Prospettive assistenziali, n. 77, gennaio-marzo 1987

 

 

DEGENZE IMPROPRIE IN CASE DI RIPOSO E DIRITTI DEGLI ANZIANI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI

GIACOMO BRUGNONE

 

 

Stiamo assistendo ad una progressiva delegit­timazione della Costituzione e della vigente nor­mativa in materia di sicurezza sociale. Con la pratica degli atti amministrativi e dei decreti si stanno infatti mortificando i principi costituzio­nali secondo i quali tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge (art. 2 Cost.) e devono vedersi garantito dallo Stato il diritto alla salute (art. 32) e al mantenimento, nei casi di invalidità (art. 38). Tutto ciò avviene nonostante il fatto che questi principi siano attuati da ben precise norme legi­slative quali: la riforma sanitaria, le leggi istitu­tive della pensione di invalidità civile, dell'inden­nità di accompagnamento e della pensione socia­le, nonché la legge che regola le integrazioni degli importi pensionistici minimi.

In questo articolo limito la mia analisi alle di­scriminazioni cui sono fatti oggetto gli ammalati cronici non autosufficienti, ai quali vengono ne­gate prestazioni sanitarie direttamente e gratui­tamente erogate dal Servizio sanitario nazionale. Questi ammalati vengono scaricati al comparto assistenziale, così che viene meno la continuità degli interventi terapeutici e riabilitativi, e sono costretti a sopportare gran parte dei costi rela­tivi a prestazioni spesso inadeguate.

Per contestare la legittimità di queste scelte politiche, vorrei proporre ai lettori alcune rifles­sioni sulla composizione dell'attuale utenza del­le case di riposo, al fine di rilevare l'alta percen­tuale di degenze improprie, nonché sull'opportu­nità di attuare una diversa politica a tutela di questi ammalati, includendo nel novero anche quegli anziani che hanno perduto l'autosufficien­za a causa dell'età avanzatissima; oggi esistono in Italia oltre 1.250.000 ultraottantenni, e fra que­sti 150.000 hanno superato i novant'anni.

Do per scontate tutte le argomentazioni addot­te a sostegno del diritto degli ammalati cronici non autosufficienti all'assistenza sanitaria, che condivido in pieno, e propongo un'analisi incen­trata sulla contrapposizione fra sicurezza sociale da un lato e pubblica beneficenza e carità privata dall'altro, in luogo di quella tradizionale fra sanità ed assistenza.

Prima di entrare nel vivo dell'argomento, vor­rei però analizzare brevemente i meccanismi che hanno contribuito a determinare la situazione attuale.

 

Vecchie e nuove forme di povertà

Nel secolo scorso la miseria era la condizione in cui viveva la stragrande maggioranza della po­polazione; operai e contadini traevano dal loro lavoro lo stretto necessario per sopravvivere; e la situazione è rimasta pressoché immutata fino ai primi decenni del nostro secolo. Il benessere che si é progressivamente diffuso nel secondo dopoguerra, caratterizzato dal generale incremen­to del reddito reale a disposizione della stragran­de maggioranza delle famiglie, ha fatto ottenere a moltissima gente ciò che una volta era mono­polio delle classi dominanti: casa, istruzione, sa­lute e una certa protezione contro il rischio di vecchiaia e malattie. La povertà di massa, depu­rata sempre più dei suoi aspetti eclatanti di mi­seria assoluta, riguarderebbe oggi l'11,1% dell'intera popolazione, cui andrebbe un altro 7,9% di cittadini che, pur non essendo miseri, sono soggetti a notevoli disagi economici (1).

Per avere un'idea dì come sono mutate le cose negli ultimi quarant'anni, bastano alcuni dati. Nel 1946, 6 cittadini italiani su dieci si nutrivano esclusivamente di pane, minestra e verdura; 3 si permettevano anche qualche uovo e qualche fettina di carne; solo uno mangiava abbondante­mente (2). Nello stesso anno il reddito netto di cui poteva disporre ogni italiano, era in lire del 1985 quasi un settimo di quello attuale, quindi inferiore all'importo dell'odierna pensione socia­le. Nello stesso periodo è raddoppiato il nume­ro delle abitazioni, più che triplicato quello degli italiani che vanno in villeggiatura; i consumi pro­capite di carne bovina sono passati da 4 a 23 Kg. annui, da 3 a 23 quelli di carne suina, da 27 a 117 di frutta, da 4 a 16 di formaggio, da 34 ad 84 litri di latte e si potrebbe continuare a lungo (3).

Stiamo quindi assistendo ad un'importante tra­sformazione sociale: l'antica povertà va perden­do le sue connotazioni di fenomeno di massa, per annidarsi prevalentemente fra gli occupati pre­cari, i disoccupati privi di altri sostentamenti ed i titolari di pensioni inadeguate; contemporanea­mente stanno sempre più assumendo consisten­za le nuove forme di povertà, che causano la emarginazione di soggetti colpiti da disagi psico­fisici e/o sociali. Costoro, disabili, etilisti, dro­gati, appartenenti a famiglie disgregate, a mino­ranze etniche, culturali, ecc., pur potendo contare su redditi che spesso non si discostano dalla media, sono da annoverarsi fra i nuovi poveri a causa dell'inadeguatezza dei servizi sociali che dovrebbero aiutarli a superare le loro difficoltà, e della marginalizzazione culturale cui vengono fatti segno.

