Prospettive assistenziali, n. 79, luglio-settembre 1987

 

 

L'INFORMAZIONE AL BAMBINO SULLA SUA SITUAZIONE DI MINORE IN AFFIDAMENTO EDUCATIVO

MARIA GRAZIA BREDA

 

 

La famiglia d'origine si conosce

Uno degli aspetti principali che differenzia l'af­fidamento dall'adozione consiste proprio nella conoscenza della famiglia d'origine. Si conosco­no i genitori - o almeno uno dei due - e, so­vente, anche i fratelli, sorelle, nonni, zii...

Purtroppo, però, il nucleo si trova in una si­tuazione difficile per cui è stato necessario al­lontanare il bambino, che altrimenti ne avrebbe sofferto troppo. Intanto si cercherà di aiutare la famiglia a risolvere la crisi, con opportuni aiuti e sostegni, senza per questo penalizzare il bam­bino, come si faceva un tempo, ricoverandolo in istituto.

Succedeva infatti - e succede ancora oggi - che una volta sistemato il bambino (che apparen­temente era la causa, l'elemento difficile, distur­bante) in un istituto per l'infanzia, tutti (famiglia e operatori) si dimenticassero di lui; il nucleo veniva lasciato a se stesso; coi suoi problemi ed il bambino usciva dall'istituto solo per rag­giunti limiti d'età.

Oggi, con l'affidamento familiare si è dimo­strato che è possibile invece dare al bambino, che non può per il momento restare nella sua famiglia, la possibilità di continuare per lo meno la sua crescita in un ambiente più idoneo, come è quello familiare, per la ricchezza di affetti e di stimoli che offre in più dell'istituto.

Ma attenzione: nell'affidamento il bambino re­sta figlio dei propri genitori. La famiglia affida­taria non è una famiglia che si deve sostituire a quella d'origine, che è presente sempre con estrema concretezza e proprio per questo incide e conta ed è protagonista - con noi e con il bambino - per tutta la durata dell'affidamento, perché lui se la porta con sé, con i suoi ricordi, le sue esperienze.

Qual è dunque il nostro compito? Il nostro compito non consiste tanto nell'informare il no­stro bambino sulla sua situazione, ma piuttosto nel come utilizzare le informazioni che il bam­bino stesso o la sua famiglia ci inviano con mes­saggi più o meno chiari e diretti. In questo ci sarà di notevole aiuto l'appoggio degli operatori del servizio.

Il bambino continua di fatto a vedere i suoi genitori. Quando rientra a casa, dopo un fine set­timana o dopo una telefonata o una visita, o quando si limita a confrontare un nostro modo di fare con quello della sua mamma o del suo papà... Sono giudizi su come li vestiamo, sul tipo di «minestra» che devono mangiare... cri­tiche che, inutile negarlo, non sono piacevoli perché noi ne usciamo sempre svantaggiati ri­spetto alle figure dei genitori d'origine.

Spesso ci capita di viverle male, come provo­cazioni volutamente a cattive n, che ci portano a vivere in modo molto conflittuale e competiti­vo l'altra famiglia. Non si contano a questo pun­to le spiegazioni e i ragionamenti con il bambino nel tentativo di convincerlo che è il «nostro modo di vita» il meglio in assoluto.

Ragionamenti inutili perché una cosa che cer­tamente l'esperienza ha insegnato è che i geni­tori d'origine sono per i loro figli «i più buoni», «i più bravi», qualunque sia la situazione.

Accettarlo è molto difficile, ma se ci mettiamo dalla parte del bambino non possiamo che es­sere d'accordo con lui. Giudicare e «condanna­re» la sua mamma o il suo papà, equivale pres­sappoco a dire che anche lui, tutto sommato, vale poco, perché quello che lui è, è il risultato della sua vita con loro.

Ben presto egli finirebbe per non raccontare più o raccontare soltanto quello che sa che ci piace, che è in linea con il nostro modo di vedere le cose.

È bene, invece, che si crei un clima che favo­risca il più possibile il ritorno di queste notizie, ma questo succederà solo se verranno accolte per quello che sono e cioè dei messaggi che il bambino ci lancia.

Le due famiglie non poche volte finiscono per coinvolgere e strumentalizzare il bambino nella loro contesa e spesso non riescono a cogliere il significato dei comportamenti che egli mette in atto per adeguarsi o per trovare qualche vantag­gio o solo per essere visto o ascoltato.

