Prospettive assistenziali, n. 78, aprile-giugno 1987

 

 

«NUOVI» ISTITUTI, VECCHIA EMARGINAZIONE E GLI STESSI DANNI LA STORIA DI ROBERTO E PIERO PER CONTINUARE A RIFLETTERE

 

 

Sul numero 76 di «Prospettive assistenziali» abbiamo rilevato come in questi ultimi tempi - accanto a gravi attacchi all'adozione e all'af­fidamento familiare venga riproposto il ricovero in istituto assistenziale come una delle soluzio­ni accettabili (se non addirittura auspicabili) per affrontare i problemi dei minori con difficoltà fa­miliari temporanee, a breve o a lungo termine, o permanenti.

Per aprire un confronto sulle esigenze e sui diritti dei minori privi di una idonea famiglia, abbiamo ospitato nello stesso numero un inter­vento della senatrice Giglia Tedesco (1).

Diamo ora spazio a due nuove testimonianze: Roberto e Piero, due giovani portatori di gravi handicap fisici e motori con lunghissima perma­nenza nell'istituto Cottolengo di Torino (35 anni Roberto e 24 Piero) e che vivono da sette anni in un normale alloggio messo loro a disposizione dall'Istituto autonomo case popolari e dal Comu­ne di Torino, raccontano nuovi aspetti della loro storia (2).

Segue, infine, un intervento: quello della neu­ropsichiatra Maria Massari Marzuoli, la quale in­siste sui danni individuali e sociali che il ricove­ro in istituto assistenziale provoca su minori e sul conseguente disimpegno di enti locali, ser­vizi, famiglie, comunità.

 

 

LA STORIA DI ROBERTO

 

Mia madre, quando sono nato, ha cercato di ammazzarmi.

Ero un figlio illegittimo, indesiderato; ero, in­somma, «il figlio del peccato» e mia mamma non voleva far sapere al mondo la sua «colpa».

Non ci é riuscita ed allora mi ha rinchiuso all'Istituto Cottolengo di Torino. Forse ha otte­nuto lo stesso risultato.

A tutto questo si aggiunge che sono nato han­dicappato. Sono spastico per trauma infantile e così sono stato rinchiuso in un istituto per bam­bini handicappati, quelli che la gente «benpen­sante» chiama i «mostri».

 

Gli anni dell'istituto

In quel reparto erano concentrati ogni sorta di disabilità: focomelici, spastici, mongoloidi, idro­cefali, ecc.

Vivevamo tutti insieme in un camerone-dormi­torio: lì mangiavamo, giocavamo e naturalmente pregavamo e sentivamo la messa.

La mattina ci svegliavamo alle cinque, faceva­mo colazione, ci vestivamo, quindi eravamo pronti per essere «esposti»; ci mettevano, se­duti su seggioloni con il vasino sotto, lungo il corridoio, tutti con i grembiuli a righe.

Alle nove arrivavano i visitatori che si scio­glievano in esclamazioni tipo «poverini...». L'as­sistente era subito pronto a rispondere ogni gior­no lo stesso ritornello: «Eh, queste creature sono nate per volontà di Dio, per riparare i pec­cati del mondo». I visitatori, esaurita la loro cu­riosità e la loro commiserazione, uscivano la­sciando la loro offerta. Noi rimanevamo a vege­tare, come sempre.

In questo luogo ho vissuto per dieci anni, poi mi hanno trasferito in un altro reparto di adole­scenti dove venivano divisi quelli più intelligen­ti dagli handicappati psichici più gravi.

In questo reparto la vita non era sostanzial­mente diversa da quella precedente: ore 6,30 messa (la confessione era obbligatoria una vol­ta la settimana), ore 7 colazione, ore 9 scuola, aperta solo ai più intelligenti (io, secondo i su­periori, non ero tra questi; ho iniziato che avevo 13/14 anni), ore 11 pranzo, ore 12 rosario. Al pomeriggio di nuovo a scuola. La giornata finiva alle 20,30 con la preghiera della sera.

Nel reparto degli adolescenti il controllo era più serrato. Prima si girava per le camerate come si voleva, anche in mutandine; ora, invece, le regole si facevano più rigide.

Per esempio, quando andavamo a letto, dove­vamo toglierci i pantaloni e metterci il pigiama sotto le coperte, perché era peccato far vedere le cosce. Poi, quando dormivamo, dovevamo tenere le braccia sopra le coperte, perché temevano che ci masturbassimo.

È chiaro che in un clima di questo genere la curiosità era tanta e ognuno di noi desiderava sa­pere cosa poteva esserci di segreto nel corpo dell'altro.

Quando poi mi sono sviluppato e ho avuto, come era naturale la prima «eiaculazione», mi sono spaventato, non sapevo cosa mi fosse suc­cesso, e non potevo chiedere nulla a nessuno. Prima nessuno ci aveva mai detto nulla.

Quando avevi un problema, soprattutto se ri­guardava il tuo corpo, non potevi parlarne con nessuno; ti era difficile farlo anche con un tuo compagna, perché eri convinto che il problema fosse solo tuo e ti sembrava che fosse tutto «peccato». Era questa l'educazione che ci ve­niva impartita.

Era un argomento tabù. L'unico posto dove po­tevi parlare era il confessionale. Se non lo face­vi tu da solo, le domande del prete ti incalza­vano: «Ti tocchi? Dove? Lo fai spesso? Da solo o con altri?...».

Quando rispondevi affermativamente ti minac­ciavano, se continuavi, di informare i capi. L'uni­co dialogo era la «repressione». Non hanno mai voluto capire che dietro questo nostro modo di fare c'era una carenza enorme di affetto, un gran­de bisogno di amore!

Un'educazione di questo genere non incorag­giava certamente ad aprirti, a parlare di te. Tu, come tutti i bambini, avevi bisogno di af­fetto, di calore umano. Nessuno te ne dava mai. In tutti gli anni che sono rimasto al Cottolengo ho incontrato qualche suora qua e là che era più buona, più attenta a noi, più affettuosa ma erano eccezioni. In genere le suore facevano il loro lavoro, pulivano, ci davano da mangiare ecc.: era per loro una routine. E a te rimaneva un gran bi­sogno di calore umano! Allora capitava che lo cercassimo fra di noi. Io per esempio ho soddi­sfatto la mia affettività attraverso rapporti di tipo omosessuale.

Ora non me ne vergogno, allora avevo dei sensi di colpa tremendi. Avrei avuto bisogno di parla­re con qualcuno, di capire ed invece non c'era in nessuno questa disponibilità.