Dello stesso avviso sono anche le conclusioni cui è pervenuta la commissione Gorrieri, che ha analizzato il fenomeno della povertà in Italia. I dati, che riporto nel corso dell'articolo, smitizza­no infatti il luogo comune che vuole gli anziani prevalentemente poveri e soli, quindi bisogne­voli di ricovero in ospizio; ed avvalora indiretta­mente la tesi secondo cui le case di riposo svol­gono il ruolo sostitutivo di un intervento sanita­rio o comunque sociale negato. Non sono cioè un intervento riparatore dì vecchie forme di po­vertà, bensì contribuiscono a produrne di nuove. Secondo dati riportati dalla suddetta indagine, gli anziani sono una categoria di soggetti a ri­schio, non tanto per grave disagio socio-econo­mico, quanto per la perdita di autosufficienza psicofisica. Secondo dati ISTAT nel 1980 (ultimi disponibili), il 44% degli ultrasettantenni, contro il 14% di tutta la popolazione dichiarava di non godere buone condizioni di salute e, fra costoro, il numero di quelli che a causa di tale motivo necessitavano di cure più o meno continue am­montava ad un milione e mezzo.

Attualmente le condizioni economiche degli an­ziani sono migliorate. Negli ultimi 18 anni infatti gli importi delle pensioni sociali sono aumentati di quasi venti volte, di circa quindici quelli delle minime. Nel gennaio 1985 le pensioni di importo superiore al milione incidevano per il 2% sul to­tale di tutte quelle erogate dal fondo lavoratori dipendenti dell'INPS; per il 9% quelle superiori alle 700.000 e per il 71% le minime. Se pren­diamo poi in considerazione gli importi delle sole pensioni liquidate nel triennio 82/84 dal medesi­mo fondo, possiamo constatare come, anche se in misura ancora inadeguata, le condizioni econo­miche dei nuovi pensionati stanno migliorando e miglioreranno ulteriormente per quelli futuri; in­fatti, sempre al 1° gennaio 1985, quelle di impor­to superiore al milione mensile incidevano per il 7% sul totale, per il 20% quelle superiori alle 700.000 lire e per il 53% quelle minime, che inci­dono rispettivamente per il 13%, 34% e 43% se riferite alle sole pensioni di vecchiaia (4).

Ciò nonostante gli ultrasessantacinquenni po­veri sarebbero oggi, secondo la commissione Gorrieri, 1.360.000, cioè il 21% dì tutti gli an­ziani. Di questi, 411.000 vivono soli, 653.000 in coppia e 295 in famiglie composte da oltre 2 per­sone. A parità di reddito essi sono però meno poveri dei giovani, sia perché hanno minori esi­genze consumistiche, sia perché dispongono spesso di maggiori risorse economiche non documentabili, trasferite loro da congiunti ed ami­ci (indumenti smessi, cibo, ospitalità occasio­nali, ecc.).

La povertà e la solitudine, pur continuando ad essere un fenomeno rilevante fra questi sogget­ti, non costituiscono, a mio avviso, elemento de­terminante ai fini del ricovero; lo divengono in­vece quando la povertà assume una connotazio­ne multidimensionale e all'indigenza si assom­mano anche solitudine, età avanzata e perdita di autosufficienza psicofisica.

 

La nuova utenza delle case di riposo

Questa affermazione è ampiamente conferma­ta dai dati relativi alle motivazioni che hanno indotto 4.188 cittadini veneti ad optare per il ricovero in case di riposo nel periodo compreso fra aprile 1985 e aprile 1986 (5). I motivi princi­pali (e non unici) addotti dai neo ricoverati sono così sintetizzabili:

- perdita di autosufficienza psicofisica nel 47% dei casi;

- solitudine nel 14%;

- situazioni di emergenza dovute ad impossi­bilità dei congiunti di continuare ad occuparsi degli anziani, che provocano ricoveri spesso tem­poranei, nel 13%;

- desiderio di tranquillità, nel 9%, che sono poi gli unici casi di presunta libera scelta, o meglio di scelta condizionata da precedenti situa­zioni insostenibili;

- rapporti familiari difficili nel 3%, o meglio rifiuto esplicito della famiglia di continuare a prendersi cura del congiunto (un dato questo chiaramente sottovalutato);

- alloggio inidoneo nel 3%;

- isolamento socio-abitativo nell'1%;

- sfratto esecutivo nell'1 %;

- disagiate condizioni economiche, che ricor­rono quando l'anziano non è in grado di provve­dere decorosamente con il proprio reddito alle esigenze primarie della vita, nell'1 %.

A queste trasformazioni sociali si sono ade­guate le funzioni e l'utenza delle case di riposo che, nonostante le buone intenzioni, sono da sem­pre luogo di emarginazione dei più deboli. Infat­ti, sino a non molto tempo fa, esse, volute dalla munificenza dei benefattori quale atto di «giusti­zia» e di «amore», erano luogo di accoglienza per indigenti e disabili poveri; oggi, volute da inte­ressi privati e/o politici, sono divenute un grosso business economico e clientelare, sovente un atto di ingiustizia nei confronti dei cosiddetti «cronici» espulsi dal Servizio sanitario naziona­le, che vi entrano spesso benestanti per dive­nire, altrettanto spesso, mendicanti a causa de­gli alti costi delle rette.

Se riteniamo che questi cittadini abbiano di­ritto alla sicurezza sociale, ogni sforzo deve es­sere proteso al superamento e non alla raziona­lizzazione delle case di riposo, pena il rischio di trovarsi di fronte ad un ordinato e lindo sistema di pseudocase di cura private, scollegate dal Servizio sanitario nazionale, in cui si praticano esclusivamente cure minime ed assistenza ge­nerica; la qual cosa sarebbe doppiamente nega­tiva, in quanto da un lato si disincentiverebbe la corretta pratica della medicina e della geriatria, per relegarle al ruolo di medicina dì «serie B», affidata agli operatori esclusi dall'esercizio dell'attività all'interno della sanità ufficiale; e dall'altro si incentiverebbe quest'ultima a produr­re cronici, così da potersi liberare di pazienti poco gratificanti, curabili ma non guaribili. Si verrebbe così a legittimare la creazione di ser­batoi per cronici non riabilitabili, nei quali mo­rire senza rompere le scatole al resto del mon­do, ed a costi i più contenuti possibile.

