Prospettive assistenziali, n. 76, ottobre - dicembre 1986

 

 

CONSIDERAZIONI SUI PROGETTI DI RIFORMA DELLA GIUSTIZIA MINORILE

FRANCO OCCHIOGROSSO (*)

 

 

PREMESSA

 

Di riforma della giustizia minorile si parla or­mai da molti anni (basta ricordare che il pro­getto Martini risale al 1973 e che il programma della commissione ministeriale Radaelli, tenden­te a redigere un progetto governativo, fallì in­torno alla metà degli anni '70), ma solo ora sembra che si sia creata una volontà politica, che le è decisamente favorevole: infatti, il recente disegno di legge (n. 1742 del 24.3.1985) presen­tato al Senato dal Ministro di grazia e giustizia si aggiunge ad altri quattro già pendenti (quello citato della Martini, n. 2492 del 1973; quello del­la Sinistra indipendente, n. 24 del 19.7.1983, presentato al Senato da Gozzini e Ossicini e altri; quello comunista presentato alla Camera, n. 2211 del 25.10.1984, da Pedrazzi, Cipolla, Spa­gnoli e altri; quello socialista, n. 1589 del 25.11. 1985, proposto al Senato dalla Marinucci, Mariani e da altri), a conferma di un orientamento che raccoglie consensi nella maggioranza delle forze politiche.

Dubbi vi sono non sulla esistenza di una volon­tà politica di riforma, ma sulle linee secondo cui la riforma si farà, in quanto i progetti (o almeno alcuni di essi) si muovono secondo orientamenti divergenti e talora contrastanti su punti non se­condari.

L'esame del disegno ministeriale consentirà di cogliere non solo le prospettive di riforma, a cui esso si ispira, ma anche - per confronto - i punti più significativi che lo avvicinano, lo al­lontanano o addirittura lo separano dagli altri .

Sarà, quindi, opportuno partire dalle ragioni che il disegno governativo e anche gli altri pon­gono a base delle rispettive proposte, per poi passare all'esame del contenuto.

 

LE RAGIONI DELLA RIFORMA

 

I progetti sono sostanzialmente concordi nella individuazione delle ragioni che premono per la riforma (indicate nelle relazioni che precedono l'articolato) e che sono, grosso modo, le seguen­ti: eccessivo accentramento territoriale degli at­tuali tribunali per i minorenni (t.m.) e conseguen­te necessità di avvicinare le strutture giudiziarie all'utente, decentrandole; molteplicità di organi giudiziari che intervengono sui minori con il ri­schio di conflitti di competenza; pericolo di con­traddittorietà dei provvedimenti e conseguente esigenza di unificare in un solo giudice tutte le competenze minorili o, comunque, di modificare il sistema attuale in modo da superare i disagi riscontrati; profondo mutamento della realtà so­ciale e bisogno di adeguare la struttura giudizia­ria minorile ai nuovi referenti istituzionali; ne­cessità di una sempre più completa specializza­zione dei giudici; esigenza di mantenere una struttura giudiziaria duttile e snella, tale da poter intervenire con tempestività e rapidità.

Va subito detto che le ragioni indicate com­portano istanze non convergenti, ma anzi spesso contrastanti tra loro con l'effetto che il maggior peso dato all'una o all'altra porta a soluzioni diverse.

Così l'esigenza di una sempre maggiore spe­cializzazione del giudice comporta, come vedre­mo, la necessità di affrontare il problema della piena autonomia o no degli uffici giudiziari mino­rili rispetto a quelli ordinari; ora, mentre tutti concordano nella necessità della specializzazio­ne, sul problema dell'autonomia le posizioni sono divergenti o addirittura contrastanti e si va dal progetto governativo, che prevede la più com­pleta autonomia degli uffici giudiziari minorili con la creazione di nuovi uffici (quali la corte minorile e la procura generale per i minorenni), a quello socialista che diffida dell'autonomia, va­lutata negativamente in termini di separatezza, fino al punto da proporre l'abolizione dei t.m. e la loro trasformazione in sezioni specializzate del tribunale ordinario, nella prospettiva di una im­probabile osmosi di tutta la magistratura e di una specializzazione dei molti (i giudici ordinari) da parte dei pochi (i giudici minorili).

Del pari, l'esigenza di superare l'attuale mol­teplicità di giudici che si occupano di minori o di problematiche familiari, esigenza che comporta la necessità di assorbire tutte le competenze in un unico giudice, contrasta con quella di man­tenere le attuali caratteristiche di snellezza e rapidità di intervento del giudice minorile, in quanto un ufficio giudiziario molto grande ed ap­pesantito da tanti compiti, tende inevitabilmente a burocratizzarsi ed a rallentare la sua azione: pertanto, privilegiare la prima istanza (come fa, in particolare, il progetto Martini, che istituisce il tribunale per i minorenni e per la famiglia) comporta il prezzo di rinunziare ad un intervento giudiziario tempestivo e rapido; privilegiare la seconda istanza significa rinunziare non solo ad un intervento unitario e globale in materia fa­miliare, ma anche a costituire un unico giudice minorile (in questa linea è, in particolare, il pro­getto Pedrazzi-Cipolla, che prevede vari giudici: il giudice conciliatore, il giudice per i minorenni, il tribunale per i minorenni, la sezione minorile di corte di appello).