A 15/16 anni ho poi cominciato a stare male. Avevo continue febbri. Non si è mai capito bene da che cosa fossero portate. Mi hanno detto che poteva essere una forma di epilessia. Volevano trasferirmi in un reparto di epilettici, ma io non ho accettato e mi hanno quindi trasferito in un cro­nicario, dove ci sono tutti anziani, molti dei qua­li rimangono a letto tutto il giorno o sono addirit­tura in fin di vita.

Io avevo 18 anni, avevo voglia di vivere, ero pieno di energie, come potevo stare tra 80/90 vecchi solo con la compagnia di 6 ragazzi della mia età? Ed, invece, io e i miei coetanei, viveva­mo lì in un grosso camerone dove si faceva tutto, dove doveva svolgersi tutta la nostra esistenza, dove ogni giorno moriva qualcuno.

Con i miei amici cercavo di sopravvivere in qualche modo, facevamo chiasso, sentivamo del­la musica, ci abbandonavamo ad ogni sorta di creatività, forse senza molto rispetto di chi era vecchio e aveva diritto, di stare tranquillo, ma come potevamo noi pensare a questo? Cercava­mo in tutti i modi di non pensare.

Le giornate in ogni modo erano molto tristi. Ti svegliavano alle 5,30 e anche a letto dovevi assi­stere alla messa. Poi ci alzavamo e trascorre­vamo metà mattinata in bagno, dove inventavi le cose più impossibili, tipo bagnare ovunque, can­tare a squarciagola e quando la rabbia ti assaliva, spaccare qualche vetro.

Alle 10,30 si mangiava pranzo, ognuno vicino al proprio letto sul comodino, isolati gli uni dagli altri. Solo negli ultimi tempi hanno messo qual­che tavolo comune.

Dopo pranzo andavamo in cortile. Ci andavamo comunque, anche se faceva freddo, perché era l'unico diversivo. Almeno potevi vedere qualche suora passare. Ci dicevano però che non doveva­mo guardarle troppo: potevamo fare qualche «pensiero».

Alle 15,30 c'era il rosario e alle 16,30 la cena. La nostra giornata finiva alle ore 20.

Era una giornata fatta di niente, trascorsa nel niente, si cercava solo di far passare il tempo in qualsiasi modo, a continuo contatto con la morte a soli 18 anni!

In questo posto sono rimasto fino a 24 anni. In questo cronicario ho assistito a cose ter­ribili. Un esempio: quando c'erano le elezioni po­litiche noi minorenni dovevamo stare a letto tutto il giorno. Ho capito solo dopo perché, troppe cose le ho capite solo dopo. Se stavamo a letto dimostravamo di essere veramente molto malati, di essere dei «gravissimi» e chi veniva dall'esterno non si sarebbe troppo stupito di vedere ragazzi così giovani vivere lì dentro.

Un'altra volta un cieco era stato costretto a vo­tare. Lo avevano minacciato di mandarlo via se non lo faceva. Lui era comunista e non voleva votare, perché lo avrebbero fatto scegliere sicu­ramente un partito che non desiderava.

 

La presa di coscienza

A 23 anni mi é venuta un'idea che in un certo senso è stata la mia salvezza: ho dipinto la mia carrozzina di un colore osceno, un arancione ter­ribile ma allora mi piaceva. È stato un successo. Tutti hanno cominciato a voler che dipingessi an­che la loro e sono cominciate le ordinazioni a ca­tena. Ad un certo punto ho ottenuto persino un piccolo laboratorio in uno scantinato.

Si sono allora accorti che potevo fare qualco­sa, che anch'io ero in grado di lavorare. Nel frattempo le febbri così come erano venute era­no scomparse e mi hanno allora nuovamente trasferito nel reparto degli invalidi dove ero prima. Mi hanno messo a lavorare in un laboratorio di legatoria. Tempo prima avevo conosciuto un fra­te che veniva a fare del volontariato e che ha saputo indirizzare la mia vita.

Ha cominciato, infatti, ad insistere perché io studiassi, perché finissi le elementari che avevo fatto solo fino alla quarta, convincendomi che ce la potevo fare e minacciandomi che mi avrebbe «menato» se non l'avessi fatto.

E così sono tornato a scuola tra i bambini pic­coli e ho fatto la quinta elementare, poi ho fre­quentato, le medie. Ho scoperto in quegli anni di essere anch'io intelligente, di essere un sog­getto pensante. Prima ero un oggetto, un vege­tale e non avevo mai veramente vissuto. Non ero mai stato considerato un essere pensante da nessuno. Dovevo solo obbedire, seguire cieca­mente ciò che mi veniva detto,. La mia vita era interamente programmata, determinata dagli al­tri. Dovevo rassegnarmi, ero nato così, così aveva voluto il Signore, non potevo pretendere di avere una vita come gli altri. Quando sono tornato a scuola, ho, capito di essere in grado anch'io di studiare, di capire, di imparare. Pro­ducevo come tutti, pensavo come tutti, ed allora perché dovevo condurre una vita così diversa? Sì è vero sono uno spastico, un handicappato, sono in alcune cose effettivamente diverso dagli altri, ma ogni uomo è in un certo senso diverso dagli altri. Se comunque alcune cose non le pos­so fare, in altre riesco come e a volte più degli altri. Perché, allora, mi si proibiva di essere un uomo?

Io devo molto a quel mio amico francescano (ora però non lo è più), gli devo molto perché mi ha aiutato a scoprire me stesso, tutte le mie po­tenzialità ed è stato una cosa stupenda! Pur essendo un prete non si è mai permesso di dirmi niente sulla religione; di interferire nelle mie con­vinzioni. Mi diceva «sono cose tue, nessuno ha il diritto di dirti che cosa devi fare, è in te stesso che devi trovare le risposte ai tuoi dubbi». Mi ha considerato semplicemente come un essere umano e ha saputo valorizzarmi, mettere alla luce ciò che ancora potevo realizzare di me stesso.

Così ho cominciato a prendere coscienza della mia persona: è stato un momento indimenticabi­le. Se prima ero un oggetto che poteva essere messo in qualsiasi posto, ora no, ora ero io che dovevo decidere di me stesso. Dice un grande filosofo: «Cogito, ergo sum». Io nel momento in cui mi sono accorto di saper pensare, ho vera­mente cominciato ad esistere.

Ma in istituto non era possibile manifestare i propri dubbi. Appena ho provato a farlo mi hanno subito rinfacciato di «mangiare il piatto della provvidenza e di sputarvi sopra».

Mi veniva detto che il Superiore era per noi come un padre ma non poteva essere così, un padre può anche essere severo, duro nelle puni­zioni, ma non può limitarsi a dire: «Tu sei in queste condizioni e non devi..., non devi..., non devi...; devi solo obbedire, ascoltare la messa e pregare e ringraziare perché ti viene dato da man­giare».

