Prospettive assistenziali, n. 79, luglio-settembre 1987

 

 

LE CONSEGUENZE PSICOLOGICHE DELLE VIOLENZE SUI MINORI

GUIDO CATTABENI (1)

 

 

Alcune indispensabili premesse

Ci vogliono, per la specie umana, circa ven­t'anni dal concepimento in poi, per formare un nuovo adulto, sia per quanto riguarda l'ambito fisico sia per quanto riguarda quello psichico; età finalizzata a formare un essere adulto (età evolutiva).

Secondo la concezione psicologica, il raggiun­gimento di un inserimento nel sociale di tipo adulto è la conseguenza di numerosi, svariati e complessi processi evolutivi; si diventa adulti attraverso una serie dì complesse riorganizza­zioni che inglobano il passato nel presente e servono di base per il futuro.

Le conoscenze attuali sull'età evolutiva, frut­to della ricerca psicologica per quanto ancora giovane e non del tutto consolidata, consentono di prevedere un futuro disturbo grave, ovvero di tracciare, come dice bene A. Freud («Normalità e patologia del bambino», Feltrinelli) linee evo­lutive che portano a risultati patologici, e che si è in grado di prevedere.

Il neonato inizia la sua vita non libero da leg­gi, ma con un corredo di reazioni dettate da un principio interno determinante: alla soddisfazio­ne del bisogno corrisponde un sentimento di pia­cere, alla condizione di bisogno non appagato è associato intimamente un vissuto di dolore ed un meccanismo che spinge a lottare per ridurre la tensione dolorosa.

Il dialogo con l'ambiente, formativo o distrut­tivo per il bambino, inizia sin dalla nascita e la crescita del bambino, del ragazzo, dell'adolescen­te può essere definita come un complesso di tra­sformazioni riuscite o non riuscite delle tenden­ze e degli atteggiamenti che normalmente fan­no parte della natura originaria del bambino: l'adulto è figlio del bambino che è stato (cioè della sua storia evolutiva).

Più il bambino è piccolo più sono ridotte le sue possibilità di scelta tra accettare o rifiutare il trattamento che l'ambiente riserva ai suoi bi­sogni: dal momento che il bambino non può so­pravvivere da solo le leggi dell'ambiente hanno una forza incalcolabilmente superiore alle sue capacità di opporvisi ed egli per necessità quin­di si sottomette alle regole benefiche o dannose che l'ambiente impone per la soddisfazione dei suoi bisogni.

Ogni giorno si conoscono molte cause e «in­siemi» di cause che possono provocare in fu­turo un fallimento delle capacità di adattamen­to sociale maturo; questa conoscenza ha fatto sì che si individuassero tre epoche della età evolutiva come epoche cardine per lo sviluppo corretto della persona:

- i primi 5-6 anni di vita;

- il passaggio dalle regole della famiglia a quelle della comunità (scuola dell'obbligo);

- l'età della adolescenza.

Il punto precedente ci consente di sottolineare l'importanza preponderante degli avvenimenti dei primi 5-6 anni per il futuro di ogni bambino ri­spetto alle epoche successive.

 

La violenza sui minori

Dalle premesse emerge evidente che è violen­za sui minori qualsiasi esigenza del mondo degli adulti che impedisce, in virtù del potere di vita e di morte che gli adulti detengono, ad un bam­bino, ragazzo, adolescente di ricevere nelle varie epoche della sua maturazione il «cibo» materia­le e psicologico indispensabile per crescere gradualmente, senza ostacoli insormontabili per le sue forze, e per diventare un adulto libera­mente, responsabilmente e felicemente inserito nella vita della comunità.

Non tutto ciò che appare, fenomeno logicamen­te, violenza comporta di per sé conseguenze psi­cologiche dannose per la maturazione della per­sonalità e non tutto ciò che appare come frutto di un atteggiamento o di una intenzione buoni produce fatti positivi.

Sono ormai ben note in proposito alcune situa­zioni tipo che servono a rendere intuitivo questo concetto: un atteggiamento degli adulti esterior­mente liberale, permissivo, che si astiene dal fru­strare, che cerca costantemente di appagare le richieste espresse dal bambino, nasconde spesso un rifiuto affettivo (anche se di difficile lettura) che produce gravi danni psicologici al bambino; far piangere un bambino di due anni dicendogli un «no» che lo frustra non è di per sé una violenza dell'adulto nei confronti della libertà del bambino, ma può essere l'indispensabile aiu­to a passare dal principio del piacere a quello della realtà, quindi un gesto che favorisce la maturazione.