Se non si interpretano correttamente, anzi ci si allarma, alla fine si sarà sempre meno dispo­nibili a comprendere le sue reazioni e ad aiutarlo a superare «le sue difficoltà».

Il suo bisogno è, al contrario, che tra tutte e due le famiglie, almeno una sia disposta a pren­derlo così com'è, a dichiararlo (come dice lo psi­cologo Cattabeni) O.K. a tutti gli effetti. E quella famiglia deve per forza essere quella affidataria.

Non conta tanto che cosa dire, come rispon­dere alle domande o anche alle provocazioni che il bambino, specie se grandicello, ci sottopone pressoché quotidianamente.

Conta piuttosto come riusciamo a superare il rischio di cedere a queste piccole forme dì ri­catto, peraltro comprensibili, che la famiglia d'o­rigine ci manda attraverso il bambino.

Se noi non raccogliamo la «sfida» tutto è più facile, perché non dobbiamo né trovare giu­stificazioni per i nostri comportamenti, né pre­tendere troppo da lui.

Il tempo e la pazienza giocano molto più che tante discussioni e, ad ogni modo, non siamo soli a dover fronteggiare situazioni a volte un po' tese; gli operatori del servizio possono sem­pre intervenire ad aiutare tutti e tre (famiglia af­fidataria - bambino - famiglia d'origine) a meglio capirsi.

A differenza di cultura, si aggiungono spesso e volentieri problemi di natura più psicologica. Un senso di colpa nei confronti del figlia, un sentimento di inferiorità nei confronti nostri, un sentirsi una famiglia «cattiva», «incapace», a volte un rifiuto del figlio che può scatenare sen­timenti di rivalsa del tipo «ricordati che io sono sempre tuo padre»..., possono provocare stati di tensione nel bambino che entra in crisi, trovan­dosi a dover scegliere tra un genitore e l'altro.

Una delle mete che ci si prefigge nell'affida­mento è proprio quella di riuscire ad instaurare, ove possibile, un buon rapporto con i genitori d'origine, meta non sempre facile da raggiungere perché gli elementi da considerare sono molte­plici. Inoltre le esperienze insegnano anche che non tutti gli affidamenti si concludono necessa­riamente con il rientro in famiglia. Ricordo solo brevemente:

- gli affidamenti a lungo termine, che si rea­lizzano quando non ci sono le condizioni per un rientro, ma nemmeno gli estremi per pronuncia­re la dichiarazione di abbandono, per cui sarà opportuno favorire e «in un certo senso» di­sciplinare i rapporti tra i due nuclei;

- l'inserimento autonomo del ragazzo che, compiuti i 18 anni preferisce scegliere - ci si augura sempre sostenuto dal servizio sociale - una sistemazione propria;

- affidamenti che proseguono oltre il 18° anno, perché i ragazzi/e, pur avendo ancora legami con la famiglia d'origine, vogliono continuare a vivere in quella affìdataria;

- affidamenti di minori handicappati, fisici o psichici, per cui è pressoché impossibile ipotiz­zare rientri in famiglia, che quasi mai esistono; - affidamenti che diventano adozioni.

 

Quanto e come conta la famiglia d'origine

Sia che la famiglia sia pressoché inesistente, sia che sia ancora presente o, che, come nell'af­fidamento a «rischio giuridico di adozione» non ci siano più contatti, noi dovremo sempre fare i conti con quell'immagine dei suoi genitori, più o meno reale, che egli porta con sé, e che emer­ge, riaffiora, seppur mescolata a fatti, cose, per­sone non sempre corrispondenti al vero.

A partire da questo ci sono comunque diffe­renza ulteriori a seconda del tipo di affidamento e delle modalità con cui si è dato avvio.

Diverso è se il bambino passa direttamente dalla sua famiglia in quella affidataria o se è stato per molto tempo in istituto.

In questo secondo caso succede, quasi sem­pre, che i legami dei genitori, nei confronti del figlio, si affievoliscano, mentre, al contrario, il bambino stravede per la sua famiglia, anche se la frequenta poco, perché è l'unico affetto rima­stogli; la resistenza all'affidamento in questi casi è notevole.

Spesso e volentieri succede che il bambino idealizzi la sua famiglia - o perché non ha po­tuto conoscerla bene o perché dimentica, col tempo, come era la realtà. D'altronde ci si vede al di fuori delle «fatiche quotidiane» della scuo­la e dei compiti... in giorni di festa, con geni­tori quasi sempre pronti, almeno per quelle po­che ore, a colmarlo di mille attenzioni.

