Prospettive assistenziali, n. 83, luglio-settembre 1988

 

 

Notiziario dell'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie

 

 

INDAGINE SULL'IMMAGINE DELL'INFANZIA ABBANDONATA E DELL'ADOZIONE

 

La sezione di Trieste dell'ANFAA, in occasione del convegno, sul tema «La difficile definizione dello stato d'abbandono» tenutosi a Trieste nel novembre '87, ha esposto i risultati di un'indagine sull'immagine dell'infanzia abbandonata affi­data alla SWG e condotta su un campione rap­presentativo degli abitanti di Trieste, selezionato per quote, di 1000 soggetti.

Le variabili di cui si è tenuto conto sono state sesso, età, scolarità e professione (per queste ultime due è stata accettata la suddivisione im­posta dalla casualità adottata nella ricerca dei soggetti campione). L'alto numero di ultrases­santenni presenti in esso trova corrispondenza nella tipicità della situazione della città, carat­terizzata da un fortissimo cala demografico e da una notevole presenza di anziani. Tale fatto, per inciso, tende a focalizzare l'attenzione dell'as­sistenza sul problema anziani, mentre quello dei minori corre il rischio di assumere minore im­portanza.

Che cosa ci ha spinto a tentare l'esperienza, -­per noi nuova, di questo tipo di indagine? Non la riteniamo certo sostitutiva di altri tipi di rilevazione ufficiale che diano il quadro delle dimen­sioni del fenomeno dell'abbandono e del ricorso all'istituzionalizzazione (quella voluta dalla Re­gione Friuli-Venezia Giulia riporta la situazione del 1982 e non è stata mai aggiornata né inte­grata; inoltre ad essa non è mai stata data pub­blicità significativa).

L'abbiamo voluta per verificare un'ipotesi, una certezza e un dubbio.

L'ipotesi: è vero quanto andiamo dicendo da anni, cioè che dei problemi di cui ci occupiamo la gente, mediamente, sa molto poco?

La certezza: la famiglia è il luogo privilegiato per una crescita equilibrata del bambino. Questa indicazione è entrata nella mentalità comune? Fino a che punto?

Il dubbio: esistono ancora dei pregiudizi rela­tivi all'adozione; in particolare sopravvive ancora quello che fu uno dei più grossi ostacoli iniziali alla sua diffusione, cioè il mito del «legame del sangue»?

 

L'informazione

A Trieste, sostanzialmente, 4 persone su 10 non sanno individuare i soggetti istituzionalmen­te incaricati di occuparsi dei bambini in condi­zioni di abbandono.

Solo una quota di poco superiore al 20% degli intervistati individua nella Provincia e nel Tribu­nale i soggetti che devono farsi carico dell'assi­stenza e della soluzione dei problemi dei minori.

Un cittadino su tre non sa indicare chi effetti­vamente se ne occupi: un ruolo prioritario, viene assegnato agli istituti religiosi e privati, seguiti dalla Provincia e, con un certo distacco, dalle fa­miglie adottive. Se però consideriamo che circa 4 intervistati su 10 sanno che a Trieste esistono degli istituti, e che la quota scende al 20% in relazione all'esistenza di istituti in ambita re­gionale, ci accorgiamo che, in realtà, la cono­scenza è frammentata; essa si affievolisce ulte­riormente fra i soggetti con più basso profilo scolare e fra i giovani. Il grado di disinformazio­ne è confermato dall'alta percentuale (66%) di soggetti che affermano di non aver mai conosciu­to bambini in stato, di abbandono. Tale quota sale al 75% tra i giovani con meno di 25 anni. Questo dato, tuttavia, potrebbe essere spiegato con il calo oggettivo del fenomeno in questi ultimi anni.

Rispetto alla domanda che chiede una valuta­zione quantitativa dei minori abbandonati (a par­te la complessità del termine abbandono) è in­teressante sia la sottovalutazione del fenomeno (per il 25,1% sono meno di 20 i bambini abban­donati, quindi il problema ha dimensioni irrile­vanti numericamente) che la sopravalutazione (il 4,1% pensa che siano più di 500). In realtà, secondo dati del 1986 i minori assistiti dalla Pro­vincia sono circa 900 di cui 102 in istituto e 27 in affidamento; ci sono poi minori collocati in istituto dai parenti (circa 40).