Il denominatore comune della violenza sui minori è un rapporto cosciente o inconscio di stru­mentalizzazione del bambino da parte del mondo adulto, reso possibile dalla superiorità fisica o psichica dell'adulto, dal quale la vita del bambino dipende.

L'istinto alla sopravvivenza biologica è domi­nante in ogni essere umano; nel bambino piccolo poi esso è talmente forte che timori angosciosi di morte bloccano automaticamente ogni reazio­ne aggressiva nei confronti della legge imposta dall'adulto dal quale la vita dipende.

Il bambino autistico ne è il simbolo estremo: fa morte psichica per la sopravvivenza fisica. Noi apparteniamo a una cultura che riprova e condanna, moralmente e giuridicamente, ogni for­za di violenza dell'uomo sull'uomo, consideran­do un'aggravante la sproporzione di strumenta­zione lesiva e di strumentazione difensiva esi­stente tra il violentatore e il violentato.

Cosicché la violenza spesso viene mascherata, rivestita di pelle d'agnello, mistificata grazie a processi di razionalizzazione che appaiono a pri­ma vista inattaccabili. Spesso avviene così che ciò che è esigenza dell'adulto è presentato come il bene per il bambino. Quando i bambini sento­no questa violenza reagiscono istintivamente: il mondo degli adulti lo considera allora «ribelle a ciò che è buono per lui» colpevolizzandolo e costringendolo a temere per la sua sopravvi­venza.

 

Quali bisogni dei minori sono oggi meno riconosciuti e subiscono più facilmente violenza

Nei primi anni di vita: il bisogno di crescere in una famiglia in grado di organizzarsi anche in funzione dei suoi bisogni. Dice A. Freud: «I biso­gni naturali del bambino (nei primi anni di vita!) sono in disarmonia con molte delle abitudini so­ciali e culturali attuali. Il bambino ha un suo per­sonale ritmo del sonno, che però raramente coin­cide sia per l'orario che per durata con i desideri e le esigenze dei genitori. (...) È un bisogno in­nato del bambino quello di avere un contatto cu­taneo stretto e caldo con il corpo di un'altra per­sona al momento di addormentarsi, ma ciò è con­trario a ciò che preferiscono molti adulti, che esigono che i bambini dormano da soli e non nel letto dei genitori. Per quanto riguarda l'alimenta­zione, raramente il bambino è lasciato libero di scegliere il tipo e la quantità di cibo e il momen­to del pasto, con il risultato che egli è talvolta penosamente costretto ad attendere affamato, mentre altre volte è costretto a cibarsi contro voglia. Spesso l'educazione sfinteriale è introdot­ta troppo presto, cioè in un'epoca in cui il bam­bino non vi è ancora pronto, sia per mancanza del controllo muscolare sia per insufficiente svi­luppo della personalità.

Il bisogno biologico della presenza costante di una persona che lo curi è trascurato nella no­stra cultura occidentale, cosicché i bambini sono abbandonati a lunghe ore di solitudine in virtù dell'erronea convinzione che sia sano per il bam­bino dormire, riposare e in seguito giocare da solo. Una simile negligenza dei bisogni naturali crea le prime incrinature nel funzionamento re­golare dei processi di relazionamento con l'am­biente che lo circonda. Una volta insorti dei di­sturbi le loro conseguenze non si possono eli­minare del tutto, neppure introducendo mutamen­ti positivi nel metodo di educazione».

L'organizzazione della vita che il mondo degli adulti si è data impedisce spesso questa dispo­nibilità, questa attenzione sensibile e costante alle esigenze del bambino piccolo: la abissale differenza tra mondo soggettivo del bambino e mondo soggettivo dell'adulto richiedono spazi temporali e affettivi abbastanza estesi sì che il bambino possa entrare in dialogo con un adulto che lo «comprenda» poiché lo conosce, gli è vissuto insieme.

 

Il bisogno di crescere nella famiglia in cui è nato

Già nel 1925 Augusto Aichorn ha sottolineato il fatto che gravi disturbi della socializzazione sorgono quando l'identificazione con i genitori viene spezzata bruscamente a causa di separa­zioni, rifiuti e altre interferenze nel legame affet­tivo con loro; questo fatto è stato ampiamente confermato dagli studi accurati di John Bowlby e collaboratori, ed ora è generalmente accettato in campo scientifico.