Io, invece, non capivo perché dovevo andare a messa a guardare il soffitto. Volevo continuare a studiare e non mi lasciavano perché avrebbero dovuto portarmi fuori dall'istituto e non c'era nes­suno disponibile a farlo.

Io parlavo con tutti, cercavo di far capire anche ai miei compagni che avevano diritto ad avere una esistenza diversa, esponevo anche i miei dubbi religiosi.

Un giorno mi hanno detto che era meglio che io mi trasferissi tra gli anziani (3). Potevo in­fluenzare chi era ancora minorenne. E così è sta­to. Tra gli anziani sono stato altri sei anni.

Ero confinato, nessuno dei giovani mi poteva vedere o avvicinare perché venivano minacciati se lo facevano.

L'unica concessione che avevo era di leggere tutto ciò che volevo. E così leggevo da Famiglia Cristiana a Lotta Continua.

Ho passato il mio tempo a leggere. Nella let­tura ho trovato una ragione per vivere. Non so come avrei fatto diversamente.

Dopo cinque anni il Comune ha istituito un ser­vizio taxi per gli handicappati ed allora ho potuto frequentare le magistrali. Un anno dopo uscivo dall'istituto, a 36 anni.

 

L'uscita dall'istituto

La decisione di uscire dal Cottolengo l'avevo maturata già da tempo. Ad aiutarmi erano stati i contatti con gli esterni. Come ho già detto, in istituto spesso venivano degli studenti per intrat­tenerci; il parlare con loro mi è servito moltissi­mo. Per la prima volta ho potuto, capire che c'era­no altre possibilità, alternative alla vita che stavo conducendo. Eravamo nel '74, ma in quell'anno è iniziato il mio '68.

Questo '68 non ha certo provocato dei grossi cambiamenti all'interno dell'istituto, ma ha mo­dificato il nostro modo di pensare, di vedere noi stessi, di vivere il nostro fisico. Prima evitavo lo specchio, rifiutavo di guardarmi. Poi ho capi­to, che non era così importante avere un fisico diversa dagli altri; quello che contava era la mia intelligenza, la mia sensibilità. Insomma ho final­mente cominciato a percepirmi come persona, una persona come tutti gli altri. Potevo anch'io avere rapporti, vivere, pensare in modo autono­mo: esistevo.

Io credo che se il '68 è stato criticato per molti aspetti, non bisognerebbe dimenticarsi che ha contribuito a dare una coscienza, una digni­tà a tutti coloro che vivevano da sempre segrega­ti, separati dagli altri non certo per una propria scelta. Non è poco. Non è stato poco per noi che l'abbiamo vissuto in prima persona.

In un primo momento comunque non ho pensa­to subito ad andarmene via. Ho cominciato, inve­ce, ad uscire, a partecipare a delle riunioni, a lottare per i nostri diritti, per sensibilizzare l'opi­nione pubblica. Certo le mie ore di uscita erano molto limitate: uscivo alle 20,30 e dovevo rien­trare alle 23, ma era pur sempre qualcosa rispetto a quel vivere vegetale che avevo condotto fino ad allora. Cominciavo finalmente a sentirmi vivo, protagonista della mia esistenza.

Mi venivano a prendere e mi riportavano in­dietro degli amici che da quel momento hanno cominciato ad aiutarmi e mi hanno dato la forza di andare avanti anche nella situazione in cui ero confinato.

Quando però in istituto hanno saputo, che par­tecipavo a delle manifestazioni ed in particolare che ero stato ad una manifestazione a Roma sul­la legge per il collocamento obbligatorio al lavoro degli handicappati, hanno cominciato, a limitarmi nell'orario di uscita.

Nell'81 quindi ho deciso di andarmene. Non andavo ancora a scuola. Con due miei compagni ho fatto delle domande per entrare in una comu­nità alloggio. Poi quando sano andato a scuola, due anni dopo, ci ha sostenuto nelle nostre richie­ste una nostra amica, un'insegnante e i nostri compagni ed è stato più facile. Il Comune ha assegnato un alloggio prima a me e a Piero, vi­sto che frequentavamo la scuola insieme. In se­guito l'ha assegnata anche ad altri due. Purtrop­po uno di loro non ha fatto in tempo ad andarci perché è morto in un incidente.

Abbiamo comunque dovuto essere appoggiati, si doveva dimostrare che non eravamo poi così gravi, che potevamo farcela.

Ho lottato molto per ottenere la mia libertà ed il mio spazio, e pensavo alle difficoltà che avrei dovuto incontrare; ero comunque sicuro che ce l'avrei fatta.

Nel momento in cui entri in una realtà nuova, allora capisci quanti problemi devi affrontare ogni giorno. Ti senti insicuro, devi gestire una casa, prepararti pranzo, cena, farti il caffè, tante picco­le e grandi cose che prima non sapevi neanche cosa fossero, abituato com'eri a essere servito in tutto. Soprattutto devi lottare tutti i giorni con la paura che hai dentro, che ti hanno inculcato nell'istituto: «Tu sei diverso, non puoi farcela». Questa paura ti è entrata dentro, hai paura dì non potertene mai liberare. I momenti di crisi sono stati tanti, ma sempre mi dicevo «devi farcela», mi facevo forza, dovevo andare avanti. Per un certo periodo dovevo farmi forza anche per Piero, perché lo sentivo più debole di me. Avevo paura che mi mandasse a stendere, che mi piantasse in asso, anche se di questo non ne ho mai parlato con nessuna.

Mentre ogni giorno cercavo di superare tutte le difficoltà che rischiavano di rendere impossi­bile il mio sogno di libertà, partecipavo sempre di più alla vita politica. Lottavo per i nostri di­ritti nel CSA (4). Allora eravamo in tanti a cre­dere e questo ti dava forza, coraggio, ti permet­teva di resistere. Sentivi di non essere solo, ave­vi più speranze. Ora le cose sono cambiate. Io continuo ad essere attivo, perché sono un testar­do, ma non è più la stessa cosa. Molti nel frat­tempo si sono ritirati; quelli che sono rimasti sono meno uniti. È un periodo di ristagno e uno ne risente anche nella vita privata. Ti senti più solo, hai meno speranze, sei più sfiduciato. Vor­resti avere qualcuno con cui condividere le tue angosce, che ti aiutasse a superarle, che avesse con te un dialogo profondo... Ed invece ognuno fa la sua strada, l'unica cosa che sì può fare è non urtarsi troppo.

A volte penso a quanti volontari vedevamo nel Cottolengo. Perché non ci sono volontari anche nel territorio, perché non si trova un modo per­ché questa gente si renda utile anche con noi che viviamo non in un'istituzione protetta, che avremo bisogno di essere accompagnati per esempio in vacanza, a fare qualche viaggio...?

 

L'incontro con la madre

Negli anni intorno al '67 ho cominciato a sen­tire il desiderio di conoscere mia madre. Un pre­te dell'istituto ha scritto una lettera al parroco del mio paese.

