Prospettive assistenziali, n. 79, luglio-settembre 1987

 

 

I SERVIZI SOCIO-ASSISTENZIALI NON SONO «LADRI DI BAMBINI»

 

 

Ripetutamente, sugli organi di stampa, escono articoli che riguardano «bambini contesi» non più da due famiglie (com'era il caso delle false adozioni o del mercato dei bambini di qualche anno fa), ma dai genitori d'origine e dai servizi sociali o dal tribunale per i minorenni.

Solitamente, i giornalisti raccolgono la voce della madre o del padre d'origine e - a grandi titoli - rivendicano il loro presunto «diritto» a riavere il figlio, magari dichiarato in stato di abbandono dai giudici minorili e già inserito in una famiglia a titolo di affidamento a scopo edu­cativo se non addirittura di affidamento preadot­tivo.

Non sono mancati i casi in cui la stampa ha presentato i servizi sociali ed i tribunali per i minorenni come veri e propri «ladri di bam­bini».

Significative ci paiono queste due lettere scrit­te in risposta ad alcuni articoli apparsi sulla stampa nazionale nei primi mesi dell'87, rispetti­vamente da parte della Associazione nazionale assistenti sociali e del Presidente del tribunale per i minorenni Piemonte-Valle d'Aosta.

 

La «lettera aperta» degli assistenti sociali (1)

Gli organi d'informazione si sono occupati dif­fusamente, in queste ultime settimane, di fatti di cronaca riguardanti bambini allontanati dai geni­tori, abbandonati o maltrattati. L'immagine che si è configurata è quella di una lotta fra genitori ed operatori sociali, nemici e rivali, il cui oggetto del contendere è la titolarità dei diritti sul bam­bino, rispetto a come, dove e con chi deve vivere.

In questa guerra fra adulti, il minore, che sem­brerebbe dover essere il protagonista, è invece una figura sfocata sullo sfondo, utile solo a for­nire un'occasione per descrivere la battaglia fra i «grandi», cioè fra quelle stesse persone che dovrebbero rappresentare una garanzia per la sua crescita.

Solitamente i genitori appaiono come esseri to­talmente sprovveduti che, quasi per una serie di fortuite circostanze a loro ignote, perdono il «pos­sesso» dei figli, sottratti loro da assistenti sociali insensibili ed incompetenti che quasi nulla fan­no per fornire aiuto e che, anzi, sembrano trarre le maggiori gratificazioni professionali dal reci­dere i legami parentali; oppure i genitori sem­brano essere «mostri crudeli» che maltrattano o abbandonano i bambini, poi dimenticati da ope­ratori sociali negligenti ed indifferenti che non provvedono a dar loro una famiglia.

Ma la realtà del disagio familiare e quella in cui operano i Servizi Sociali sono assai più com­plesse e profonde: interventi altamente qualifi­cati hanno già dissertato sulla prima e per ciò che riguarda la seconda non è questa la sede per descrivere le difficili condizioni in cui sono costretti ad operare gli assistenti sociali, le ca­renze di organico, i carichi di lavoro elevati, le mansioni improprie ed i delicati e notevoli livel­li di responsabilità, non riconosciuti contrattual­mente.

Sembra inoltre opportuno sottolineare che, se è vero che le difficoltà operative non sempre con­sentono di occuparsi adeguatamente di tutti i casi, le situazioni in cui si rende necessaria una separazione, anche se temporanea, fra bambini e famiglia sono sempre approfondite e supportate in modo considerevole.

Ma affrontare questi problemi significherebbe nuovamente parlare del mondo degli adulti e dei loro problemi.

Ci interessa, invece, evidenziare, non per dife­sa corporativa ma per le conseguenze negative che si ripercuotono sui minori e le famiglie, che fornire una immagine distorta dei servizi significa produrre un vissuto di paura e di diffidenza: il ser­vizio sociale viene visto come «ladro di bambi­ni» invece che come un momento di aiuto che tale rimane anche quando è costretto ad operare scelte difficili e traumatiche. A queste scelte si deve purtroppo pervenire quando il bambino, quel bambino che non può chiedere aiuto, difendersi, ricorrere in appello, vive in una grave situazione di rischio, non solo per la sua incolumità, ma per la sua equilibrata crescita psico-sociale.

Il rischio ed i danni subiti dai minori aumenta­no con il prolungarsi del disagio e, sembra su­perfluo ricordarlo, più i problemi a invecchiano n più scarse sono le possibilità di risolverli in modo indolore.

Per questo è importante che la famiglia si ri­volga ai servizi nel momento in cui il problema insorge, quando non è ancora logorata ed ha più risorse per reagire ed utilizzare il sostegno of­fertole. Per approdare ai servizi tempestivamen­te è però necessario superare la paura che con­duce ad identificare l'approccio con l'assistente sociale come un pericolo, quasi una sorta di «roulette» russa.

