MARIO TORTELLO
Ho letto con interesse l'intervento di Massimo Camiolo, giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Milano, pubblicato a
puntate su Prospettive assistenziali
(1). L'autore ha preso in esame un gruppo di adolescenti adottati (attraverso
l'adozione internazionale). di età compresa tra i 14 ed i 20 anni, i quali «hanno
fornito alcuni spunti di riflessione interessanti» circa gli aspetti
psicologici del periodo adolescenziale.
Si tratta di un tema importante, anche per la carenza
di ricerche a questo riguardo. Tuttavia, sono rimasto particolarmente sorpreso
da alcune espressioni e da alcuni passaggi dell'articolo in questione, che
vorrei qui sinteticamente richiamare.
1. L'autore, riferendosi al nucleo d'origine degli
adolescenti adottati, utilizza sempre il termine: «famiglia naturale». Forse che la famiglia adottiva è una «famiglia innaturale»? Credo che anche il
linguaggio abbia la sua importanza Quale messaggio passa, ad esempio,
attraverso il titolo d'un giornale che chiama «figliastra» la figlia adottiva
della moglie di Sackarov? Oppure: perché, nonostante le innovazioni del codice
civile, c'è chi continua a parlare di «figlio illegittimo», invece di dire «nato fuori dal matrimonio»
(se è il caso di precisarlo).
Nel caso specifico, preferirei, dunque, parlare di
«famiglia d'origine» e «famiglia adottiva», evitando innaturali (queste sì)
contrapposizioni.
2. Non si tratta, a mio avviso, di un problema
formale, ma sostanziale. Tant'è che, più avanti nell'articolo di M. Camiolo, si
parla di «figlio naturale» per
indicare quello procreato dalla coppia stessa e di «figlio adottivo». E, ancora: di «veri genitori» per indicare il nucleo familiare d'origine. Forse
che la filiazione adottiva è innaturale e i genitori adottivi sono «falsi»?
Credo che la maternità e la paternità non possono
essere identificate con la sola procreazione fisiologica. L'affetto, le cure
educative quotidiane e costanti rendono genitori in pienezza. Non il sangue
(2).
C'é la filiazione che si basa sulla «generazione»
fisiologica. Riguarda la maggioranza delle persone. Ma c'è, anche, la
filiazione adottiva che va considerata a pari livello, a pari dignità. Tale
modo di intendere la paternità e la maternità deve diventare patrimonio di
tutti; innanzitutto dei coniugi che aspirano ad adottare; perché condiziona
certamente il futuro del bambino adottivo.
3. Non condivido, infine, il pensiero dell'autore
quando sostiene che «il figlio adottivo è soggetto a rischio» e che il nucleo
familiare resosi disponibile all'accoglienza può trasformarsi in un «nucleo a
rischio» per il solo fatto di aver adottato un minore. Credo si possa a
ragione dire che il bambino può essere un soggetto «a rischio» perché ha avuto
carenze nei primi anni di vita; ma non - sic et simpliciter - perché è
«adottivo».
La replica di Camiolo
Alle
mie osservazioni su esposte, Camiolo ha così risposto:
«Pur non essendo uno studioso di semiotica, concordo
con lei sull'importanza dell'uso appropriato delle parole e sul rispetto delle
relazioni tra significato e significante.
«Chiarito questo, desidero entrare nel merito delle
rilevazioni da lei cortesemente fatte. Aimè, quando utilizzo il termine
«famiglia naturale» intendo proprio specificare il nucleo familiare dal quale
proviene «naturalmente» il minore, cioè quella situazione in cui, dopo una
serie di operazioni «estremamente naturali», viene concepito un bambino,
tenuto nella pancia per parecchi mesi, partorito e...
«Insomma, la famiglia naturale é quella che ha messo
in atto la vita, fisica e psichica, del bambino.
«Giustamente lei fa notare che si potrebbe utilizzare
anche l'espressione famiglia d'origine, ma, pur avendolo fatto, considero che
entrambi i termini abbiano dignità, nel senso che li alterno per evitare
ridondanze e ripetizioni nel testo.
«Questo significa forse che con il termine famiglia
adottiva intendo necessariamente introdurre un concetto di innaturalità?
Potremmo disquisire a lungo se effettivamente ciò che non è naturale diventi automaticamente
innaturale, ma, risparmiando entrambi da tale sofferenza, preferisco precisare
che forse, più semplicemente, intendo connotare con i differenti termini due
modi profondamente diversi di diventare genitori.
«Credo che stia in ognuno di noi dare un valore a
questa diversità; da parte mia non ho assolutamente espresso una preferenza o
un giudizio di merito, bensì sono consapevole della loro differenza.