Per sancire l'illegalità del ruolo svolto da que­ste strutture è indispensabile dimostrare come la loro utenza tende sempre più ad essere com­posta prevalentemente da ammalati e/o comun­que da non autosufficienti ai quali la vigente le­gislazione riconosce già, indipendentemente dai virtuosismi semantici e burocratici di molti tec­nici e politici, il diritto alla sicurezza sociale, quindi a prestazioni direttamente erogate dal Servizio sanitario nazionale, o comunque dallo Stato.

 

Consistenza dei non autosufficienti e loro incidenza sui ricoverati in case di riposo

Mentre esistono dati quantitativi, non esisto­no dati qualitativi sull'utenza delle case di riposo italiane. Quelli riportati, relativi alla Regione Ve­neto ed al Comune di Venezia, non dovrebbero però scostarvisi di molto: danno comunque una idea della consistenza del fenomeno e delle sue peculiarità.

Negli ultimi dieci anni il numero degli ospiti delle case di riposo del Veneto è aumentato del 14%, passando dai 18.230 del 1976 (6) ai 20.755 del 1986, corrispondenti al 3,7% di tutti gli ultra­sessantacinquenni residenti nella regione. Nel­lo stesso periodo l'incidenza dei non autosuffi­cienti é passata dal 37 al 52% di tutta l'utenza, per portarsi al 63% dei ricoverati nel periodo aprile 1985 - aprile 1986. L'indice di saturazione delle case di riposo del Veneto è del 94,1%; ciononostante esiste una lista di attesa di com­plessivi 1.297 aspiranti al ricovero.

Quanto alla situazione del Comune di Venezia, non esistono dati ufficiali complessivi, tuttavia è a mio avviso credibile una stima di 2.000/2.200 residenti ricoverati in istituti della Regione e (in minima parte) di altre Regioni.

Per cogliere però tutta la gravità del fenome­no, è opportuno prendere in considerazione an­che il luogo dei decessi, che coincide con quel­lo in cui ha generalmente vissuto l'anziano nel periodo immediatamente precedente la morte, elemento questo indicativo del nostro modello di organizzazione sociale.

Secondo una nostra recentissima indagine, che costituirà oggetto di una prossima pubblicazio­ne, nel 1985 su 2.680 decessi di ultrasessantacin­quenni veneziani, l'89,11% è avvenuto in strut­ture residenziali collettive, l0 0,93% in luoghi pubblici non residenziali e solo il 9,96% in abi­tazioni private. Confrontando questi dati con quel­li analoghi relativi al 1981 (7), si può notare una lieve riduzione dell'incidenza dei decessi in abi­tazioni private, dal 10,26 al 9,96% (-0,30%), e di quelli in case di riposo, dal 12,96 al 10,94% (-2,02%), ed un incremento di quelli in ospe­dale, dal 70,27 al 71,75% (+1,48%) e in cliniche convenzionate col Servizio sanitario nazionale, dal 2,2 al 6,42% (+4,22%).

I 293 decessi in case di riposo, pari al 10,94% di tutti i decessi, sono una cifra considerevole; non danno però la dimensione del dramma esi­stenziale dei soggetti appartenenti alla cosid­detta «quarta età». Nel 1985 sono, infatti, mor­ti in queste strutture assistenziali un ultraot­tantenne ogni 5,7, cioè il 17,5% di tutti i decessi relativi ai soggetti appartenenti a queste classi di età; che divengono rispettivamente uno ogni 4,6, pari al 21,78% se riferiti ad ultraottantacin­quenni, e uno ogni 3,75, pari al 26,64%, se riferiti ad ultranovantenni. Se vogliamo poi prendere in considerazione lo stato civile dei deceduti, con­statiamo che solo il 4,23% di tutti i coniugati, contro il 18,32% di tutti i non coniugati ed il 14,26% di tutti i vedovi è morto in casa di riposo.

Questa tendenza, che per Venezia è relativa­mente positiva se comparata ad altre realtà d'Italia (incremento dell'incidenza percentuale dei ricoveri sanitari e decremento di quelli assi­stenziali), rischia però di essere vanificata, qua­lora dovesse prevalere, a livello nazionale, la filosofia dell'espulsione degli ammalati cronici dal comparto sanitario. Se ciò accadesse, la casa di riposo diverrebbe sempre più il luogo in cui andare a passare gli ultimi anni (o giorni o mesi) di vita per poi morirvi. Un triste modo di conclu­dere la propria vita per l'uomo comune, una ven­detta della storia per quanti si sono fatti promo­tori di questa politica e per quanti, avendone i mezzi, non l'hanno contrastata.

 

La deportazione assistenziale

Con questo termine intendo lo sradicamento dell'anziano ricoverato dal suo contesto socio­ambientale ed il suo trapianto in realtà che gli sono estranee; la qual cosa si traduce in un suo allontanamento da amici e congiunti che, a cau­sa delle distanze, diraderanno le occasioni di vi­sita, sino a troncarle (non di rado) definitiva­mente.

Non esistono dati complessivi sulla consisten­za di questa deportazione; gli unici di cui pos­siamo disporre sono quelli relativi agli assistiti dall'Amministrazione comunale di Venezia, che nel 1985 ammontavano a 1.529 unità (8). Di que­sti il 77,8% era accolto in strutture site nello stesso comune, il 6,1% in altri comuni della pro­vincia, il 15,5 in altre province del Veneto e l'1,1% fuori regione.

Quanto all'esodo dei ricoverati paganti in pro­prio, è lecito presumere che la sua consistenza sia superiore; ciò a causa delle rette più con­tenute praticate dalle strutture situate in zone decentrate, che presentano anche altri «vantag­gi» quali un clima più salubre e dimensioni ri­dotte cui fa riscontro un trattamento più ca­salingo.