Ma la famiglia deve essere aiutata a superare questi timori ed i mezzi d'informazione possono fare molto a questo proposito, non solo a favore dei genitori, ma anche con tutti coloro che gravi­tano intorno al mondo di questo bambino muto e che possono parlare per lui: parenti, vicini di casa, insegnanti, medici di base ed ospedalieri, pediatri, psichiatri che curano i genitori, ecc.

Forse quando dar voce al disagio, alle paure ed ai bisogni del bambino non significherà più essere delatori e nemici dei genitori, questi ulti­mi saranno aiutati a non essere soli e a non nascondere le difficoltà fino a farle diventare drammatiche, ma potranno affrontarle, con il sup­porto dei servizi, per superare il disagio e con­tinuare a vivere con il loro bambino, come del resto avviene nella maggioranza dei casi.

E se questo non sarà possibile, forse la gen­te potrà cominciare a comprendere o almeno a considerare quanta muta sofferenza si nasconde dietro a provvedimenti drastici come l'adozione, la sofferenza che un bambino deve pur aver pa­tito se magistrati ed operatori sono pervenuti ad una decisione così dolorosa.

E magari si comincerà, invece di parteggiare per un adulto o per l'altro, anche a preoccuparsi di come il minore vive queste esperienze di se­parazione.

 

La lettera del Presidente del Tribunale per í minorenni (2)

Ancora una volta leggo che una madre si è rivolta ai giornali lamentando che le sono stati «tolti» i figli, ed ha raccontato la sua, persona­le, versione dei fatti. Non intendo minimamente entrare nel merito dei casi; anche perché le pro­cedure sono ancora in corso e dovrà pronunciar­si la Corte di Appello.

Voglio invece fare alcune riflessioni di carat­tere generale. La versione dei fatti che il citta­dino fornisce al giornale è, ovviamente, unila­terale e «di parte». Gli operatori socio-sanitari e i magistrati non possono replicare perché, al­trimenti, rivelerebbero notizie del fascicolo pro­cessuale davvero delicate, talvolta drammatiche, e comunque destinate solo ai canali istituzionali. È chiaro allora che i responsabili dei mezzi di comunicazione debbono essere molto equilibrati e cauti allorché intendano scegliere «se» e «come» rendere pubbliche quelle lamentele. È molto facile, infatti (specie se vi è reiterazione delle notizie, enfasi nei titoli, modalità suggesti­ve nel riportare le dichiarazioni ricevute), far passare un messaggio distorto. Purtroppo, men­tre gli adulti possono parlare ai giornali, non al­trettanto possono fare i bambini.

La gente, che pur s'indigna di fronte ai maltrat­tamenti clamorosi, difficilmente conosce e per­cepisce le gravi sofferenze, nascoste, dei bam­bini dovute alla solitudine, ai sottili maltratta­menti psicologici, alle lunghe permanenze negli istituti, alle prolungate carenze affettive, alle fre­quenti, se non continue, dislocazioni.

Molto delicato è poi il problema relativo alla pubblicazione dei nomi e delle fotografie dei mi­nori. Tutta la procedura di adozione è protetta da un rigidissimo segreto. La legge vuole tute­lare il diritto alla riservatezza non solo dei mi­nori e degli eventuali affidatari a scopo adottivo, ma anche della stessa famiglia di origine del bambino.

Pubblicare nomi e fotografie significa violare questo diritto. Infatti, nel caso in cui l'adotta­bilità venisse confermata e resa definitiva, il mi­nore potrebbe essere rintracciato; egli, inoltre, sarebbe identificabile come «bambino in stato di abbandono da parte della sua famiglia origi­naria»; inoltre gli stessi genitori potrebbero es­sere identificati all'esterno del processo, come «genitori il cui figlio è stato dichiarato adotta­bile». E tutto questo non è giusto.

Va poi ricordato che, di norma, nel corso della procedura di adottabilità il minore non è soggetto alla potestà dei genitori ma ha un tutore; ed è quest'ultimo a doverne tutelare la riservatezza, il nome, l'immagine. Quindi la disponibilità delle fotografie e del nome spetta al tutore, e non al genitore.

Come si vede, i problemi sono molti e di no­tevole spessore. Mi auguro che gli organi di stampa non indulgano alla tentazione di assecon­dare la curiosità e l'emotività dei lettori. I bam­bini sono soggetti di diritto a pieno titolo; non vanno mai strumentalizzati da parte degli adulti: né dai loro genitori, né da chi vuole adottarli, né da chi vuol «fare notizia» sulla loro pelle.

 

 

(1) Lettera Inviata agli organi di stampa dall'ASSNAS (Associazione nazionale assistenti sociali) - gruppo inter­regionale Piemonte - Valle d'Aosta, in data 6 maggio 1987.

(2) Cfr. «La Stampa», 16 maggio 1987.

 

 

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