«Questo discorso si può ricollegare al concetto di “figlio
a rischio” poiché, se siamo convinti che la relazione madre/bambino inizi ben
prima della nascita, che già durante la vita intrauterina il bambino sviluppi
un inizio di attività psichica, dobbiamo renderci conto che l'abbandono o separazione
dalla madre rappresenta un evento estremamente drammatico, anche per un bambino
di pochi giorni. È da questo strappo, precoce o no, che deriva il rischio di
avere a che fare con un bambino che io definisco “nato in salita”.
«Non credo valga la pena entrare nel merito del
valore attribuibile all'adozione nazionale o internazionale che sia, ma va da
sé che non è certamente in dubbio la pari dignità dell'adozione, semmai va un
po' messo in dubbio come una parte delle coppie aspiranti vengono scelte e
preparate ad affrontare le eventuali difficoltà.
«Proprio perché la famiglia adottiva ha caratteristiche
equivalenti alla famiglia, mi consenta, naturale, il fatto di avere un figlio
“nato in salita” lo può porre in condizioni di rischio, fermo restando che da
una lettura più attenta della conclusione del mio articolo non emerge che automaticamente
tutti i nuclei adottivi sono a rischio bensì che è una possibilità in caso di
una non buona “preparazione al compito”. Mi
consenta ancora due brevi precisazioni.
«Il termine “soggetto a rischio” non dovrebbe
rappresentare un sinonimo di patologia, bensì dovrebbe tendere ad indicare un
qualunque soggetto che per un qualunque motivo subisce dei traumi, fisici e/o
psichici, che potrebbero determinare una successiva condizione di disagio, più
o meno profondo; se è vero quanto detto fino ad ora, un evento comunque
violento come il “cambiare genitori” pone
il bambino in una situazione di rischio e starà proprio nella capacità e disponibilità
dei genitori adottivi di alimentare le risorse del minore necessarie ad un
superamento positivo del disagio.
«Il rischio del figlio può trasformarsi nel rischio
dell'intero nucleo quando la possibile frustrazione di aspettative genitoriali
disattese può rimettere in circolazione fantasmi ricollegabili all'eventuale
sterilità, all'inadeguatezza delle motivazioni rispetto alla scelta
adozionale, all'effettiva accettazione di differenze razziali e culturali: per
questo il problema principale non è “dignità o non dignità dell'adozione” ma
fare cultura sul fatto che l'adozione, e quella internazionale in particolare,
contiene dei forti rischi che solo una coppia molto consapevole riesce ad
affrontare positivamente e congiuntamente con il figlio.
«Desidero per ultimo specificare che il termine
“genitori veri”, che io non sono solito usare per cultura e convinzioni, era
riportato come affermazione specifica dei ragazzi durante l'esperienza di
Role-playing».
Un problema sostanziale
Mentre ringrazio Massimo Camiolo per la sua risposta,
desidero aggiungere alcune considerazioni.
A mio avviso, i problemi posti nella mia nota
iniziale sono sostanziali e non formali. Non si tratta di un esercizio astratto
di semiotica, ma dell'uso appropriato dei vocaboli per evitare il persistere di
deleteri luoghi comuni e favorire nuovi, positivi atteggiamenti.
Alla V edizione degli Incontri Internazionali di
Castiglioncello (aprile 1988), Emanuele Lauricella, presidente del Cecos-Italia,
parlando sul tema «La procreazione artificiale nei suoi aspetti medico-biologici,
etici, giuridici», ha sostenuto l'esigenza di parlare di «fecondazione
alternativa, o, meglio ancora, di fecondazione con tecniche alternative».
Segno che il problema terminologico (e delle sue conseguenze sulla formazione
degli atteggiamenti) è particolarmente sentito anche dai ricercatori più seri
in un campo così delicato com'è quello preso in considerazione.
Al di là di una disquisizione formale sulla contrapposizione
di «naturalità» e di «innaturalità», credo che il nostro linguaggio debba
servire anche a far meglio comprendere che dalla generazione fisiologica non
deriva automaticamente la capacità di educare. «Naturale» deve essere invece, il rapporto di paternità, di maternità, di figliolanza
che si instaura fra l'adulto ed il minore entrato a far parte di un nucleo
familiare, indipendentemente dal modo con cui questa vita ha avuto origine.
Giovanni Crisostomo osservava che «non si è meno
padri per la nascita di un bambino che per la saggia educazione che
gli si dà. Essere madre non è tanto generare quanto allevare saggiamente il bambino».
E Jean Guitton insiste: «La relazione di un padre e un figlio è una relazione
di spirito, cioè di appartenenza e di responsabilità, molto più che di carne».
Anche le parole hanno il loro peso.
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