Tuttavia non pare che la nostra società si preoccupi molto di tutelare il bambino da questo pericolo, dal momento che ben poco si dà da fare per mettere la famiglia d'origine in condi­zione di svolgere il suo compito senza fratture. Ricordo quanto appassionatamente ha sottolinea­to questo aspetto Mons. Nervo nel suo intervento al Convegno sull'adozione di Torino nel 1983: «Da un lato mettiamo la famiglia in primo piano, esal­tiamo il volontariato, l'affidamento familiare, l'ado­zione che si basano su forti valori di solidarietà; dall'altro demoliamo quotidianamente la famiglia imponendole un'organizzazione assurda del lavo­ro e della vita; lasciandola sola nei momento di difficoltà, spingendola alfa chiusura attraverso una cultura egoistica ed edonistica, disorientan­dola quotidianamente con falsi modelli presentati dai mass-media... Occorre esigere che la società persegua una politica della famiglia coerente con le esigenze del bambino, diversamente sarà ben difficile garantire al minore il diritto di essere educato nell'ambito della propria famiglia...».

 

Il bisogno di avere una famiglia quando la propria non c'è più o è temporaneamente impedita ad accoglierlo

Può sembrare che, dopo la legge 184 dell'83, finalmente questo bisogno sia stato riconosciuto e che sia cominciata un'era più civile ed umana, meno violenta di quella precedente nei confronti dei bambini.

In primo luogo un dato di fatto più che eloquen­te: le stime più aggiornate parlano di 80.000 mi­nori ancora ricoverati in istituto in Italia.

In secondo luogo, adozione e affido sono utiliz­zati ancora in modo troppo spesso violento nei confronti dei bambini.

Si tratta di soluzioni migliori senza possibilità di paragone rispetto all'abbandono in istituto, ma esse richiedono una competenza professionale, una disponibilità di tempo, una quantità di ope­ratori, una metodologia di lavoro complessa e precisa, una disponibilità alla collaborazione tra istituzioni (tribunali per i minorenni, operatori, enti locali) che comportano un impegno di ener­gie professionali ed economiche che attualmente riscontriamo solo in alcune situazioni eccezionali.

Generalmente si commettono violenze gravi in questo campo nei confronti dei bambini per­ché si ritiene di poter scaricare un peso econo­mico per la società sul volontariato.

Affidamenti che ormai sono noti come affibbia­menti, diagnosi mal fatte sia per quanto riguarda i bisogni del minore sia per quanto riguarda la famiglia d'origine, la famiglia affidataria, la fami­glia adottiva; bambini trattati come pratiche e spostati da una famiglia all'altra senza aiuto a comprendere, a sopportare paure e separazioni traumatiche, affidi giuridici che, pur essendo ado­zioni psicologiche, vengono spezzati perché si decide l'adozione e si rompe il legame di affilia­zione psicologica in nome di un rispetto peloso della normativa giuridica; adozioni e affidi privi di appoggio tecnico nel corso del tempo; giudici e operatori che viaggiano su linee divergenti o con­flittuali spaccando bambini e famiglie: strumen­talizzazioni politiche con interferenza di interessi che nulla hanno a che vedere con i bisogni del bambino, sono tutti fatti che avvengono quasi quotidianamente laddove si attuano le alternati­ve all'istituto.

Per evitare che il meglio resti un'utopia o diventi addirittura peggiore del bene, per evitare che l'istituzionalizzazione sia considerata una violenza minore rispetto alle sue alternative, è necessario investire nelle alternative, quindi la adozione e l'affido, almeno la stessa quantità di forze, anche economiche; -che si investono nella soluzione istituto.

Diversamente sarà ben difficile evitare la vio­lenza sul diritto del bambino a crescere in fa­miglia.

 

Il bambino e la scuola dell'obbligo

Negli anni della scuola dell'obbligo molti bam­bini hanno difficoltà a compiere il passaggio dalle norme della famiglia a quelle della scuola. Ciò tanto più quanto più le norme della famiglia sono lontane da quelle della scuola. Questa di­vergenza si riscontra sempre più frequentemen­te, a causa delle caratteristiche peculiari che la famiglia va assumendo da qualche decennio: es­sa è diventata sempre più il luogo del privato, del disimpegno sociale, della soddisfazione dei bisogni affettivi dei suoi componenti in contrap­posizione alle regole massificanti e spersonaliz­zanti del mondo del lavoro. La famiglia è oggi più il luogo del tempo libero, dell'hobby, del pia­cevole, della gratificazione.