Ma può accadere, invece, che in questi incon­tri il bambino o ragazzino si trovi a cocciare con una realtà diversa da come se l'era immaginata; pensiamo a genitori dediti all'alcool, che pos­sono anche diventare violenti, o a persone sog­gette a forti stati di depressione, apatiche... In presenza di queste situazioni, cosa è lecito rac­contare al bambino che ci chiede di spiegargli perché i suoi genitori si sono picchiati?; perché la mamma è sempre a letto? Molti di noi si do­mandano -addirittura che senso abbia mantenere rapporti di questo tipo.

Non c'è una risposta specifica, per situazioni precise, ma noi crediamo che sia bene salva­guardare e mantenere i legami con la famiglia d'origine tutte le volte che esiste un legame affettivo significativo, che non vuol dire che debba necessariamente essere un rapporto privo di incomprensioni o sempre idilliaco.

A seconda delle situazioni può essere oppor­tuno diluire nel tempo, forse, le visite, ma è sempre meglio per il bambino avere a che fare, tutte le volte che è appunto possibile, con ge­nitori reali, piuttosto che con genitori che appar­tengano solo alla sua fantasia.

Inoltre, specie per i bambini più grandicelli, ritornare a casa, stare in compagnia dei genitori (ma anche dei parenti) permette di rivivere ri­cordi e cose passate, che appartengono a quel pezzo di storia che noi non conosciamo e sul quale non possiamo dire assolutamente nulla e che non deve essere perso.

Si tratterà di valutare, quindi, caso per caso come impostare e mantenere, nel tempo, questi legami. Dipenderà molto anche dal tipo di pro­getto che guida l'affidamento.

Se il rientro è previsto a breve termine è evi­dente che i rapporti con la famiglia saranno più che privilegiati; ma questi casi sono generalmen­te quelli che creano meno problemi, in quanto le cause dell'allontanamento non sono gravi.

Un po' più complessa si presenta la regola­mentazione dei rapporti quando l'affidamento non ha una prospettiva ben definita. Sono gli affida­menti a medio-lungo termine.

In questi casi, che prevedono un lungo pe­riodo di relazione tra le due famiglie, è inevi­tabile che succedano, soprattutto all'inizio, fatti poco chiari o comportamenti poco comprensibili da parte di entrambi. Ad esempio i genitori del bambino non rispettano gli orari di visita, dimen­ticando le date degli incontri o, al contrario, ar­rivano quando non sono previsti, telefonano in ore inopportune...

Davanti a questi episodi il bambino ne esce sempre stordito, confuso e tenta di trovare giu­stificazioni anche insostenibili del tipo «il mio papà ha sicuramente lavorato (anche di dome­nica)» oppure «certamente è malato», «non ha trovato i gettoni per telefonare» o sempli­cemente «non ha potuto...».

Ci sono poi attese ancora più dolorose da sop­portare per i fine settimana non passati a casa coi genitori, che non sono venuti a prenderlo; per le vacanze di Natale mancate; per addirit­tura i «rientri» definitivi promessi e non man­tenuti perché impossibili da farsi.

Anche per questi momenti così duri per il bambino da sopportare è importante non esage­rare né nel tentativo di giustificare a tutti i costi i genitori, né nel convincerlo all'opposto di quan­to essi siano stati «cattivi» con lui.

Qui, come sempre, vale molto di più il nostro atteggiamento di comprensione, la capacità con cui riusciamo a farci carico di questa sua soffe­renza, più di tante parole.

Parallelamente si dovrà però tentare, insieme agli operatori del servizio, di trovare una strada (e probabilmente se ne dovranno provare tante prima), per incontrarsi sul comune interesse del­le due famiglie di rendere più facile e più vivi­bile al bambino la sua situazione.

Il discorso cambia per chi ha un affidamento a rischio giuridico di adozione.

La famiglia d'origine c'è stata, il bambino ha spesso vissuto con i suoi genitori, ma già anche in ambienti spesso diversi dalla sua casa.

Incide molto l'età.

Se è molto piccolo non può che avere tracce di ricordi che appunto nel momento in cui riaffio­rano comportano per la famiglia affidataria la necessità di trasformarli in ricordi positivi, sen­za mitizzarli.

Nell'adozione di neonati, di figli di ignoti, si cerca di immaginare insieme come poteva esse­re la famiglia; in questa situazione un'idea della famiglia d'origine si ha, anche attraverso le in­formazioni dell'assistente sociale e gli affidatari gioco forza trasferiscono al bambino, seppur ela­borate, le notizie in loro possesso.