Si sono allora interessate una mia zia e una mia cognata. Questa mia cognata era moglie di un mio fratellastro; aveva anche lei vissuto mol­ti anni in un collegio e quindi condiviso certe esperienze. Quando ha saputo di me, ha voluto conoscermi e da quel momento siamo diventati amici. Sono andato spesso, nelle vacanze e il sabato e la domenica da loro. Lei è stata una delle persone che mi ha aiutato a prendere co­scienza di me stesso. Purtroppo è morta molto presto a soli 29 anni. Era una persona molto gracile, aspettava il quarto figlio, non lo voleva ed allora ha cercato di abortire facendosi aiutare da una mammona; è morta di emorragia interna. Era il 10 agosto 1968, solo pochi anni dopo non sarebbe morta, perché hanno approvato la legge sull'aborto. Lei è stata una vittima dell'arretratez­za del nostro paese.

È stata lei che ha fatto da tramite tra me e mia madre che ho così potuto incontrare. Mia madre mi ha raccontato la sua storia; fino a 18 anni aveva vissuto in collegio, quando è uscita la famiglia l'aveva subito costretta a sposare un uomo che non amava da cui ha avuto tre bambi­ni. Poi è morto sotto un treno. Rimasta sola ha avuto una relazione. L'uomo è scomparso, lei si è trovata incinta e sola ad affrontare una situazio­ne estremamente difficile. Un figlio illegittimo a quei tempi, in un paese, non era tollerato, ed allora é andata a partorire da sola in una casa abbandonata e appena nato ha cercato di soffo­carmi. Non ci è riuscita perché forse è interve­nuto qualcuno e così sono stato messo in istitu­to. Lei poi si è risposata ed ha avuto altri cin­que figli. L'ultimo marito le ha sempre rinfacciato fa sua «colpa».

Povera mamma, io non potrò mai condannarla; ha vissuto una vita tremenda, due mariti che non amava e che forse non amavano lei, imposti dalla famiglia e dalle circostanze.

Forse quando ha concepito me, è stata l'unica volta che ha amato qualcuno veramente ed ha dovuto vergognarsene per sempre.

Quando l'ho incontrata era distaccata, ho sen­tito chiaramente che non poteva più accettarmi; non poteva accettarmi perché ero figlio della sua colpa e perché aveva un marito che glielo aveva sempre rinfacciato, non poteva accettarmi perché ero handicappato, non poteva accettarmi perché erano passati tanti anni ormai. lo non posso farle una colpa. Se la vedessi sotto un'ottica cattolica dovrei condannarla ma io so che non è giusto; la sua vita, la sua situazione, la mentalità del tempo le hanno impedito di fare diversamente e così ho evitato di rivederla. Non ha più senso, anche se ho saputo che suo marito è morto. La mia vita e la sua sono ormai da troppo tempo separate, non possono più incontrarsi. Io le avrei reso tutto ancora più difficile.

Leggere il «Mondo dei vinti» di Nuto Revelli mi ha aiutato moltissimo a capire.

Io so che a rifiutarmi è stata la società, non mia madre. Mi ha rifiutato perché ero illegitti­mo; mi ha rifiutato, perché ero handicappato.

Noi siamo stati messi in istituto, lì ci insegna­vano che era nostro dovere pregare per i peccati altrui. Noi per loro siamo i privilegiati di Dio, siamo così per sua volontà. Se io in realtà sono nato in un parto necessariamente difficile date le condizioni in cui è avvenuto, questo non conta! Sono così per riscattare i peccati del mondo con la mia sofferenza. Da ragazzo anch'io accettavo questa spiegazione, in un certo senso mi rassi­curava, era una spiegazione comoda. In questo modo non bisogna cambiare nulla, tutto è al suo posto, eternamente! Noi siamo lì tutti insieme, nascosti e protetti dal mondo. Dall'altra parte questa collocazione permette di mantenere i co­siddetti «normali» in uno stato continuo di «sen­so di colpa»: «Tu sei fortunato, perché Dio ti ha dato molte cose, devi aiutare quei poverini».

Per questo motivo vedevi arrivare in istituto carovane di gente, che sfilavano davanti a noi ogni giorno e uscendo lasciavano un obolo e a noi qualche caramella come allo zoo. È così che questo istituto ha potuto investire miliardi in alberghi di lusso con cui accumulare sempre più denaro (5). Tutto per i poveri!

No, io non ho più potuto accettare questa men­talità, per loro dovevo stare buono, non agire, aspettare la consolazione nell'al di là, rassegnar­mi. No, non mi sono rassegnato, non ho accettato questa condizione, io voglio vivere, ho il diritto di vivere! E così sono diventato comunista, per­ché almeno questa ideologia parte dai più deboli, dagli sfruttati!

 

 

LA STORIA DI PIERO

 

Io, si può dire, ho avuto due vite. La prima quella passata all'istituto Cottolengo di Torino, lo stesso di Roberto, dove sono entrato che ave­vo due anni, perché i miei genitori mi avevano rifiutato. Sono nato focomelico: mi mancano le gambe e le mie braccia finiscono al gomito. Qui sono rimasto 24 anni. In questa vita non ho avu­to modo di esprimermi, di trovare me stesso, di manifestare la mia volontà. Ero un ricoverato, uno che doveva essere assistito, nutrito, vestito, uno che non poteva o non aveva di conseguenza il diritto di pensare.

Poi c'è l'altra vita, quella che sto vivendo da cinque anni da quando ho trovato il coraggio di uscire dall'istituto. Forse neanche oggi posso dire di essermi realizzato pienamente ma almeno pos­so affermare che questa vita l'ho voluta io, l'ho scelta io e non c'è nessuno che decida per me.

 

Io, uomo dalle «due vite»

Devo dire che forse in un certo senso la vita di prima mi è stata utile per capire, per fare un confronto con quella attuale. Forse se non aves­si trascorso quegli anni completamente chiuso e completamente programmato dagli altri, non po­trei oggi sentire quanto essere indipendenti sia decisamente meglio.

Non è vero ciò che volevano farmi credere in istituto. Mi ripetevano continuamente che la so­cietà è cattiva, che lì stavamo bene, molto meglio che fuori, eravamo al sicuro così protetti. Fuori ci avrebbero preso in giro, non avremmo retto il confronto con gli altri. Ci mettevano paura, perché per loro sarebbe stata una sconfitta se noi uscivamo.

Invece non è stato così, ma di questo parlere­mo dopo; ora voglio raccontare della mia prima vita.

Di questo primo periodo non ho ricordi, non mi è rimasto impresso nessun episodio partico­lare, nessuna persona.