L'entrata nella scuola rappresenta invece l'im­patto con un mondo in cui si aspetta che tutti i bambini si conformino a una norma comune, fissata sulla base, prevalentemente. delle esigen­ze degli adulti. È un passo difficile quello del passaggio dalle norme della famiglia a quelle del­la scuola.

Il bambino bene adattato in famiglia non è sempre e subito un bambino che bene si adatta alla scuola. Egli incontra una comunità che im­pone le «sue» leggi indipendentemente dai bi­sogni, dai desideri, dalla complessità delle carat­teristiche personali, indipendentemente dalle sue peculiari potenzialità intellettive e attitudinali.

La scuola dell'obbligo oggi, nel suo complesso, non sta dalla parte dei bambini: essa rappresenta il mondo degli adulti che pretende dal bambino la sottomissione e punisce la trasgressione e/o l’inadeguatezza con l'isolamento, l’emarginazione, la svalutazione. A chi ha, viene dato; a chi non ha, viene tolto.

Gli insegnanti che non accettano questa logica e si impegnano per creare condizioni adatte allo sviluppo delle singole personalità sanno bene quanto sia difficile il loro lavoro.

II bambino privo di una famiglia capace di aiutarlo ad affrontare l’esperienza della scuola è un bambino che soccombe o perché si adegua passivamente rinunciando a crescere o perché strumentalizza la scuola per i suoi bisogni o perché la rifiuta e se ne difende.

 

L'età adolescenziale

Nell'età adolescenziale le particolari condizio­ni della vita psico-affettiva dell'adolescente, il suo bisogno di sottrarsi alla protezione della fa­miglia per proiettarsi alla ricerca di se stesso nel sociale, la sua fisiologica fragilità emotiva, il suo bisogno di fare esperienza per misurarsi con la vita, i facili fallimenti, le disponibilità a sentirsi valorizzato non importa come, costituiscono un terreno favorevole a quella che mi pare la vio­lenza oggi più frequente nei confronti di questa fascia dell'età evolutiva: la strumentalizzazione dei bisogni adolescenziali da parte di gruppi so­ciali aventi gli interessi più disparati.

Sia per le vicende delle fasi precedenti, sia per il «maltrattamento» subito in età adolescen­ziale, diventa per molti ragazzi difficile arrivare ad accettare e interiorizzare l'esistenza di norme e regole di vita generali.

Il disimpegno, la regressione, il disprezzo per l'autorità e le leggi, il realizzarsi stando contro, la sofferenza insopportabile del fallimento sono eventi frequenti nel mondo adolescenziale.

 

Le conseguenze psicologiche della violenza sul minori

Straripano ormai nelle librerie e nelle biblio­teche i testi, scientifici e non, che illustrano le conseguenze dei bisogni educativi caratteristici delle varie fasi evolutive.

Molti studi hanno cercato di individuare legami genetici tra i vari tipi di patologia psichica e di disadattamento sociale e specifiche turbe nella relazione individuo-ambiente intervenute per esempio nella fase orale, anale e fallica. Non è il luogo questo per una dotta e fine esposizione di questi studi.

Da tutto questo materiale comunque emerge un elemento coerente ed univoco.

Le conseguenze psicologiche più profonde e inguaribili sono quelle che originano dalla rela­zione violenta del sociale nei confronti del bam­bino piccolo.

La «violenza» è il non riconoscimento del bi­sogno del bambino, del suo diritto ad essere se stesso, è la risposta negativa alle esigenze del bambino in nome del bisogno dell'adulto; doppia violenza è la «punizione repressiva» della ri­sposta difensiva del bambino, restituitagli dall'adulto come vissuto di trasgressione, colpevo­le, alle norme funzionali alle esigenze dell'adulto singolo o associato.

La mancanza di un'esperienza di tipo familiare buona dalla nascita e per i primi 4-5 anni di vita impedisce la maturazione basilare della persona­lità, interferendo nel - o impedendo il - pro­cesso che porta dalla simbiosi psichica iniziale alla differenziazione dell'individuo che consente di entrare in relazione con «l'altro» tramite la costituzione del «buon oggetto interno»; (la scoperta dell'altro come buono fa sì che mi sen­ta buono). Al di là delle difficoltà del linguaggio tecnico, questo significa che la capacità di en­trare in relazione con gli altri è il frutto di una storia relazionale positiva: il frutto cioè di quelle esperienze di rapporto e di comunicazione che al bambino è dato di poter vivere fin dall'inizio del­la sua esistenza con persone che l'accolgono, che lo amano, che gli «permettono» di vivere; è sempre nell'ambito di un sistema di tipo fami­liare che è poi possibile al bambino interioriz­zare l'oggetto buono come «oggetto combina­to», ovvero come persona in rapporto con altri e non solo con lui.