Se il bambino è già ragazzino e l'affidamento si trasforma in adozione, la famiglia affidataria - ora adottiva - dovrà ugualmente conservare l'atteggiamento che guida l'affidamento e che parte dall'accettazione della storia che c'è stata prima, del suo vissuto personale.

Si deve cioè tener ben presente che l'affida­mento a rischio giuridico di adozione, per la sua stessa natura, presuppone che la famiglia af­fidataria mantenga la sua disponibilità in questo senso perché:

- non è detto che l'affidamento si trasformi in adozione;

- perché in ogni caso la famiglia d'origine del bambino non verrà mai cancellata e continuerà a riaffiorare in mille particolari.

Se nell'adozione di neonati ci troviamo, abbia­mo visto, davanti ad un vuoto da riempire, qui ci troviamo davanti ad «un disordine di notizie, ri­cordi, flash», che vanno piano piano inseriti e organizzati nella nuova realtà.

E credo che questo discorso valga anche per l'adozione dei ragazzini già grandicelli.

Tra gli affidamenti non dobbiamo dimenticare che, seppur in minor misura, ci sono bambini handicappati fisici e/o psichici.

Si parla di affidamento, ma quasi sempre o sono adozioni mancate o si trasformeranno in queste; generalmente, infatti, la famiglia d'ori­gine non c'è.

 

Per i fisici

A tutti i problemi relativi all'informazione sul­la loro situazione, purtroppo si aggiunge anche quello dell'handicap fisico.

Oltre a convivere con l'idea di essere stato rifiutato, deve anche convivere con l'idea di un corpo che lo rende diverso dagli altri.

E noi, che possiamo fare? Noi non possiamo fare altro che cercare, anche qui, di fargli vi­vere la sua diversità con naturalezza, evitando falsità, imbarazzi, reticenze che non possono che farlo soffrire di più, perché vivrebbe le nostre stesse insicurezze.

Il bambino imparerà che esistono altri come lui, a non vergognarsi né dei suoi genitori, né di se stesso.

L'essenziale è che noi genitori affidatari per primi ci siamo chiariti con naturalezza il perché della sua situazione e riusciamo quindi a tra­smettergli la certezza che va bene così com'è.

 

Per gli psichici

Per chi accoglie un bambino handicappato psi­chico il problema dell'informazione va osservato da un altro punto di vista.

Se nell'affidamento normalmente l'informazio­ne che riguarda la personalità, il carattere del bambino è utile per evitare almeno gli errori più grossolani, qui è indispensabile.

Non può essere sufficiente la sola diagnosi (psicosi, autismo, cerebropatia...); questa deve essere suffragata da una attenta e scrupolosa osservazione della personalità del minore, pri­ma dell'affidamento, da parte dei tecnici che lo seguono o che lo seguiranno.

Alla famiglia verranno poi date tutte le infor­mazioni indispensabili per capire «la malattia» del bambino che vivrà con loro e degli «stru­menti» per poter fronteggiare la situazione. Si dovrà cioè sostenere molto e bene la famiglia affidataria.

Il servizio sociale, invece, fornirà tutte le in­formazioni utili per poter usufruire delle facili­tazioni e dei diritti che spettano al minore han­dicappato grave, supporti che non risolvono la problematicità che comporta un affidamento di questo tipo, ma che sono di aiuto alle difficoltà pratiche che una scelta del genere comporta (es. assicurazioni per danni a terzi, rimborsi spese extra, protesi, ecc.).

 

Le informazioni che è utile «sapere» come famiglia affidataria

Come famiglia affidataria noi sappiamo che dobbiamo avere una grandissima disponibilità a farci carico di questi rapporti, che fanno appunto la storia del bambino, il suo vissuto, che ritorna periodicamente, nei momenti meno indicati con domande, interrogativi che chiedono - sem­pre - una nostra risposta.