Le caratteristiche di queste strutture, povere di servizi sanitari, lasciano, presumere che la loro utenza sia costituita prevalentemente da sog­getti autosufficienti o comunque affetti da pato­logie modeste; ne è una conferma l'esiguo nu­mero di veneziani deceduti in tali strutture nel 1985 (18 in tutto).

 

Il costo dell'esclusione

I tagli della spesa pubblica, imposti dalle nuo­ve politiche finanziarie, penalizzano doppiamente gli anziani non autosufficienti, una prima volta con l'espulsione dal comparto sanitario e con il rifiuto delle prestazioni dovute, una seconda vol­ta facendo pagare loro, sempre più frequente­mente, il costo della retta di ricovero in casa di riposo. Il caso del Comune di Venezia è emble­matico di questa situazione. Nel 1985, per assi­stere 1.529 ricoverati, esso ha speso poco più di 15 miliardi cui vanno aggiunti oltre i 4 miliardi di contributi dei ricoverati e circa 715 milioni di contributi dei familiari per un costo medio annuo di 13 milioni per assistito, coperto al 75% dal Comune, al 21,5% dagli interessati ed al 3,5% dai contributi dei parenti. A questi importi già considerevoli va aggiunta la corresponsione del contributo forfettario regionale per prestazioni sanitarie (9), riconosciuto ai soli ricoverati non autosufficienti.

Questi dati si riferiscono ai vecchi ricoveri, per quelli nuovi la situazione è drammaticamente peggiorata in quanto oggi il Comune tende sem­pre più a stringere i cordoni della borsa e ad operare una drastica selezione degli aventi di­ritto. Esso infatti, troppo spesso, sostituisce il pagamento della parte di retta non coperta dai redditi degli assistiti, con contributi forfettari generalmente inadeguati, che i congiunti sono poi costretti ad integrare ampiamente. Secondo i dati forniti dalla regione Veneto (5), questa ten­denza ha assunto una dimensione allucinante; negli ultimi 15 mesi infatti, se si eccettua il sud­detto rimborso regionale per spese sanitarie, l'Ente locale è intervenuto soltanto nel 30% dei ricoveri e con contributi più modesti che in pas­sato, cosicché in tutti gli altri casi (oltre il 70%) gli interessati hanno dovuto provvedere in proprio al pagamento delle rette.

Se raffrontiamo poi l'importo delle rette al red­dito effettivo della stragrande maggioranza di questi cittadini (10), risulta evidente come tale nuova scelta rappresenti un'ulteriore insosteni­bile pressione contributiva ai danni delle famiglie giovani, i familiari che peraltro non sarebbero tenuti a provvedervi (11) e che sono già così duramente provati dai tagli previdenziali e dalla politica dei redditi (12).

Con questi costi la situazione diviene spesso insostenibile anche per i titolari di redditi me­dio alti, tanto che in questi casi si stenta a ca­pire dove abbia fine la nuova povertà dovuta ai disagi psicofisici, e dove abbia inizio la vecchia miseria dovuta alla difficoltà a far fronte al sod­disfacimento dei costi dei ricoveri.

 

L'ammalato cronico in casa di riposo

Su 4.188 nuovi ricoveri nelle case di riposo del Veneto, avvenuti nel periodo aprile 1985 - aprile 1986, il 71% è costituito da donne ed il 29% da uomini. Dieci anni or sono erano rispet­tivamente il 69% ed il 31 %; si è quindi verificata una crescita tendenziale dell'incidenza delle don­ne sul totale degli ospiti del 2%. Questa ten­denza è ampiamente confermata dalla preponde­ranza percentuale dei decessi delle donne. Nel 1985 infatti, su 293 veneziani deceduti in case di riposo, 212, pari al 72,35%, erano donne. Sa­rebbe però semplicistico attribuire questa mag­giore incidenza esclusivamente alla loro longe­vità, cui logicamente consegue la loro prevalen­za nelle classi di età più avanzate, che sono poi quelle maggiormente soggette al rischio di rico­vero (13).

Altri elementi che vi contribuiscono sono la preponderanza dei non sposati(e) e dei vedovi(e) tra i nuovi ricoverati, le trasformazioni della fa­miglia ed il ruolo discriminante attribuito alla donna al suo interno, nonché i minori redditi di cui questa può generalmente disporre quando è sola.

Analizzando lo stato civile dei nuovi ricoverati, risulta che il 77% è costituito da non sposati (celibi e nubili) e da vedovi(e), rispettivamente 26% e 51%, categorie all'interno delle quali la presenza femminile è pressoché tripla rispetto a quella maschile (14). Per avere una visione completa del fenomeno, sarà opportuno ricor­dare come un altro 2% è costituito da separati, un 1% da divorziati ed un 12% da coniugati (il residuo 8% risulta non censito). Questo dato si compenetra e si integra con quelli relativi alle conseguenze delle trasformazioni della struttura familiare, che negli ultimi trent'anni ha perso le sue residue connotazioni patriarcali per passare attraverso una strutturazione nucleare, che di­viene sempre più unicellulare, cioè composta da una sola persona (15).

Nel periodo 1951/81 il numero dei componen­ti della famiglia media veneta è passato da 4,7 a 3; sono contemporaneamente aumentate del 79% le famiglie composte da un'unica persona, del 41% quelle con due, del 25% quelle con tre e quattro; è invece diminuito del 23,3% il nume­ro delle famiglie con cinque o più componenti; nello stesso periodo la percentuale delle fami­glie complesse, cioè composte da più nuclei con­viventi, è passato dal 33% al 12,6%. Una delle conseguenze di queste trasformazioni struttura­li, è la caduta della solidarietà familiare (per im­possibilità a farvi fronte), che diviene partico­larmente evidente nei casi in cui ad aver bisogno di assistenza è una donna, in quanto è sempre più difficile trovarne una seconda nella stessa fa­miglia in grado di provvedervi. Non dobbiamo infatti dimenticare come alla donna sia stato delegato il compito dell'assistenza, che si assom­ma alle cure domestiche e alle attività lavorative tradizionali.