Di lì si passava in un altro reparto dove comin­ciavamo a frequentare la scuola elementare. Vi­vevamo tutti insieme, venti, venticinque bambini in un camerone unico: ai lati c'erano i letti, in mezzo delle grosse tavolate dove si mangiava. Giocavamo nel corridoio; in cortile non scende­vamo mai, non ho mai capito perché. E così la no­stra vita si svolgeva tutta lì.

Nel camerone c'era anche l'altare intorno a cui sì assisteva alla messa ogni mattina. Quattro o cinque suore si curavano di noi e in questo com­pito venivano aiutate dai «fratelli» che veni­vano a certe ore del giorno ad aiutarci a vestire, a metterci a letto, a lavarci, ecc.

Di mattina e di pomeriggio andavamo a scuola. C'era una maestra suora a farci lezione. Era molto comprensiva. Cercava di aiutarci, ci diceva che sarebbe stato meglio un giorno uscire. Ci dava degli stimoli per vivere una vita normale. Magari fossero state tutte come lei.

Le altre suore, invece, erano abbastanza esi­genti, soprattutto ci chiedevano di pregare tanto e di non pensare ad altro.

Dalla televisione si potevano vedere soltanto trasmissioni molto selezionate, neanche Caro­sello era permesso, quando c'erano i balletti spe­gnevano la TV, anche se erano di danza classica.

Devo dire, però, che questo periodo mi è stato molto utile, perché mi hanno insegnato ad essere autonomo; ho imparato a vestirmi, a mangiare da solo, a fare tutte le cose che ora faccio natural­mente e che invece prima non sapevo fare. Ini­zialmente per me è stato difficile, mi faceva in fondo comodo essere imboccato, vestito, servito in tutto e credo di essermi più di una volta ribel­lato, ma quando sono riuscito ero molto contento e soddisfatto.

 

La mia casa era diventata l'istituto

D'estate e durante le feste andavo a casa dei miei genitori, ma mi sentivo a disagio, non a casa mia. Ero troppo piccolo quando mi hanno ri­coverato in istituto e la mia casa era per forza diventata quella. Ero abituato a quei ritmi, a que­gli orari, ero affezionato ai miei compagni con cui potevo giocare. Quando andavo fuori mi sen­tivo un estraneo. La mia vita bella o brutta che fosse era quella, e da piccoli non si capisce quel­lo che si perde, si vive delle abitudini che ti dan­no, solo dopo ne prendi coscienza. I miei genito­ri mi erano diventati per forza di cose estranei. Ora so che se da piccolo non mi hanno tenuto, non è stata tutta colpa loro. Vivevano e vivono tuttora in un paese, la mentalità, soprattutto una volta era quella che era. Bisognava nascondere chi era fisicamente diverso dagli altri, bisogna­va trovargli una sistemazione protetta dalle mal­dicenze, dalle «cattiverie», dalla curiosità della gente. Avevano paura di affrontare la realtà, gli era stato insegnato da sempre che ci si compor­tava così. Per secoli la mentalità era stata questa. Non posso prendermela con loro se è stato il loro modo di pensare. Erano come tutti gli altri. Oggi me ne sono fatto una ragione. Ho capito molto faticosamente. Da piccolo invece ho sofferto tan­to, non potevo capire. Questo allontanamento dai miei genitori l'avevo vissuto solo come un rifiuto, e così è stato per tanti anni.

 

Nel «girone» con gli anziani

Quando ho finito le elementari sono passato tra i più grandi, dove c'erano ragazzi insieme a persone anziane.

Io ero molto contento di questo passaggio, perché andavo «tra i grandi», era una meta per tutti noi. E poi c'era più spazio, più possibilità di muoverti. Era come in un certo senso fare una carriera.

Spesso avevamo sentito parlare di quel repar­to da chi c'era già come dì un posto bello dove c'era più libertà, dove si poteva fare quello che si voleva e per questo speravamo di arrivarci il più presto possibile.

In effetti era molto più grande: era una casa a cinque piani: a piano terra c'era il ricreatorio, al primo piano il refettorio, al secondo e al terzo il dormitorio, uno per i ragazzi e uno per gli adul­ti. Erano grosse camerate dove si stava tutti in­sieme. Al quarto e quinto piano c'erano le scuo­le: la media, un laboratorio di radiotecnica, uno di legatoria e uno di calzoleria ortopedica.

La nostra vita era però anche lì sempre ugua­le; ci si alzava presto e dopo la messa si andava a scuola sia dì mattina che di pomeriggio.

Dopo la scuola si poteva giocare nel ricreato­rio o nel cortile. Le suore qui avevano solo man­sioni domestiche, la direzione del reparto era passata a un prete. Se si sbagliava si veniva castigati, era in genere il prete a farlo. Io non sono mai stato picchiato, in genere ti colpivano moralmente; ti dicevano che quello era un istitu­to religioso, che dovevi adeguarti alle sue regole, se non ti piacevano potevi andartene.

Tu tanto sapevi che non potevi farlo: dove po­tevi andare se i tuoi familiari non ti volevano e non si curavano più di te? Ed allora obbedivi, su­bivi, facevi quello che loro volevano. La tua vo­lontà veniva giorno per giorno annullata. Dei tuoi problemi non potevi parlare proprio con nessuno. Avevi soggezione, soprattutto non ti potevi fida­re. Tutto veniva sempre riferito ai superiori e allora stavi attento a come parlavi. A volte ti ca­pitava di confidarti con un invalido più grande. Del resto era difficile parlare anche fra di noi, c'era chi poteva essere geloso e fare la spia.

C'era poi sempre chi prevaricava gli altri, che cercava di imporsi con la forza. Insomma si respi­rava un clima di diffidenza e soprattutto dovevi farti rispettare altrimenti c'era subito qualcuno che ti metteva sotto. Bisognava essere dei duri, chi era più debole di carattere era dominato da­gli altri. Ci si sentiva dominati da tutti. Biso­gnava sempre farti amico il più forte, perché di te si aveva paura. Certamente la convivenza for­zata, quotidiana con tanti individui così diversi tra loro era difficile, Ad aggravare la situazione era la convivenza dei giovani con gli anziani negli stessi locali per il tempo libero. Le esigenze al­lora si scontravano: noi avevamo bisogno di sfo­garci, di fare chiasso, loro di stare tranquilli.

 

A Pinerolo, tra i ragazzi «normali»

Finita la scuola media io avrei voluto studia­re, fare le magistrali ma non potevo, perché nes­suno mi avrebbe portato. Allora mi hanno man­dato a Pinerolo. Io ero contento di questo trasfe­rimento, perché pensavo che in questo modo mi avrebbero fatto frequentare la scuola ed inve­ce no!