Quando va in affidamento il bambino non co­mincia una nuova vita, non è una tabula rasa e tutto ciò che è successo «prima» è importante e influenzerà la vita di tutti noi dal momento in cui entrerà in casa nostra. Egli non riparte da zero, anche se la sua famiglia non è tra le più valide. Anche quando è piccolo egli ha già pro­prie caratteristiche, tendenze, preferenze oltre a modelli culturali e sociali differenti dai nostri. Sappiamo inoltre:

- che il bambino non è nostro figlio, né lo sarà mai, né noi saremo per lui suo padre e sua

madre, ma questo non esclude che ci si voglia bene ugualmente;

- che forse, prima o poi, egli tornerà a casa, ma se questo succederà saremo tutti felici e non avremo certamente perso il nostro tempo per niente, espressione che sovente usa la gen­te intorno a noi. Tutto quello che si sarà vis­suto insieme farà per sempre parte della nostra e della sua vita;

- sappiamo che dobbiamo rapportarci a lui non solo come educatori, ma anche come geni­tori, come persone cioè capaci di amarlo «gra­tuitamente» e a fondo perduto, così com'è;

- che il nostro compito è quello di offrirgli temporaneamente un ambiente familiare, che gli permetta di continuare a crescere e a maturare, a partire però da quanto è già in suo possesso come bagaglio di conoscenze, di affetti, di modi d'essere.

Non si può pensare di cambiare radicalmente tutte le sue abitudini, semplicemente perché ha cambiato «famiglia». Anzi, proprio per questo, almeno inizialmente sarà più facile per lui sop­portare il cambiamento se potrà «ripetere» al­cuni gesti o abitudini che sono della sua «fa­miglia».

Come famiglia affidataria spesso non sappiamo però coniugare queste «cose che si usano» con la pratica:

- si accetta l'idea che non sarà nostro figlio, più difficilmente accettiamo che, proprio per que­sto, non «restituisca» da subito affetto, grati­tudine, riconoscenza per la situazione migliore - a nostro giudizio - in cui si viene a trovare;

- ci dichiariamo a sua disposizione, pronti a capirlo nelle difficoltà dovute alla situazione familiare, al cambiamento... ma non sappiamo aspettare che il bambino ci conosca, impari le nostre abitudini, il nostro modo di vivere, non gli lasciamo il tempo necessario a decodificare quello che è il linguaggio «non verbale» ti­pico di ogni nucleo familiare;

-vogliamo essere genitori non sostitutivi, ma ci risentiamo quando il bambino parla bene della sua famiglia, la vede con occhi diversi dalla real­tà, meglio di come è nella realtà, e non apprez­za, al contrario, i nostri sacrifici, la nostra fatica...

Ci si dimentica che chi ha bisogno di essere riconosciuto, accettato, apprezzato, consolato è il bambino e non noi.

Cosa si rischia?

Innanzitutto di interpretare questo comporta­mento del bambino, come un rifiuto nei nostri confronti, mentre invece lui vive inevitabilmen­te con una grossa dose di preoccupazione tutto quanto gli proponiamo, ed ha quindi bisogno di sentirci calmi e fiduciosi.

Un aspetto che spesso si è trascurato o non considerato affatto e che ha messo bene in luce sempre lo psicologo Guido Cattabeni è che noi famiglia affidataria riteniamo che le difficoltà del bambino siano da collegarsi al fatto che il bam­bino si trova ad avere «due» famiglie.

In realtà, almeno inizialmente, egli si sente abbandonato dalla sua e non sa fino a che punto può fidarsi di questa nuova realtà in cui si trova.

Benché ogni affidamento sia una storia a sé, ci sono, comunque, alcuni elementi che possono aiutare tutti e tre i protagonisti a superare que­sti momenti un po' particolari.

 

Quali notizie al bambino

Nel caso che la famiglia d'origine collabori la preparazione al passaggio può cominciare dal suo interno; si tratta di dare al bambino infor­mazioni sufficienti, immaginando ciò che sta per avvenire, con motivazioni adatte alla sua età e anche con qualche spiraglio sui futuro.

È sempre qualcuno della famiglia che lo ac­compagna nella famiglia affidataria, di solito con incontri brevi, preliminari, che sono preparatori al distacco vero e proprio.

Se la famiglia d'origine non dà molto affida­mento per quanto riguarda le capacità di prepa­rare il bambino, deve essere aiutata nelle varie fasi dall'operatore sociale.

Preparare il bambino diventa assolutamente im­portante quando la famiglia sia in difficoltà o per nulla capace di collaborare all'affido.

L'operatore deve supplire, in questi casi, alla funzione rassicurante della famiglia; è lui la per­sona in grado di rassicurare il bambino, di farsi riconoscere, per quel minimo rapporto interper­sonale che avrà necessariamente costruito insie­me al bambino.