In assenza o carenza di solidarietà parentale e/o di servizi sociali, si deve ricorrere all'assi­stenza domiciliare privata, accessibile esclusi­vamente a chi ne abbia i mezzi economici; le anziane di oggi, che sono molto spesso le casa­linghe di ieri, possono accedervi meno frequen­temente che gli uomini e debbono generalmente rassegnarsi al ricovero, a meno che non siano ti­tolari di cospicui patrimoni personali o di una consistente posizione previdenziale. Questa ul­tima ipotesi è però abbastanza rara in quanto, nella stragrande maggioranza dei casi, sono ti­tolari di pensioni minime (di reversibilità o an­zianità), e solo nell'1% dei casi, contro il 7% degli uomini, fruiscono di una pensione (fra quelle erogate dal Fondo lavoratori dipendenti dell'INPS) di importo superiore al milione men­sile (5).

Un ultimo dato a conferma della discrimina­zione cui la donna è soggetta, è rappresentato dalla forte tendenza presente in sede di dibattito per la formulazione delle leggi finanziarie a ridurre la fiscalizzazione degli oneri sociali sul­la manodopera femminile, così da disincentivar­ne l'occupazione, quasi a volerla rìcondurre al tradizionale ruolo casalingo ed assistenziale all'interno della famiglia (16).

 

L'assistenza sanitaria agli anziani non autosufficienti a Venezia

I dati, che emergono dalla nostra recentissima indagine sull'ubicazione dei decessi di ultrases­santacinquenni veneziani, lasciano intravedere luci ed ombre dell'assistenza sanitaria agli an­ziani non autosufficienti residenti nel nostro Co­mune.

Dal confronto dei dati omogenei relativi agli anni 1981 e 1985, si evidenzia un incremento - in termini assoluti e percentuali - dei decessi av­venuti nelle strutture sanitarie residenziali, sia in quelle pubbliche (+101 pari a +5,5%) pas­sati da 1.822, pari al 70,27% di tutti i decessi, a 1.923, pari al 71,75% degli stessi; sia in quel­le convenzionate (+115 pari a +202%) che sono addirittura triplicate, passando da 57, pari al 2,2%, a 172, pari al 6,42%. Di contro si è veri­ficato un decremento di quelli avvenuti in case di riposo (-43 pari a -14,6%) passati da 336, pari ai 12,96% a 293, pari al 10,94% di tutti i decessi.

Il giudizio su questo fenomeno non può che essere articolato: positivo, per quanto riguarda il fatto che il Servizio sanitario nazionale tende a scaricare sempre meno al settore assistenziale gli ammalati in fase terminale ed i cronici più gravi; negativo, per il fatto che le case di riposo, pur accogliendo sempre meno questi utenti, ten­dono ad ospitare sempre più quelli non autosuf­ficienti stabilizzati.

Questi dati, che approfondiremo in un prossi­mo lavoro, evidenziano un fenomeno che è sta­to reso possibile dall'incremento della disponi­bilità di posti letto per lungodegenti presso cli­niche convenzionate con rette a totale carico del Servizio sanitario nazionale.

Tali elementi non possono però indurci tout­court a farci promotori di un servizio sanitario per soli anziani, magari gestito da privati; anche se con questi presupposti è facile immaginare come diverrebbe obbligata la scelta di strutture geriatriche ghettizzanti, in luogo di servizi sani­tari teoricamente aperti a tutti, ma che di fatto tendono a non accogliere molti anziani. Questi elementi debbono quindi farci riflettere su come promuovere un servizio sanitario concretamente aperto a tutti.

Riferendoci alle cliniche convenzionate, non dobbiamo dimenticare che queste si configurano spesso come una razionalizzazione delle struttu­re assistenziali, e si differenziano da queste ul­time solo per «il chi deve pagare le rette». Il ricorso alle cliniche convenzionate lascia inoltre immutata la tendenza del Servizio sanitario na­zionale a produrre cronici per scaricarli ad altri. Un ulteriore elemento che ci induce ad espri­mere un giudizio negativo sulla tendenza in atto, è quello relativo ai numero dei decessi avvenuti in abitazioni private (10,08%). Partendo infatti dal presupposto logico che almeno un anziano su dieci possa morire dì morte naturale, all'im­provviso o per futili cause, si è portati a trarre la conclusione che i1 Servizio sanitario nazionale, oltre ad ignorare la prevenzione della cronicità, ignora anche le cure e la riabilitazione praticate in strutture che non siano quelle residenziali, é che sono peraltro negate a troppi anziani non autosufficienti.

 

Degenze improprie e degenze illegittime

Il ruolo di monopolio attribuito agli ospedali nel campo della medicina specialistica, costitui­sce il principale fattore di destabilizzazione dell'assistenza sanitaria, in quanto produce il fe­nomeno delle degenze improprie o quello della omissione di assistenza (illecite dimissioni o non accettazione in ospedale di determinate catego­rie di ammalati).

Nel linguaggio comune si intendono per de­genze improprie, tutti quei ricoveri ospedalieri che richiedono prestazioni teoricamente pratica­bili anche a domicilio o ambulatoriamente (accer­tamenti diagnostici, prestazioni riabilitative, as­sistenza generica ed infermieristica, cure mini­me ecc.). Indipendentemente però dal fatto che si concordi o meno con questa valutazione, le degenze improprie potranno dar luogo a dimis­sioni o non accettazioni solo qualora divengano illegittime, cioè nel caso in cui il Servizio sani­tario nazionale sia in grado di assicurare presta­zioni alternative quantitativamente e qualitativa­mente adeguate, o comunque qualora ciò sia esplicitamente previsto da precise disposizioni di legge che non contrastino col principio costi­tuzionale che assicura a tutti i cittadini eguali diritti alla salute.