Desideravo molto andare in mezzo ai ragazzi normali. Io tendenzialmente ero chiuso. Mi avreb­be fatto bene vivere con ragazzi della mia età fuori dalla mia realtà quotidiana. Mi dissero che l'avrei fatta da privatista e mi hanno affidato a una signora per le lezioni. Questa signora mi preparava solo in francese, il resto lo avrei do­vuto fare da solo.

Io ci ha provato, ma come avrei potuto studia­re latino, letteratura senza che nessuno mi spie­gasse qualcosa. Ed allora mi sono scoraggiato ed ho rinunciato. Mi è dispiaciuto molto perché lì a Pinerolo mi trovavo proprio bene. Vivevo in se­minario, e tutti gli altri erano, quindi, ragazzi «sani». Mi piaceva stare con loro, avevo fatto subito amicizia e la loro vicinanza era molto sti­molante. Ed invece sono tornato a Torino dove mi hanno messo a lavorare nel laboratorio di lega­toria come centralinista.

Lavoravo dalle 8,30 alle 12 e al pomeriggio dalle 14,30 alle 17,45. La paga era di 15.000 lire al mese. Dicevano che noi mangiavamo il pane della Provvidenza, ma noi in realtà lavoravamo. Quando poi lo Stato ci ha dato la pensione ce ne davano un quarto, il resto se lo prendevano loro!

Quando ho conosciuto Roberto anch'io ho co­minciato a prendere coscienza della mia realtà. Quando poi lo hanno trasferito tra gli anziani, non ci permettevano di andare da lui, dicevano che ci avrebbero mandato via se noi avessimo continuato in qualche modo ad incontrarci con lui. Io lo vedevo qualche volta d'estate, ci incontra­vamo in cortile e li mi ha convinto a tornare a scuola. Io ero sfiduciato, dopo le esperienze che avevo fatto, ma lui mi ha ridato la fiducia. In quel momento si può dire è iniziata una nuova vita. È stato un passaggio molto faticoso e trau­matico. L'andare fuori ogni giorno, il conoscere ragazzi non handicappati, vivere una vita come quella di tutti gli altri almeno per mezza giorna­ta, toccare con mano la disponibilità di tutti, dei professori, dei compagni, mi ha confermato che quello che continuamente mi veniva detto in isti­tuto non era vero, la gente non era cattiva come avevano voluto farmi credere. Io nel «mondo» mi trovavo bene, riuscivo ad inserirmi, ne rice­vevo degli stimoli.

 

Tornare a scuola a 24 anni

Sì, certo all'inizio non è stato facile. Come poteva esserlo con tutte le paure che avevo, den­tro, le insicurezze accumulate in tutti quegli an­ni. Avevo deciso di provare, ma ero quasi sicuro di non farcela, così come non ce l'avevo fatta a Pinerolo; del resto. quando avevo dato la notizia ai superiori di questa mia intenzione mi avevano detto proprio questo, che non ce l'avrei fatta, che sarebbe stata una delusione, di ricordarmi di Pi­nerolo, delle difficoltà che avevo avuto a studia­re. Non avevano perso l'occasione per scoraggiar­mi ma io ero deciso di tentare lo stesso e questa volta ho trovato qualcuno che mi ha aiutato, che invece di demolirmi psicologicamente mi ha so­stenuto e valorizzato. Sono stati i miei professori ed in particolare quella di italiano, sono stati i miei compagni, la loro solidarietà, il lottare in­sieme a noi, il dimostrarci ogni giorno che ave­vano fiducia nelle nostre possibilità. La scuola poi non era adattata per portatori dì handicap, ma le barriere architettoniche sono state annullate dall'impegno dei nostri amici, che facevano tutto ciò che potevano per noi.

Il primo giorno è stato difficile, ero molto emo­zionato, impaurito, non è facile tornare a scuola a 24 anni tra dei quattordicenni, non è facile en­trare in mezzo a loro, quando sei sempre stato chiuso in mezzo a ragazzi tutti con dei problemi. Anche i nostri compagni ci hanno raccontato dopo che erano rimasti impressionati dal nostro fisico. Poi è subentrata in loro la curiosità, allo­ra ci hanno chiesto come mai eravamo così e questo è stato l'inizio di un rapporto saldo che dura ancora adesso. No, non mi hanno dato fa­stidio quelle domande, anzi mi hanno dato l'occa­sione di parlare di me, di raccontare la mia storia, di far conoscere agli altri come avevamo vissuto, quello che avevamo sofferto. Loro ci hanno ascol­tato, con attenzione, con amicizia e da quel mo­mento il rapporto è diventato normale.

Un rapporto tra ragazzi, come tanti altri. È giu­sto raccontare di sé, aprirsi agli altri, io prima ero timido, chiuso di carattere, ma con loro ho trovato un po' di fiducia in me stesso. Sarebbe stato, molto più assurdo e innaturale non aves­sero trovato il coraggio di domandare.

C'era poi l'adattamento allo studio, erano die­ci anni che non studiavo più. Ho fatto fatica ma nello stesso tempo la mia capacità di compren­sione era aumentata perché nel frattempo ero maturato, andavo a studiare da Roberto, quindi non ero quasi mai nel mio reparto, tanto che mi chiamavano ormai «forestiero». Andavo solo a mangiare cena e a dormire.

La vita a scuola mi cambiava ogni giorno den­tro, ero diventato insofferente alla vita dell'isti­tuto, non sopportavo più di vivere chiuso, desi­deravo essere libero, anche se avevo paura. La domenica era diventata un inferno. Gli orari, le regole, quella vita così sempre uguale, senza im­previsti, senza stimoli... Mi sentivo oppresso da quell'ambiente. Mi dava tutto fastidio, anche an­dare a messa. Per tre volte non sono andato e una suora, mentre rifaceva i letti, mi ha subito rimproverato: «Come non vai più a messa? Sei diventato ateo?». Siccome frequentavo Roberto mi dicevano: «Vedi andare coi comunisti come ci si riduce». Io non avevo voglia di andare a messa non perché volevo oppormi a loro, volevo solo sentirmi libero di andarci o no, di riposare se ne avevo, voglia, insomma fare quello che senti­vo io e non quello che volevano gli altri. Volevo poter decidere io della mia giornata!

 

Ho capito che avrei potuto vivere una vita diversa...

Quell'anno ho vissuto bene a scuola e male lì dentro, perché ormai avevo capito che poteva esserci un'altra vita, che avrei potuto vivere una vita diversa. Non avevo comunque ancora preso la decisione di uscire. Era più uno stato d'insof­ferenza, ma confuso che non era ancora diven­tato un vero progetto.

