Prospettive assistenziali, n. 82, aprile-giugno 1988

 

 

ANCHE LA FAMIGLIA ADOTTIVA È NATURALE

MARIO TORTELLO

 

 

Ho letto con interesse l'intervento di Massimo Camiolo, giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Milano, pubblicato a puntate su Prospettive assistenziali (1). L'autore ha preso in esame un gruppo di adolescenti adottati (at­traverso l'adozione internazionale). di età com­presa tra i 14 ed i 20 anni, i quali «hanno fornito alcuni spunti di riflessione interessanti» circa gli aspetti psicologici del periodo adolescen­ziale.

Si tratta di un tema importante, anche per la carenza di ricerche a questo riguardo. Tuttavia, sono rimasto particolarmente sorpreso da alcune espressioni e da alcuni passaggi dell'articolo in questione, che vorrei qui sinteticamente richia­mare.

1. L'autore, riferendosi al nucleo d'origine de­gli adolescenti adottati, utilizza sempre il termi­ne: «famiglia naturale». Forse che la famiglia adottiva è una «famiglia innaturale»? Credo che anche il linguaggio abbia la sua importanza Qua­le messaggio passa, ad esempio, attraverso il ti­tolo d'un giornale che chiama «figliastra» la figlia adottiva della moglie di Sackarov? Oppure: perché, nonostante le innovazioni del codice ci­vile, c'è chi continua a parlare di «figlio illegitti­mo», invece di dire «nato fuori dal matrimonio» (se è il caso di precisarlo).

Nel caso specifico, preferirei, dunque, parlare di «famiglia d'origine» e «famiglia adottiva», evitando innaturali (queste sì) contrapposizioni.

2. Non si tratta, a mio avviso, di un problema formale, ma sostanziale. Tant'è che, più avanti nell'articolo di M. Camiolo, si parla di «figlio na­turale» per indicare quello procreato dalla coppia stessa e di «figlio adottivo». E, ancora: di «veri genitori» per indicare il nucleo familiare d'origi­ne. Forse che la filiazione adottiva è innaturale e i genitori adottivi sono «falsi»?

Credo che la maternità e la paternità non pos­sono essere identificate con la sola procreazio­ne fisiologica. L'affetto, le cure educative quoti­diane e costanti rendono genitori in pienezza. Non il sangue (2).

C'é la filiazione che si basa sulla «generazio­ne» fisiologica. Riguarda la maggioranza delle persone. Ma c'è, anche, la filiazione adottiva che va considerata a pari livello, a pari dignità. Tale modo di intendere la paternità e la maternità de­ve diventare patrimonio di tutti; innanzitutto dei coniugi che aspirano ad adottare; perché condi­ziona certamente il futuro del bambino adottivo.

3. Non condivido, infine, il pensiero dell'autore quando sostiene che «il figlio adottivo è sog­getto a rischio» e che il nucleo familiare resosi disponibile all'accoglienza può trasformarsi in un «nucleo a rischio» per il solo fatto di aver adot­tato un minore. Credo si possa a ragione dire che il bambino può essere un soggetto «a ri­schio» perché ha avuto carenze nei primi anni di vita; ma non - sic et simpliciter - perché è «adottivo».

 

La replica di Camiolo

Alle mie osservazioni su esposte, Camiolo ha così risposto:

«Pur non essendo uno studioso di semiotica, concordo con lei sull'importanza dell'uso appro­priato delle parole e sul rispetto delle relazioni tra significato e significante.

«Chiarito questo, desidero entrare nel merito delle rilevazioni da lei cortesemente fatte. Aimè, quando utilizzo il termine «famiglia naturale» intendo proprio specificare il nucleo familiare dal quale proviene «naturalmente» il minore, cioè quella situazione in cui, dopo una serie di opera­zioni «estremamente naturali», viene concepito un bambino, tenuto nella pancia per parecchi me­si, partorito e...

«Insomma, la famiglia naturale é quella che ha messo in atto la vita, fisica e psichica, del bambino.

«Giustamente lei fa notare che si potrebbe utilizzare anche l'espressione famiglia d'origine, ma, pur avendolo fatto, considero che entrambi i termini abbiano dignità, nel senso che li alterno per evitare ridondanze e ripetizioni nel testo.

«Questo significa forse che con il termine fa­miglia adottiva intendo necessariamente intro­durre un concetto di innaturalità? Potremmo di­squisire a lungo se effettivamente ciò che non è naturale diventi automaticamente innaturale, ma, risparmiando entrambi da tale sofferenza, prefe­risco precisare che forse, più semplicemente, intendo connotare con i differenti termini due modi profondamente diversi di diventare genitori.

«Credo che stia in ognuno di noi dare un va­lore a questa diversità; da parte mia non ho as­solutamente espresso una preferenza o un giu­dizio di merito, bensì sono consapevole della loro differenza.