Per smitizzare il luogo comune che vuole gli ammalati cronici non autosufficienti tra i princi­pali responsabili del dissesto finanziario della sanità, riporto le conclusioni cui sono pervenuti due ricercatori in un'indagine sulle degenze im­proprie (17).

Su 408 ricoveri presi in esame (186 in una di­visione medica e 222 in una chirurgica), il 79,65% può considerarsi costituito da ricoveri appro­priati, il 18,13% da ricoveri impropri ed il 2,2% di dubbia necessità. Su un totale di 74 degenze improprie n. 24 (32,4%) sono state motivate da accertamenti eseguibili anche ambulatoriamente, n. 22 (29,7%) da terapie eseguibili a domicilio, n. 9 (12,1%) da patologie di tipo psichico se­guibili anche ambulatoriamente, n. 7 (9,5%) da patologie non di competenza del reparto consi­derato, n. 1 (1,4%) per evitare tempi di attesa per indagini strumentali, n. 3 (4,1%) per altri motivi, e solo 8 (10,8%) per i cosiddetti motivi assistenziali. L'indagine prende poi in conside­razione le ritardate dimissioni dovute a cause non mediche. I motivi che hanno causato prolun­gamenti delle degenze per 25 ricoverati della di­visione medica sono così sintetizzabili: 7 casi per motivi organizzativi del reparto, 6 assisten­ziali, 5 perché il paziente non si sentiva guarito, 2 per ritardo nella consulenza specialistica, ed un caso per ognuno dei seguenti motivi: trasferi­mento in casa di riposo, ritardo nell'esecuzione di indagini strumentali, attesa posto letto in altra ULSS, trattamento fisioterapico, patologia iatro­gena.

Su questo argomento si potrebbe scrivere all'infinito, non ci sarebbe che l'imbarazzo della scelta. Pazienti letteralmente dimenticati in cor­sia, altri che si vedono ripetutamente rinviato l'intervento operatorio, altri in lista d'attesa per accertamenti diagnostici quali il TAC, ecc. Ma quel che è più scandaloso sono i casi di rico­veri, sollecitati prima, e prolungati a dismisura dai sanitari poi, per giustificare la sopravviven­za di reparti e divisioni superflue; all'ospedale di Malo (Vicenza), costi di degenza giornaliera due milioni, quindici giorni di ricovero per un callo, diciotto per una ciste. Senza poi contare l'abuso di accertamenti diagnostici (decine di elettrocardiogrammi allo stesso paziente), non­ché un elenco di quelle che sembrano vere e proprie torture: 93 applicazioni di crioterapia su un solo paziente, 85 iniezioni sclerosanti su di un altro. Il risultato, oltre ai rischi per i pa­zienti, è che tutto ciò ha costi sociali eleva­tissimi (18).

Chiaramente questo è un caso limite; si pos­sono però citare situazioni altrettanto gravi che rientrano nella norma. All'ospedale geriatrico G.B. Giustinian di Venezia funzionavano un repar­to ginecologico ed uno di otorinolaringoiatria, a dir poco grotteschi. Il primo accoglieva non più di due o tre ricoverate contemporaneamente e di­cono che, quando giungevano in visita ufficiale amministratori e politici, si faceva prestare pa­zienti da altri reparti. Il secondo teneva rico­verati pazienti affetti da labirintosi (ai quali ve­niva somministrata solo qualche pastiglietta e forse qualche iniezione al giorno) anche per 60 giorni. Nello stesso ospedale si lesina sulla du­rata delle degenze dei cronici. Ora il primo re­parto è stato chiuso ed il secondo è in procinto di esserlo, solo perché si è trovata una colloca­zione più prestigiosa per i due primari che prima vi si erano opposti con tutti i mezzi.

 

A chi compete il trattamento del cronico non riabilitabile?

Definita la nuova illegittima funzione attribuita alle case di riposo e le contraddizioni insite nell'organizzazione del Servizio sanitario nazionale, non mi pare opportuno lasciarmi andare a disqui­sizioni sul numero di patologie dalle quali sono mediamente affetti i ricoverati, né tanto meno sulle più idonee modalità di intervento; meglio è andare dritti al merito del problema, chi è competente a trattarli, o meglio chi è obbligato a farlo?

Da più parti si sostiene, ad esempio, che il trattamento dell'emiplegico, o più semplicemen­te delle sue piaghe da decubito, cessa di essere competenza della sanità per passare al comparto assistenziale nel momento in cui si decide di classificare l'ammalato come cronico (19). La qual cosa generalmente avviene perché il pa­ziente non è obiettivamente riabilitabile, o più semplicemente perché si ha bisogno del suo posto letto per un ammalato più gratificante o appartenente ad una categoria con maggior po­tere contrattuale (20). Lo stesso discorso vale per i pazienti affetti da ogni altra patologia cura­bile ma non guaribile, che necessitano di cure minime ed assistenza generica.

Purtroppo questa logica pseudotecnicistica ha affascinato anche molti operatori e politici de­mocratici che, portando il dibattito sul piano pre­valentemente scientifico, hanno contribuito a to­gliere le castagne dal fuoco a chi ci governa, fa­cendo ricadere sui tecnici la responsabilità delle loro scelte impopolari, ed hanno legittimato una cultura che dì fatto persegue la razionalizzazione dell'emarginazione e non il suo superamento.