Il giudizio sugli enti che emerge dalle risposte all'ultima domanda è pesantemente negativo: solo il 4,9% degli intervistati ritiene che essi facciano molto per la tutela dei minori abban­donati. Questa valutazione, se si accompagna ai dati relativi all'informazione sulle competenze istituzionali degli enti, può essere inquadrata in una sfiducia di fondo sulle capacità operative del­le istituzioni in genere, atteggiamento abbastanza diffuso in questa città. Al di là di questo tipo di considerazione, è confermata la nostra ipotesi iniziale, e cioè che su questo tipo di problema l'informazione corretta e precisa sia molto caren­te. Che ciò si sia verificato anche per l'incrocio delle competenze assistenziali (ancor oggi si parla di ex ONMI, ex ENAOLI ecc.) non cambia la sostanziale esigenza di attivare forme nuove e incisive di pubblicizzazione.

 

Presupposti e soluzioni all'abbandono

Tra i fattori considerati a rischio per la cresci­ta equilibrata del bambino, quelli legati alla rot­tura e all'incrinatura dell'unità familiare sono prevalenti. Di per sé la non coesione familiare viene recepita come il più elevato fattore di rischio.

Molto significativo il fatto che il 15,3% degli intervistati veda anche nell'istituto o collegio un fattore in grado di influenzare negativamente la crescita del bambino; del resto solo l'1,7% vede in esso una soluzione all'abbandono. Il 53,5% ri­tiene inoltre che un bambino cresciuto in istituto avrà dei problemi da grande (cosa che non si ve­rificherà se adottato in tenera età: sarà infatti come tutti gli altri per l'82,0%). La nostra certez­za, quindi, la stessa contenuta nella legge sulla adozione e l'affidamento e cioè che ogni minore ha diritto a vivere nella propria famiglia, trova riscontro nell'opinione pubblica.

L'immagine dell'istituto come luogo adatto al­la crescita è profondamente mutata nella men­talità, e si tratta di una constatazione importante, risultata del lavoro di molti di questi anni.

 

Le forme di pregiudizio sull'adozione

A conferma di quanto ci sia ancora di contrad­dittorio nel modo di pensare comune, il nostro dubbio relativo a possibili pregiudizi persistenti intorno all'adozione è stato, in parte, confermato. Infatti solo 4 persone su 10 affermano che tra genitori adottivi e bambino adottato possa crear­si un legame del tutto analogo a quello esistente tra genitori e figli procreati. Circa il 20% si pone su una posizione di «ragionevole» dubbio. Come mai? Il vecchio discorso dei legami di sangue, con tutte le implicazioni a livello personale che esso comporta, sembra avere un notevole livello di persistenza (64,1%). La domanda successiva vuole andare a un'ulteriore verifica relativa alla trasmissione genetica di tratti prevalenti del ca­rattere: ben il 75,3% è d'accordo. A titolo esem­plificativo valga l'osservazione ricorrente regi­strata a margine delle risposte affermative: «con la genetica non si scherza; è una cosa seria!».

Per spiegare queste posizioni non possiamo dimenticare le ricadute in termini equivoci di certe dissertazioni psicologiche divulgative, con i discorsi su indole e carattere e così via, nonché il frequentissimo ricorrere di frasi come «è mite, aggressivo, generoso come suo padre o sua madre».

Non possiamo dire che la constatazione di questo tipo di pregiudizi ci colga dì sorpresa; basti pensare che fino a non molti anni fa nelle sentenze dei tribunali si menzionava ancora la priorità del legame del sangue sui diritti del mi­nore. Tuttavia questo fattore non incide in modo decisivo sulla disponibilità all'adozione: infatti alla domanda finale: «Ha mai pensato di adot­tare un bambino?», risponde affermativamente il 35% degli intervistati. Si tratta di una percen­tuale che, a nostro giudizio, conferma l'esisten­za di un alto potenziale di sensibilità e maturità rispetto al tema proposto, specie se letta in pa­rallelo con le risposte date ad altre domande, sebbene, vi sia, contemporaneamente, il dato dell'«ignoranza» del contesto socio-istituziona­le in cui il fenomeno dei minori abbandonati si colloca. Questi due dati in contraddizione fanno rilevare che, in assenza di una continuata stra­tegia comunicativa e di tematizzazione in cui il ruolo dei mass-media è decisivo, c'è il rischio di un graduale processo di desensibilizzazione di aree cospicue dell'opinione pubblica e quindi di una stagnazione o di un riflusso su certi temi che sarebbe molto pericoloso dare per scontati. Il rischio di un calo di tensione sui problemi dei minori in abbandono o comunque in situazioni di difficoltà va sempre tenuto presente, e con esso il rischio che, a fronte di una riduzione numerica provocata anche dal calo demografico, la situa­zione dei bambini in abbandono ricoverati negli istituti, in un certo senso «passi di moda».

SILVIA CASSANO

 

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