Poi la professoressa di italiano, sentendo Roberto e i suoi precedenti tentativi di uscire ha scritto una mozione in cui si chiedeva un allog­gio al Comune di Torino che potesse rendere concreta la speranza di vivere fuori. L'ha poi fatta firmare a tutti gli insegnanti e ai ragazzi della scuola. In quel periodo si è venuta a creare una situazione tale di entusiasmo collettivo che mi sono sentito necessariamente coinvolto, non ho più potuto tirarmi indietro, ne sono rimasto di fatto travolto. Forse è stato un bene, perché da solo probabilmente non mi sarei mai deciso, sarei stato preso da mille tentennamenti, dubbi, ma ho avuto veramente molta paura. Si può de­siderare una vita diversa, ma non è facile rea­lizzarla concretamente 24 ore su 24 ore, senza più nessuno, che provveda a te, così come da sem­pre sei stato abituato.

 

... ma com'è difficile ricominciare dopo gli anni dell'istituto

Forse chi non ha provato non può capire cosa vuol dire trovarsi improvvisamente a decidere tutto quando non si è mai stati abituati a fare, quando anzi ti era impedito di decidere qualsiasi cosa. In effetti perdere ogni tipo di protezione per essere libero, per ridiventare persona, quan­do non hai neanche fiducia in te stesso non è facile, anche se la tua vita così come è ti è di­ventata insopportabile.

Ricordo che quando più si avvicinava il momen­to tanto più mi prendeva l'angoscia per questo cambiamento di vita. Il sogno ti aiuta ad andare avanti, ma quando il sogno diventa realtà suben­trano tutte le paure, i condizionamenti. Dovevo lasciare per certi aspetti una vita comoda, cono­sciuta, in cui non dovevo pensare più a niente, per l'incerto più assoluto e mi sentivo sperso di­sorientato. E così è stato nei primi tempi. Ha dovuto molto sostenermi Roberto, anche perché abbiamo dovuto mettere su casa e nello stesso tempo andare a scuola, quindi dovevamo lottare su due fronti. E poi la convivenza era tutta da impostare, sì eravamo amici, ma vivere insieme, dipendere l'uno dall'altro non è la stessa cosa, era un rapporto tutto da inventare e da scoprire nello stesso tempo.

 

E i genitori dicono «no»

Poi avevo il problema dei miei genitori. Non avevo detto niente a loro di questa mia decisio­ne. L'hanno scoperto perché mio padre è venuto a trovarmi in istituto e non mi ha trovato. Mi è piombato in casa all'improvviso. Non mi ha chie­sto né come stavo, né come me la cavavo, mi ha subito investito chiedendomi cosa facevo lì, ed io gli ho risposto che quella era casa mia. Mi ha allora chiesto se non mi trovavo bene dove ero prima più protetto, assistito. Era spaventato sul mio futuro e a Roberto ha chiesto: «Come fa­rete se starete male?». Roberto molto tranquil­lamente gli ha risposto: «E lei cosa fa?». Lui ha risposto: «Chiamo il dottore», Roberto ha ribat­tuto: «Ecco, anche noi facciamo così».

Per lui e mia madre è stato sicuramente un colpo duro; prima non si erano mai chiesti se io stavo bene o male, se avrei desiderato qualcosa d'altro; erano più che convinti che vivendo in isti­tuto avevo risolto tutti i miei problemi. Quando mi venivano a trovare non gli ho mai sentito chie­dermi se ero contento, se avrei preferito vivere in un altro modo.

Mio fratello è venuto abbastanza spesso, pri­ma era scettico ma poi trovando sempre conti­nui miglioramenti alla casa, vedendo che ci arran­giavamo bene si è convinto. È venuta anche mia madre e alla fine è rimasta contenta, era stupita di vedere che anche noi avevamo tutti gli elet­trodomestici, non pensava che noi avremmo po­tuto comprarci tutte quelle cose.

Del resto tutti si erano stupiti di questa mia decisione, anche in istituto. Quando mi avevano visto fare le valigie, mi hanno chiesto se andavo ancora in vacanza ed io ho risposto: «No, vado via per sempre». Non ci credevano. Quando era uscita la legge sull'assegno di accompagnamento molti miei compagni volevano andarsene e parla­vano fra di loro, facevano progetti. Io non ero stato coinvolto, nessuno mi aveva detto: «Vieni anche tu» ed io ne avevo sofferto. Pensavano che senza braccia non ce l'avrei mai fatta. Mi ero sentito emarginato anche da loro. Invece, era suc­cesso che io uscivo veramente e per loro erano rimasti solo sogni. Anche le suore mi avevano detto che entro quindici giorni sarei ritornato. Io avevo chiesto tre mesi di prova come era per­messo, anche se tre mesi o massimo sei sono pochi per capire veramente se ce la fai.

 

Ho dovuto imparare tutto

Le difficoltà continuano anche dopo, a volte possono anche aumentare. Io in effetti avevo molta difficoltà ad abituarmi a questa nuova vita. Mi mancava tutto, ero abituato in un modo ed ora dovevo essere tutto diverso. Ho dovuto imparare tutto e ce l'ho messa tutta. Ho imparato a lavare i piatti, a fare il caffè, prima non pensavo che avrei potuto essere capace. Mi dicono che il caffè non solo lo so fare, ma lo faccio anche buono! Avevo paura di sbagliare e questa paura mi frenava in ogni cosa. Poi pian piano mi sono fatto coraggio ed ho trovato un sistema per fare praticamente tutto. Messo nella situazione, ho imparato.

É subentrato poi il problema del rapporto col quartiere, di andare a far la spesa. Mi vergogna­vo. Una delle prime volte sono andato a compra­re la pasta e il negoziante ha creduto che fossi un mendicante e ha mandato sua moglie che mi ha dato 500 lire. Non so cosa mi è capitato, mi è venuta una tal rabbia dentro che ho preso die­cimila lire e le ho sbattute per terra e ho detto: «Non sono venuto per l'elemosina, ma per com­prare la pasta». Si sono scusati, ci sono rimasti molto male. A me poi è dispiaciuto, non avevo capito che non erano abituati a vedere girare da soli persone come me. Adesso siamo diventati amici, vado sempre da loro a comprare. Pian piano mi sono reso conto che dovevo anch'io aiutare la gente a capire che non era colpa loro se erano così, se avevano un certo tipo di men­talità. I primi tempi però a volte non capivano bene cosa volevo e sbagliavano nel darmi la roba, io non avevo il coraggio di spiegarmi meglio e me ne andavo con quello che mi davano; poi ho imparato a farmi capire e a farmi le mie ra­gioni, ma ho dovuto farmi forza ogni volta fino a quando è diventato tutto naturale. Ora mi vedono correre con la mia carrozzella elettrica e mi co­noscono un po' tutti. Adesso è tutta un'altra cosa.