Questa impostazione del dibattito è, a mio av­viso, riduttiva e fuorviante in quanto sposta sul piano tecnico una discussione che è prevalente­mente politica. Dando per scontato che debba essere la sanità a farsi carico degli interventi nei confronti di tutti i cittadini ammalati, inclusi gli emiplegici non riabilitabili, i dementi ed ogni altro tipo di disabile curabile ma non guaribile, vorrei estendere la riflessione anche ai non au­tosufficienti «sani» quali i grandi senili, cioè co­loro che non riescono a compiere le abituali fun­zioni della vita quotidiana a causa dell'età avan­zatissima. Accomunando il destino di tutti i non autosufficienti, il quesito da porsi non è tanto se a prendersene cura debba essere la sanità o l'as­sistenza, bensì se debba essere la collettività o la famiglia o in sua carenza la pubblica benefi­cenza o la carità privata. Solo se ci troveremo d'accordo sul diritto di ogni cittadino non auto­sufficiente alla sicurezza sociale, potremo, liberi da ogni condizionamento di sorta, discutere sere­namente per stabilire dove sia obiettivamente op­portuno che terminino le competenze della sa­nità ed abbiano inizio quelle paraprevidenziali o sociali di altro tipo.

La prima ipotesi trova pieno accoglimento in una concezione di Stato sociale di tipo integra­le, quindi in un sistema di sicurezza sociale uni­versalistica - finanziato tramite l'imposta ge­nerale sui redditi - che assicuri il benessere psicofisico a tutti i cittadini senza distinzione alcuna, quale diritto ampiamente sancito dalla Costituzione. La seconda fa riferimento ad una concezione caritativa di pubblica beneficenza, af­fidata alla gestione discrezionale, degli Enti lo­cali, che stigmatizza la miseria di una parte del­la popolazione, cui si pone riparo con interventi mortificanti (21).

Purtroppo oggi sta affermandosi questa secon­da linea d'intervento; ciò grazie al consenso di tutte le forze politiche e dei movimenti di massa, o comunque a causa del disinteresse di quelli che dovrebbero e potrebbero opporvisi. Poiché nessuno oserebbe teorizzare esplicitamente que­sta prassi anacronistica, si parla di promozione di uno Stato sociale di tino residuale, che in­tervenga solo nei confronti delle classi meno abbienti.

L'alibi addotto per giustificare la mancata rea­lizzazione della Stato sociale è quello della ca­renza delle risorse economiche a disposizione, argomentazione questa facilmente contestabile, almeno sintanto che i vari Governi ed il Parla­mento perseguono una politica della spesa pub­blica che privilegia altri settori e fino a che non si riesce a razionalizzare il comparto della sicu­rezza sociale.

Purtroppo occorre ricordare come anche i par­titi che sono all'opposizione ed i sindacati han­no in gran parte convenuto sul l'interpretazione che vuole la spesa sociale in buona parte respon­sabile del disavanzo del settore pubblico e sul­la conseguente conclusione dell'inevitabilità del­la crisi del Welfare State nel nostro paese. Non voglio qui entrare nel merito delle scelte poli­tiche fatte sinora in materia di finanza pubblica, la qual cosa ci porterebbe troppo lontano; alcune considerazioni vanno però fatte, se non altro per non far sentire í fruitori dei servizi sociali re­sponsabili della bancarotta dello Stato. Ad esse­re in parte responsabile del disavanzo pubblico non è tanto la spesa sociale (sanità e previden­za), in gran parte finanziata dai contributi obbli­gatori degli assicurati, quanto l'assistenzialismo alle imprese (fiscalizzazione degli oneri sociali, cassa integrazione, incentivazione per gli investi­menti, ecc.), finanziate dal sistema impositivo, nonché gli interessi passivi relativi al debito pub­blico consolidato, che detti trasferimenti alle imprese hanno contribuito in gran parte a pro­durre. Quanto poi ai costi per sanità e previden­za da un canto, ed assistenzialismo alle imprese ed interessi passivi dall'altro, va ricordato come i secondi siano solo dì poco inferiori ai primi, che nel quadriennio 1981/84 hanno superato i 400.000 miliardi, di cui 220.000 per trasferimenti alle imprese (22).

L'altro elemento da prendere in considerazio­ne è quello relativo ai privilegi, alle disfunzioni ed agli sprechi e parassitismi che inibiscono l'in­staurarsi di un equilibrato rapporto fra costi e benefici nell'ambito della sicurezza sociale. Si pensi, ad esempio, che nel 1984 una percentuale compresa fra l'8% ed il 20% di tutte le pensioni di invalidità previdenziale e delle integrazioni dì pensioni minime, erano non dovute; senza poi contare le babies pensioni e gli altri infiniti pri­vilegi previdenziali (23).

A questi vanno poi aggiunte le inefficienze e gli sprechi dei pubblici servizi, quali quelli da me descritti nel paragrafo precedente. A tale pro­posito vorrei inoltre riferire le conclusioni cui è pervenuta un'indagine curata dal CESPE, riporta­te dalla rivista Rinascita in un articolo risalente a cinque anni or sono. Fatta 100 la produttività dei dipendenti ospedalieri nel 1971, questa si era ridotta a 51 nel 1980.

 

Conclusioni

Essendo stato portato il problema dal piano tec­nico a quello economico, la scelta non può che essere politica. Chi deve provvedere alle esi­genze di tutti i cittadini divenuti non autosuffi­cienti a causa di disagi psicofisici? Vorrei an­cora una volta ricordare che questi cittadini sono tutelati da una vasta legislazione non ancora abro­gata, che prevede l'assistenza sanitaria a tempo indeterminato e la corresponsione della pensione di invalidità civile e dell'indennità di accompa­gnamento dovuta ai totalmente inabili, quindi an­che ai dementi, ai grandi senili e ad ogni altro soggetto totalmente non autosufficiente.

