Prospettive assistenziali, n. 81, gennaio-marzo 1988

 

 

COME HO DIFESO I MIEI DIRITTI

CATERINA ALTERNIN

 

 

La storia che presentiamo è realmente accaduta. Abbiamo chiesto alla signora che ne è stata la «sfortunata» protagonista di riportare i fatti accadutile, perché si faccia giustizia di una situazione, assurda, almeno con la denuncia.

 

I fatti

Sono una signora di ottantatré anni, in grado di provvedere da sola a me stessa e che vivo quindi da sola in un piccolo alloggio del centro della città. Il giorno 16 aprile 1987 inavvertitamente cado nella stanza da bagno della mia abitazione, inciampando in una straccio. Ginocchio­ni, con molta fatica. mi trascino fino al tavolino del telefono e chiamo la guardia medica, che mi trasporta al pronto soccorso dell'Ospedale Umberto 1° dell'Ordine Mauriziano, all'incirca alle ore nove del mattino.

Vengo immediatamente sottoposta a radiografia, ma, o perché il tecnico-radiologo è giovane e inesperto, o l'apparecchiatura non proprio per­fetta, le radiografie diventano quattro! Dalla dia­gnosi risulta solo una contusione all'anca destra. Non essendoci quindi, a detta del radiologo, ne­cessità di intervenire, posso essere dimessa subito. Ma, nonostante si affermi «che non ho assolutamente niente di rilevante», io mi sento ugualmente immobilizzata, incapace di muove­re gli arti inferiori e di scendere dalla barella dove sono stata sistemata. Inoltre mi faccio pre­mura di ricordare la mia situazione di anziana, che vive da sola, senza, quindi, la possibilità di essere aiutata almeno in un primo tempo.

All'indifferenza del radiologo subentra l'inte­ressamento di una terza persona casualmente presente che mi suggerisce di interpellare l'as­sistente sociale. Fiduciosa chiedo a lei dove an­dare, ma tutto quello che fa è sottopormi un elenco che presumo comprenda una serie di ca­se di cura

Tra queste scelgo la casa di cura Valsalice, sita in via Cosseria 9 a Torino, come risulta dall'ordinazione medica sottoscritta dall'assistente sociale... del Mauriziano. Non potendo contare in alcun suggerimento da parte dell'assistente sociale, scelgo in base alla vicinanza, perché penso che sarebbe stato sicuramente più facile raggiungermi per qualche mia amica premurosa.

Nessuno si è preoccupato di avvertirmi che la casa di cura era ovviamente privata.

Trascorro intanto la notte del 16 aprile 1987 in una camera a tre letti del pronto soccorso dell'ospedale e poi vengo trasferita verso mezzo­giorno del giorno successivo con la croce bianca; anche questo - lo scoprirò più tardi - era a mio carico.

Qui il medico mi consiglia dapprima riposo e poi constatata la mia immobilità assoluta, mi sot­topone ad un'altra radiografia da cui questa vol­ta (a distanza di un solo giorno dalle altre) risul­tano due lesioni riportate all'anca destra. Inizia subito la terapia: pomate, iniezioni, fisioterapia.

Ma, si sa, l'ambiente della casa di cura priva­ta è un ambiente dove tutto costa. Realizzo ben presto dove sono capitata e, superato il primo momento di immobilità, appena recuperata una parziale autosufficienza, firmo le mie dimissioni.

Giunta nella mia abitazione non perdo tempo e mi attivo presso la mia USL di zona per chiede­re il rimborso delle spese sostenute (oltre tre milioni e trecentomila lire per 22 giorni di de­genza), cosa che peraltro mi era stata suggerita di fare dal personale della clinica.

La signorina dell'USL, addetta alle informazio­ni, mi fa però presente (con molta cortesia, devo dire) che il rimborso nel mio caso non è previsto, in quanto la casa di cura da me scelta non è con­venzionata; precisa inoltre che gli accordi dove­vano essere presi prima del ricovero, previa au­torizzazione dell'USL. Faccio naturalmente pre­sente che questo non mi era certo possibile; il mio è stato infatti un ricovero d'urgenza; ma la signorina incaricata mi risponde che le assisten­ti sociali dell'ospedale lo sapevano bene e avreb­bero dovuto avvisarmi. A questo punto mi ha quindi suggerito di rimettere tutta la questione ai responsabili dell'USL, allegando tutti i docu­menti in mio possesso e raccontando anche i fatti, così come mi erano capitati.

Non mi sono scoraggiata e, forte dei miei di­ritti, ho proceduto come mi era stato indicato inviando lettera raccomandata a tutte le persone responsabili: presidente e direttore sanitario dell'ospedale, responsabile del servizio di medicina integrativa di base dell'USL, commissario dell'USL e per conoscenza al Comitato di difesa dei diritti degli assistiti.

Nella lettera, puntualmente corredata della do­cumentazione necessaria (cartella clinica, refer­to raggi X, fattura comprovante il pagamento del­la retta presso la casa di cura) rivolgevo anche tre precise domande, che avrebbero preteso al­trettante risposte, che invece non sono giunte.

Chiedevo:

- come mai l'ospedale Mauriziano non aveva riscontrato subito la lesione riportata all'anca;

- con quale coraggio aveva proceduto alle dimis­sioni di una persona che si presentava anzia­na, sola, assolutamente immobilizzata e per questo non in grado di provvedere alle proprie necessità;

- perché mi avevano di fatto obbligata a sce­gliere una soluzione costosa, come la casa di cura, quando le leggi vigenti in Italia, che le assistenti sociali sono ben tenute a conosce­re, mi davano diritto ad avere tutte le cure sanitarie gratuite.

A fronte di quanto esposto sono stata contat­tata nel giro di un mese dall'USL, che mi ha rico­nosciuto il rimborso parziale delle spese soste­nute (un milione e seicentomila lire, meno della metà della cifra sostenuta). Nessuno degli altri «personaggi» coinvolti in questa vicenda assurda si è degnato di riconoscere il torto che mi è sta­to fatto. Anzi, va segnalato che l'invio delle rac­comandate ha disturbato parecchio l'assistente sociale che ha anche tentato (con una visita a casa) di farmi ravvedere sul suo operato. Ma di nuovo sono riuscita a sostenere le mie ragioni; ho rifiutato di consegnare le lastre che lei mi chiedeva (non si sa per quale confronto), perché non volevo certo correre il rischio che venissero perse. Erano in fondo la mia unica e sola prova!

Oggi, a distanza di oltre quattro mesi dall'ac­caduto continuo la fisioterapia per recuperare il più possibile l'utilizzo delle gambe.

Certo è che tutta questa faccenda mi ha lasciato non poca amarezza dentro. Ho saputo difendermi, è vero, ma devo ringraziare di avere avuto una vita attiva, un posto di lavoro che mi ha insegnato ad affrontare persone e situazioni simili, l'interessamento e l'aiuto di persone amiche.

Ciononostante ho rischiato di non poter più usare le gambe, non mi sono sentita né rispettata, né tutelata come persona anziana e alla fine ho in definitiva comunque speso una cifra non certo di poco conto considerata la mia situazione di pensionata.

Scrivo queste cose augurandomi che non si ripetano né per me, né per altri.

Scrivo soprattutto per incoraggiare chiunque si dovesse trovare in condizioni uguali alle mie, affinché non si scoraggi, non getti la spugna da­vanti alle mille difficoltà che la burocrazia costruisce, ma si batta invece fino in fondo, fino a quando gli saranno riconosciuti i suoi diritti.

 

 

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