Poi c'è stata la difficoltà di mettere su casa. All'inizio ci hanno un po' aiutato gli amici; poi una cosa per volta ci siamo comprati tutto ciò che occorreva. All'inizio avevamo solo 500.000 lire ogni due mesi e non era facile farcela. Do­vevamo fare grosse economie. Io poi non sapevo che cosa era una casa, per esempio non capivo perché bisognasse mettere le tendine come vo­leva Roberto. Nell'istituto tutto era così anonimo, spersonalizzato, che non potevo immaginare co­me si poteva arredare una casa al di là delle cose strettamente necessarie. Ho dovuto impara­re tutto, ho dovuto togliermi certi condizionamen­ti. Se fossi stato due-tre anni in istituto sarebbe stato non così difficile, ma 24 sono una vita e ti lasciano, un segno soprattutto quando penso che ci sono entrato così piccolo. La mia personalità si è formata lì, fuori è tutto diverso!

Inizialmente ho avuto qualche difficoltà anche con Roberto.

Sentivo che tutti lo consideravano, più di me: lui si occupa di politica, è più attivo, è sempre stato più sicuro nelle sue scelte... Avrei voluto che gli altri considerassero anche me allo stes­so modo. E così una volta ho litigato duramente con lui. Dopo quel litigio forse ci siamo com­presi di più. Io ho capito che lui non ne aveva colpa; abbiamo imparato a rispettarci nelle no­stre reciproche diversità.

Io con gli amici dell'istituto non ho mai rotto. Quando andavo a trovarli mi chiedevano sempre come ce la cavavamo. Erano curiosi di sapere; pensavano che tempo quindici o venti giorni sarei ritornato. Quando hanno capito che non sarebbe stato così, hanno avuto anche loro voglia di usci­re, ci chiedevano come si faceva la domanda dell'alloggio, come ci si poteva organizzare. C'è stata una vera e propria ventata di ottimismo.

Avevamo fatto da battistrada, qualcuno deve sempre esserci che apre le porte agli altri. Quando avevano concesso l'assegno di accom­pagnamento, era subentrato in tutti molto entu­siasmo, ma dopo era subentrata la paura che im­pedisce di agire. Questa nostra esperienza ha ri­dato coraggio, ha ridato la voglia di vivere, di non rinunciare e alcuni sono effettivamente usciti.

Io però ho sempre detto a tutti che non ba­stava vedere noi, ma bisognava avere veramente la volontà di riuscire, di lottare contro tutte le difficoltà, e sono tante. Chi non è convinto perso­nalmente fa poca strada. Io dopo i primi tenten­namenti, dopo i momenti di paura ad un certo punto mi sono detto: «devo riuscirci»; ho rea­gito e ce l'ho fatta, almeno fino ad ora.

 

 

 

 

(1) Cfr. G. Tedesco, «Diritti dei minori privi di idonea famiglia e rilancio degli istituti di ricovero», in Prospettive assistenziali, n. 76, ottobre-dicembre 1986, p. 6.

(2) Cfr. «Il Cottolengo: un pilastro dell'emarginazione», in Prospettive assistenziali, n. 63, luglio-settembre 1983, p. 29.

(3) Ecco il testo integrale della lettera inviata a Roberto in data 19 settembre 1974 da Luigi Borsarelli, padre ge­nerale del Cottolengo: «Don Elia ha voluto sottoporre al mio giudizio il tuo caso di coscienza. Come risposta ho espresso a lui il mio parere e lo esprimo adesso anche a te: che io non mi sento di importi d'autorità di compie­re un atto che non sia sincero e spontaneo, però desi­dero anche dirti che lascio a te tutta la responsabilità di una simile decisione presa in questa casa che ti ospita.

Mi è stato anche detto che è da alcuni anni che hai chiesto ai tuoi superiori di esimerti dal compiere un gesto che, per te, è solo una formalità esteriore; devo darti atto che sei stato ossequente a quanto ti è stato chiesto, però anch'io condivido la loro preoccupazione; se tu sei mag­giorenne, lì con te ci sono dei ragazzi non sufficientemente maturi, portati per l'età a scegliere ciò che è più comodo, e non ciò che è un serio impegno religioso. Non vorrei che il tuo esempio fosse per loro un pretesto di chiedere come te l'esenzione da quello che sentono un peso, senza una maturata convinzione personale, mentre io ci tengo che col pane della Divina Provvidenza abbiano ad assimilare anche un po' di formazione religiosa che li accompagni, se è pos­sibile per tutta la vita: ci impegnamo gratuitamente ad un servizio di carità proprio per poter comunicare un dono spi­rituale che noi riteniamo il più prezioso.

Quindi ti chiederei di scegliere un ambiente di tutti adulti dove la tua libertà in fatto di pratica cristiana dia meno motivo di meraviglia. Se vuoi andar nell'infermeria S. Giuseppe dove so che ci sono dei letti vuoti e dove saresti ancora sempre della famiglia Invalidi, io ne sarei contento, basta che ti metta d'accordo col tuo rettore.

Spero che vorrai accettare questa soluzione che non lede i tuoi diritti e risolve pacificamente il tuo problema».

Nota bene. Vi è da osservare che al momento dell'am­missione il Cottolengo richiedeva la firma della seguente dichiarazione: «Io sottoscritto faccio rispettosa domanda alla Direzione della Piccola Casa della Divina Provvidenza di essere accolto nella Famiglia Invalidi, promettendo, da parte mia, di accettarne liberamente l'ordinamento che mi verrà imposto».

(4) Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base torinese.

(5) In questi ultimi tempi la Piccola Casa della Divina Provvidenza (comunemente denominata «Il Cottolengo» è salito alla ribalta nelle pagine finanziarie dei giornali.

Dapprima i quotidiani italiani del 23, 24, 25 aprile 1985 hanno segnalato che il Cottolengo figurava nell'elenco dei risparmiatori-speculatori implicati nel crack dell'Istituto Fi­duciario Lombardo di Vincenzo Cultrera.

Al riguardo, Sergio Quinzio nel libro «Domande sulla santità - Don Bosco Cafasso, Cottolengo», Edizioni Grup­po Abele 1986, scrive quanto segue: «Sono della prima­vera dello scorso anno le notizie del clamoroso indebita­mento - quarantaquattromiliardi - della Casa della Divi­na Provvidenza, che si sarebbe esposta con finanzieri di pochi scrupoli, e poi falliti, per l'acquisto di alberghi a Ischia».

Nelle scorse settimane il Cottolengo è ritornato alla ribalta. Infatti, risulta che nel fallimento del noto commer­cialista Giovanni Cefalù (cfr. «La Stampa» del 18 e 21 no­vembre 1986) è coinvolta «la Società Finalberghi di pro­prietà del Cottolengo, che aveva affidato al commissionario Cefalù l'amministrazione dei proventi della catena di al­berghi della società: un miliardo e quattrocento milioni».

 

 

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