«Questo discorso si può ricollegare al concet­to di “figlio a rischio” poiché, se siamo convinti che la relazione madre/bambino inizi ben prima della nascita, che già durante la vita intrauterina il bambino sviluppi un inizio di attività psichica, dobbiamo renderci conto che l'abbandono o se­parazione dalla madre rappresenta un evento estremamente drammatico, anche per un bambi­no di pochi giorni. È da questo strappo, precoce o no, che deriva il rischio di avere a che fare con un bambino che io definisco “nato in salita”.

«Non credo valga la pena entrare nel merito del valore attribuibile all'adozione nazionale o internazionale che sia, ma va da sé che non è certamente in dubbio la pari dignità dell'adozio­ne, semmai va un po' messo in dubbio come una parte delle coppie aspiranti vengono scelte e preparate ad affrontare le eventuali difficoltà.

«Proprio perché la famiglia adottiva ha carat­teristiche equivalenti alla famiglia, mi consenta, naturale, il fatto di avere un figlio “nato in sali­ta” lo può porre in condizioni di rischio, fermo restando che da una lettura più attenta della con­clusione del mio articolo non emerge che auto­maticamente tutti i nuclei adottivi sono a rischio bensì che è una possibilità in caso di una non buona “preparazione al compito”. Mi consenta ancora due brevi precisazioni.

«Il termine “soggetto a rischio” non dovreb­be rappresentare un sinonimo di patologia, bensì dovrebbe tendere ad indicare un qualunque sog­getto che per un qualunque motivo subisce dei traumi, fisici e/o psichici, che potrebbero deter­minare una successiva condizione di disagio, più o meno profondo; se è vero quanto detto fino ad ora, un evento comunque violento come il “cam­biare genitori” pone il bambino in una situazio­ne di rischio e starà proprio nella capacità e di­sponibilità dei genitori adottivi di alimentare le risorse del minore necessarie ad un superamento positivo del disagio.

«Il rischio del figlio può trasformarsi nel ri­schio dell'intero nucleo quando la possibile fru­strazione di aspettative genitoriali disattese può rimettere in circolazione fantasmi ricollegabili all'eventuale sterilità, all'inadeguatezza delle mo­tivazioni rispetto alla scelta adozionale, all'effet­tiva accettazione di differenze razziali e culturali: per questo il problema principale non è “dignità o non dignità dell'adozione” ma fare cultura sul fatto che l'adozione, e quella internazionale in particolare, contiene dei forti rischi che solo una coppia molto consapevole riesce ad affrontare positivamente e congiuntamente con il figlio.

«Desidero per ultimo specificare che il termine “genitori veri”, che io non sono solito usare per cultura e convinzioni, era riportato come af­fermazione specifica dei ragazzi durante l'espe­rienza di Role-playing».

 

Un problema sostanziale

Mentre ringrazio Massimo Camiolo per la sua risposta, desidero aggiungere alcune considera­zioni.

A mio avviso, i problemi posti nella mia nota iniziale sono sostanziali e non formali. Non si tratta di un esercizio astratto di semiotica, ma dell'uso appropriato dei vocaboli per evitare il persistere di deleteri luoghi comuni e favorire nuovi, positivi atteggiamenti.

Alla V edizione degli Incontri Internazionali di Castiglioncello (aprile 1988), Emanuele Lauricel­la, presidente del Cecos-Italia, parlando sul te­ma «La procreazione artificiale nei suoi aspetti medico-biologici, etici, giuridici», ha sostenuto l'esigenza di parlare di «fecondazione alternati­va, o, meglio ancora, di fecondazione con tecni­che alternative». Segno che il problema termi­nologico (e delle sue conseguenze sulla forma­zione degli atteggiamenti) è particolarmente sen­tito anche dai ricercatori più seri in un campo co­sì delicato com'è quello preso in considerazione.

Al di là di una disquisizione formale sulla con­trapposizione di «naturalità» e di «innaturalità», credo che il nostro linguaggio debba servire an­che a far meglio comprendere che dalla genera­zione fisiologica non deriva automaticamente la capacità di educare. «Naturale» deve essere in­vece, il rapporto di paternità, di maternità, di fi­gliolanza che si instaura fra l'adulto ed il minore entrato a far parte di un nucleo familiare, indi­pendentemente dal modo con cui questa vita ha avuto origine.

Giovanni Crisostomo osservava che «non si è meno padri per la nascita di un bambino che per ­la saggia educazione che gli si dà. Essere madre non è tanto generare quanto allevare saggiamen­te il bambino». E Jean Guitton insiste: «La re­lazione di un padre e un figlio è una relazione di spirito, cioè di appartenenza e di responsabilità, molto più che di carne».

Anche le parole hanno il loro peso.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it