L'oggetto interno «buono» e «combinato» è la condizione per poter essere soli senza patire di solitudine; per poter amare senza bisogno di possedere e strumentalizzare; per poter «mori­re» come bambino senza sentirsi abbandonati (cfr. C. Brutti, Bisogni e desiderio); per proce­dere verso la socializzazione adulta.

La successiva evoluzione, fino al termine delle problematiche adolescenziali, è favorita non solo dall'esistenza di basi solide formatesi nei primi anni di vita, ma anche dalla continuazione dell'amorevole e costante attenzione da parte dell'ambiente sociale nei confronti dei bisogni specifici di ogni età e dei bisogni specifici di ogni bambino e ragazzo.

La conseguenza psicologica costante di una violenza attuata dal mondo degli adulti nei con­fronti della traiettoria evolutiva verso la maturi­tà è la strutturazione di una «personalità che ci difende» dal sociale, è il disadattamento sociale.

Si crede troppo facilmente che disadattamento sociale corrisponda a personalità aggressiva o violenta: anche recenti slogan sensibilizzanti hanno insistito sull'equazione «una società vio­lenta genera figli violenti»; in realtà il comporta­mento aggressivo non è il danno psicologico più grave. Le tendenze aggressive sono energie vitali che possono condurre a una socializzazione po­sitiva oltre che negativa. Ciò che danneggia maggiormente è l'impossibilità di un investimen­to libidico su un sociale violentante; in termini più semplici: non si impara ad amare se non si ha un'esperienza, qualitativamente e quantitati­vamente sufficiente, di amore ricevuto. Se l'espe­rienza relazionale positiva tra bambino e ambien­te non si è sviluppata in modo sufficiente per attenuare o legare l'aggressività, o questa capacità è andata perduta a causa di una disillusio­ne verso l'oggetto d'amore, della sua mancata so­stituzione, ecc., l’aggressività non si fonde con la «libido», l'affettività. L'aggressività che di­sturba e minaccia l'adattamento sociale è una difesa per la sopravvivenza dell'individuo (seppur controproducente)  quando vi è incapacità di re­lazioni d'amore (libidiche).

Le conseguenze più preoccupanti dovrebbero considerarsi, a ben vedere, quelle di tipo depressivo, che insorgono, come Spitz insegna, quando la difesa aggressiva per la sopravvivenza si ri­vela inefficace e si esaurisce la forza vitale: i bambini, i ragazzi, gli adolescenti «spenti», de­lusi del mondo, disinteressati alla vita, isolati, regrediti a compensazioni autoerotiche, privi di ideali e di speranza, «menefreghisti», sono quel­li più danneggiati e meno facilmente recupe­rabili.

La cura e la prevenzione di questi esiti falli­mentari non possono che basarsi su una risposta non violenta, cioè su una risposta d'amore, l'uni­ca capace di indurre il cambiamento e di evitare la degenerazione della reazione etero-aggressiva in strutturazione depressiva.

Ma non basta che una legge, come la 184/83, affermi il diritto dei minori ad essere amati per poter diventare adulti socializzati: nessuna legge può obbligare ad amare, anche se può imporre gli strumenti che garantiscono il rispetto dei diritti del bambino (per esempio adozione, affido, in luogo di abbandono in istituto).

Il rischio che la legge del più forte condizioni l'uso di questi strumenti trasformandoli in nuove e più traumatiche occasioni di violenza è vivo e vegeto, spesso palpabile e concreto. È neces­sario quindi che i bambini e i ragazzi abbiano qualcuno, tra gli adulti, che stia dalla loro parte nella lotta che affrontano per la sopravvivenza loro (e di tutti).

 

 

 

(1) Relazione tenuta al convegno «La violenza sui mi­nori», svoltosi a Trieste il 23 novembre 1985, organizzato dalla Sezione di Trieste dell'Associazione nazionale fa­miglie adottive e affidatarie.

 

 

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