A questo punto si possono trarre le conclu­sioni di tutto il lungo discorso: a meno che si voglia abrogare tutta la vigente legislazione in materia, deve essere lo Stato, tramite un nuovo ministero per la sicurezza sociale, a provvedere ai non autosufficienti. In questo caso credo di­venga irrilevante, sia per l'utente che per il Mi­nistero del bilancio, il fatto che i costi alber­ghieri del ricovero siano a carico del Servizio sanitario nazionale o di altro servizio pubblico, importante è che sia la sanità a garantire diret­tamente la continuità e la globalità dell'interven­to al non autosufficiente. Qualora poi il Parla­mento stabilisca l'inopportunità che sia lo Stato a farsi totalmente o parzialmente carico dei costi alberghieri del ricovero, approvi una legge che equipari i ricoverati in ospedale a quelli in altre strutture residenziali nel pagamento di un ticket sui costi alberghieri.

 

 

 

(1) Cfr. Rapporto della commissione d'indagine Gorrieri sulla povertà in Italia, in Prospettive sociali e sanitarie 8/9, 1986.

(2) Cfr. Indagine parlamentare del 1951 sulla miseria in Italia.

(3) Cfr. PAOLO MIELI, «Poveri ma non belli, ecco come eravamo, dati ISTAT», «Repubblica», 3 giugno 1986, p. 5.

(4) Cfr. MAURIZIO PEDONI, «Oggi sono in troppi a ricevere troppo poco», in Conoscere e partecipare, 30/1985, pp. 792/803.

(5) Cfr. «Gli anziani ospiti presso gli istituti del Vene­to», in Quaderni della Banca dati, 1/1986, a cura dell'As­sessorato all'assistenza della Regione Veneto.

(6) Cfr. «Indagine sui servizi sociali nel Veneto», IRSEV, 1977.

(7) Cfr. M. TOMAS, Dati sulla mortalità di persone an­ziane nel comune di Venezia nel 1981.

(8) Fonte: Assessorato alla sicurezza sociale del comu­ne di Venezia.

(9) Nel 1985 esso variava dalle 10 alle 14.000 lire al giorno, il suo importo era proporzionale alla quantità e qualità delle prestazioni sanitarie erogate dalle case di riposo.

(10) Su una rilevazione relativa all'80% dei ricoverati, il 3% di tutti gli ospiti aveva un reddito inferiore alle 200.000 lire mensili, il 13% fra le 2 e le 300.000, il 27% fra le 3 e le 400.000, l'8% fra le 4 e le 500.000, l'8% fra le 5 e le 600.000, il 21% oltre le 600.000.

(11) Cfr. G. BRUGNONE, «Assistenza e solidarietà, ruo­lo dello Stato e della famiglia», in «Prospettive assisten­ziali», 69/1985, pagg. 6/13.

(12) Nel 1985 la spesa pubblica allargata ha sfiorato il 60% del prodotto interno lordo, cioè una pressione contributiva (tasse, imposte e contributi sociali), che per ogni 100 lire di ricchezza prodotta dagli italiani ne ha sottratti loro 60.

(13) L'età media dei ricoverati nel periodo 1985 - aprile 1986 era nel 6% dei casi inferiore ai 59 anni, nel 9% fra i 60 e i 69, nel 36% fra i 70 ed i 79; nel 41% fra gli 80 e gli 89, nel 7% oltre i 90.

(14) Il 10% degli ultrasessantenni non sono sposati (7,5% nubili, 2,5% celibi), il 25,7% sono vedove, il 7,5% vedovi. Cfr. D. GATTESCHI «Servizi socio-sanitari a dispo­sizione degli anziani», Ed. N.I.S.

(15) Cfr. MARIANGELA GRAINER, intervento al conve­gno, «Dall'eguaglianza alle pari opportunità per la donna», Venezia, febbraio 1986.

(16) Cfr. MAURIZIO PACI, «Approfondire l'analisi sui confini fra assistenza, previdenza e solidarietà», in Cono­scere e partecipare, 30/1985, pp. 785/791.

 (17) Cfr. F. FONTANA S. SAVARIS, «Lo studio dei rico­veri ospedalieri impropri in un ospedale dell'ULSS n. 1 Cadore della Regione Veneto», in Difesa sociale, n. 3, maggio-giugno 1986, pp. 29/39.

 (18) Cfr. ROBERTO BIANCHIN, «Per un callo 15 giorni, per una ciste 18. Ecco le degenze record», in Repubblica, 12.9.1986, pag. 16.

(19) Questa prassi è illegittima in quanto non contem­plata da alcuna disposizione di legge, ed è apertamente in contrasto con i principi costituzionali resi attuativi dalla successiva normativa, culminante con la legge 833/78 isti­tutiva del Servizio sanitario nazionale.

(20) Secondo l'indagine condotta da operatori della USL RM9 «Il malato dichiarato cronico nell'ospedale e nel territorio», le dimissioni per cronicità sono prevalen­temente motivate da necessità di posti letto; infatti esse sono meno frequenti in agosto e dicembre, mesi di minor affollamento degli ospedali, nei quali vi sono però, secondo i mass media, i famosi parcheggi dei vecchi, dovuti alle ferie della famiglia giovane.

(21) Cfr. G. AVONTO, «Nuova povertà e stato sociale» in Prospettive assistenziali, aprile-giugno 1986, pp. 11/17.

(22) Cfr. GIUSEPPE ALVARO, «Stato Sociale e debito pubblico», in Conoscere e partecipare, 30/85, pp. 774/778.

(23) Secondo la commissione Gorrieri, nel 1984 la spe­sa pubblica ha destinato 156.492 miliardi di lire, pari al 31% del prodotto nazionale lordo, il 21,7% per la previ­denza, il 6,75% per la sanità e il 2,59% per l'assistenza.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it