facendola anche pagare, quale verità? Ma la stampa può parlare veramente di chi ha più biso­gno e non ha voce né altri mezzi per tutelare i propri interessi vitali?

La stampa è veramente libera, quando i suoi organi sono sempre più concentrati nelle mani di pochi e quei pochi sono ricchi e potenti? La stampa e gli altri mezzi di informazione tutele­ranno sempre più gli interessi di coloro per i quali lo sviluppo e il progresso consistono nel produrre e nel vendere e nell'aumentare i profit­ti e produrre di più, in un processo infernale, che dimentica l'uomo come «persona» e tiene conto solo dell'uomo che è in grado, da un lato, di pro­durre e, d'altro lato, di consumare. Ed allora, in questo processo non ci sono risorse per i servizi In favore della persona, quindi i servizi sono «cattivi», inefficienti e bisogna comprimere nello stesso tempo, ridurli, privarli ancora di risorse, privarli delle riforme che non si volevano e che non si è voluto fossero veramente attuate. Ed allora i servizi bisogna privatizzarli, perché fun­zionino meglio, in favore di chi può pagarli ed arricchendo di più chi, in quanto è «furbo», è già ricco. Ed ancora, mancando i servizi e i relativi operatori, non ci saranno neppure più le fastidio­se voci in favore dei senza voce e dei senza po­tere e cioè di coloro che elettoralmente ed eco­nomicamente non servono a nessuno: tacciano, dunque, e se si ribellano in qualche caso con la violenza o se comunque disturbano la quiete dei più, ci sono le carceri, i manicomi, gli ospizi, i brefotrofi ecc.; e se non ci sono più o non sono abbastanza, se ne creano altri, perché quelli era­no servizi efficienti, «nei bei tempi andati», quan­do «si stava peggio, ma si stava meglio»; ma «chi» stava meglio? La legge è uguale per tutti? Si dà ad ognuno il suo o a tutti lo stesso?

E le istituzioni informano? Che informazioni passano? Quelle reali o quelle mediate da parti­ti, correnti, gruppi? E l'operatore può farlo? Può informare senza violare i segreti d'ufficio? Sen­za ledere i diritti del tossicodipendente che vor­rebbe inserire nella comunità locale? Perché la stampa nel parlare dei morti per droga, non trat­ta anche dell'inesistenza dei fondi per progetta­re ed attuare il progetto giovani sul territorio? Perché non parla dei «perché» che stanno a mon­te? Della nuova metodologia di lavoro che quali­fica l'intervento sul territorio spesso ormai pro­grammato, attuato, verificato e valutato per obiettivi, con un progetto ad hoc, ed un piano di lavoro spesso pluridisciplinare che ricerca an­che gli indicatori con un intervento non più per compiti e/o per prestazioni ma appunto per obiettivi nell'ambito di più vaste finalità?

I servizi sono in difficoltà certo; ma lo si sa che il campanilismo, il clientelismo, le risposte con il ni, il non lasciar «lavorare» gli operatori. spesso oggi il CO.RE.CO., non fanno bene all'as­sociazione dei Comuni, alla risposta ai bisogni reali delle persone?

Certo, credo, si debba dire senza paura, gli obiettivi sono cambiati, il potere serve per il servizio o per qualcos'altro? E se i «decisori» non danno strumenti e risposte, come possono gli operatori operare con scienza e coscienza, con la massima attenzione alla persona per pro­muoverla, per farla uscire dal circuito assisten­ziale, per darle dignità? Può la carta stampata di­re anche dei successi della ricerca di risposte alternative, divenendo così, con il recupero dell'esperienza concreta, strumento di promozione e di sostegno, anziché di rallentamento, può es­sere strumento di speranza di futuro per chi «è uscito» sul territorio per operare «ripartendo dagli ultimi»?

Ma non essere scandalistici fa vendere? Scan­dalo o cultura? Crisi o sviluppo?

Come si può perseguire/raggiungere l'equili­brio tra mercato e informazione corretta, con il massimo rispetto dell'onor del vero? Riforma sempre uguale a caos? Riforma sempre uguale a ospedale? Ospedale sempre uguale a ospedale di Roma, cioè a caos?

Ed allora, concludendo, la mia utopia vorrebbe che la stampa, assieme ad operatori ed ammini­stratori pubblici, facessero una campagna mas­siccia su una domanda - che pongo a nome de­gli operatori motivati al cambiamento, pensando soprattutto alle risorse per intervenire sul tema del disagio giovanile - : «quanto costerà poi (domani o dopo domani) non aver fatto oggi?».

È una domanda seria che da Aosta potrebbe andare a Roma dove dovrebbero ricordare che la riforma non è da riformare, è da avviare. Infatti colpa dei giornalisti o dei ministri?

Una risposta, una politica diversa ci servireb­be magari ad esempio anche per gli anziani, per «farli morire da vivi», per farli vivere di USSL.

Infatti oggi, volendolo, applicando le leggi che già ci sono - si può non far più morire di mani­comio, di ospizio, di brefotrofio, di mutua, si può far vivere di USSL.

Come operatori di territorio vorremmo avere risposta alle domande poste per meglio capire, in questa sosta di riflessione che è stasera in questo confronto dove dobbiamo arricchirci in­dividualmente con le nostre esperienze, per non perdere un'opportunità di integrazione di risor­se, di lavoro in comune per la lotta alla nuova povertà, per i servizi sociali per tutti e migliori. Partiamo dalle opportunità, non dalle difficoltà.

 

 

(1) Coordinatore dei servizi socio-assistenziali della USSL 43 - Comunità montana Val Pellice, Torino. Relazio­ne tenuta alla Tavola rotonda «Processo ai servizi o pro­cesso alla stampa?» svoltasi ad Aosta l'8 ottobre 1987 nell'ambito del convegno «Politiche e interventi sul terri­torio: esperienze a confronto».

(2) USSL - Unità socio-sanitaria locale per l'esercizio integrato delle funzioni sanitarie e socio-assistenziali (n.d.r.).

 

 

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