In caso di allontanamenti improvvisi ed ur­genti, disposti dal tribunale per i minorenni, non essendoci il tempo di conoscere a sufficienza i bisogni del bambino o di stabilire con lui un minimo di rapporto di fiducia, non è tecnica­mente ammissibile trapiantarlo da una famiglia all'altra. Si ricorre in questi casi ad un inseri­mento provvisorio in un contesto ambientale emotivamente meno pregnante, in una comunità cioè che consenta di svolgere un periodo di os­servazione e di conoscenza.

 

La preparazione della famiglia d'origine

Le condizioni ideali perché il passaggio da una famiglia all'altra avvenga in un clima affettivo disteso e rassicurante sono molto rare.

È abbastanza comprensibile e legittimo che dei familiari soprattutto le madri, affezionati ai loro figli, seppur a modo loro; soffrano all'idea che altri se ne occupino e si oppongano più o meno apertamente all'affidamento.

Tuttavia l'esperienza ci insegna che, dati gli incalcolabili vantaggi che derivano al bambino in affidamento dalla collaborazione della sua fa­miglia d'origine, è indispensabile dedicare il massimo del tempo, delle energie, della compe­tenza al lavoro di preparazione della famiglia d'origine.

Si dovrà valorizzare molto ad esempio la loro scelta in favore dell'affidamento come un atto d'amore nei confronti del figlio, un vero volergli bene, sottolineando l'importanza che la loro pre­senza continuerà ad avere prima dell'affidamen­to e - dopo - per non far sì che si senta ab­bandonato.

 

Quali notizie alle famiglie affidatarie

Ogni affido deve essere programmato in fun­zione di obiettivi precisi; inizialmente sono solo gli operatori sociali a possedere le «informa­zioni» necessarie a predisporre un programma di lavoro. A loro tocca infatti chiarire agli affida­tari il gioco che sono chiamati a svolgere assi­curando il massimo dell'informazione su tutto ciò che riguarda la vita del bambino.

È compito degli operatori preparare un profilo della personalità del bimbo da affidare s pre­vedere anche un periodo minimo di osservazio­ne, che consenta di inquadrarne la figura ed evi­tare almeno gli errori più grossolani. Natural­mente questo avrà la sua importanza tanto è più grande il bambino e quindi maggiore il vissuto che egli si porta dietro.

Ma è meglio non illudersi pensando che se l'inserimento sarà ben preparato, tutto funzione­rà a meraviglia.

Per quanto si sia pronti ad affrontare nel modo migliore il nuovo venuto è proprio « nuovo » e ('incontro tra quanto immaginato e quanto è ef­fettivamente la realtà, sarà per forza diverso.

Inoltre l'insieme delle informazioni che via via diventeranno in nostro possesso, direttamente dal bambino se non proprio dalla sua stessa fa­miglia, porterà a verificare e modificare di con­seguenza, con aggiornamenti periodici, le infor­mazioni che si possedevano in partenza.

L'obiettivo non cambierà mai; si dovrà sempre mirare alla crescita del bambino, ma il program­ma e gli strumenti dovranno adattarsi di volta in volta. Così pure gli operatori, la famiglia d'ori­gine, la famiglia affidataria.

Una cosa che ci sembra opportuno consigliare vivamente è la partecipazione delle famiglie, che intendono rendersi disponibili all'affidamento, a gruppi di famiglie affidatarie o almeno ad incon­trarsi con qualcuno che viva già l'esperienza.

È soltanto dalla viva voce di chi racconta ciò che sta vivendo che si può almeno captare cosa significa fare un posto in più; quale sforzo si ri­chiede a tutti i partecipanti della famiglia per organizzarsi in funzione non più soltanto dei biso­gni dei suoi vecchi componenti, ma anche in fun­zione dei bisogni del nuovo arrivato.

Notizie, queste, che davvero aiutano a com­prendere più di altre quanto sia fondamentale di­sporsi all'affidamento con un atteggiamento di disponibilità incondizionata.

Se si fa nostra l'idea che «cambiare», trasfor­marci per l'altro, in funzione dell'altro è la sola vera condizione richiesta dal l'affidamento, non avremo grosse difficoltà con il bambino e acqui­steremo molto come persone perché ci sentire­mo coinvolti in un continuo rinnovamento di noi stessi, quindi più ricchi, di quando siamo partiti. E di questo grandi vantaggi ne ricaveranno anche i nostri figli, che troveranno una famiglia che avrà almeno tentato di trasformarsi gradualmen­te con l'evolversi ed il mutare dei bisogni, di­versi per ogni età.

 

 

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