Cercare soluzioni intermedie comporta il ri­schio di rinunziare in tutto o in parte ad entram­bi gli obiettivi: questo sembra valere per il pro­getto Marinucci (che da un canto prevede più giudici minorili di primo grado - la sezione spe­cializzata del tribunale per i minorenni per i pro­cedimenti relativi ai minorenni e alle famiglie, la sezione specializzata distrettuale, il giudice tutelare -, dall'altro attribuisce competenze molto ampie alla sezione specializzata del tribu­nale con il pericolo di burocratizzare l'attività); ma sembra valere anche - almeno parzialmen­te - per il progetto Gozzini e per quello gover­nativo, i quali raggiungono l'obiettivo di un unico giudice minorile di primo grado (il t.m.), pagando tuttavia, un po' il prezzo di un certo appesanti­mento dell'attività giudiziaria (conseguente alla attribuzione al t.m. dei procedimenti contenziosi in materia di stato e di quelli relativi agli atti dello stato civile) e un po' quello di una setto­rializzazione dell'intervento, in quanto - come in modo diverso è previsto anche nel progetto Pedrazzi-Cipolla - per i giudizi di separazione, divorzio e nullità di matrimonio viene sancito uno sdoppiamento dei procedimenti, i quali si dovran­no svolgere in parte presso i giudici minorili ed in parte presso il tribunale ordinario.

Infine, l'esigenza di avvicinare il più possibile il giudice all'utente-minore e la relativa istanza di decentramento è contrastata per qualche ma­teria (in particolare per l'adozione) dall'opposta necessità di usufruire di una competenza terri­toriale più ampia. Si determina, quindi, un con­trasto o con la prospettata necessità di un giu­dice minorile unico o con quella di decentramen­to in quanto a si opera la scelta di creare un giudice minorile unico con un territorio abba­stanza ampio, rinunziando a realizzare il massimo decentramento possibile (in questa linea sono il disegno governativo ed i progetti Gozzini e Mar­tini, che attribuiscono al t.m. un'estensione ter­ritoriale abbastanza ampia - la provincia -, sopprimendo in concreto il giudice tutelare, e cioè il giudice minorile più decentrato) oppure si realizza quella del massimo decentramento possibile, rinunziando all'unicità del giudice mi­norile (in questa prospettiva sono il progetto Pedrazzi-Cipolla e quello Marinucci, i quali attri­buiscono alcune materie ad un giudice accentra­to con competenza territoriale ampia, ma preve­dono la presenza di un giudice minorile più de­centrato, rispettivamente il giudice per i mino­renni ed il giudice tutelare).

Questa sommaria panoramica mi è sembrata necessaria per cogliere l'entità di alcuni dei problemi di fondo che ciascun progetto ha dovuto affrontare e delle divergenze che dovrà superare il Parlamento nella eventuale redazione di un progetto unificato.

Secondo la stessa prospettiva, diretta ad indi­viduare le linee di fondo degli orientamenti ac­colti più che ad effettuare una dettagliata analisi dell'articolato, mi sembra opportuno procedere nell'esame del contenuto del disegno Martinaz­zoli, contenuto che - seguendo una linea di massima lo schema dello stesso disegno - è suddiviso in tre punti: a) l'organizzazione giudi­ziaria; b) le competenze; c) i rapporti con i ser­vizi e i nuovi istituti.

 

PARTE I: L'ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA

 

Le linee di fondo del disegno Martinazzoli

Il disegno governativo istituisce la magistratu­ra per i minorenni, disponendo che essa sia co­stituita dai quattro organi giudiziari indicati dall'art. 1 (t.m., procura minorile, corte per i mino­renni, procura generale per i minorenni); indivi­dua nella provincia il territorio di competenza dei primi due, nella regione quello degli altri due; stabilisce che le città di Milano, Napoli, Roma e Torino abbiano più t.m. sulla base del rapporto di un ufficio per un milione di abitanti (art. 2); trasferisce le competenze del giudice tutelare ri­guardanti minori ad un giudice dei t.m. con l'ef­fetto oggettivo di sopprimere il giudice tutelare nella materia minorile (art. 53 e 19). Attribuisce a ciascun ufficio un organico autonomo indicato in apposite tabelle, ma prevede per le sole pro­cure (la presenza dei p.m. è richiesta in tutti i procedimenti) un sistema complesso di assegna­zione di magistrati (artt. 5 e 7), attribuiti alle procure generali, ma operanti presso le procure provinciali, sistema che realizza una sorta di mo­bilità del procuratore minorile (già battezzato per questo «p.m. itinerante») con una norma formalmente ineccepibile, ma che lascia dubbi nella sostanza, perché sembra contrastare il prin­cipio dell'inamovibilità del giudice. Il progetto amplia professionalità e compiti dei giudici­ esperti (espressione che individua i giudici laici, ora indicati con il termine di giudici onorari) con disciplina di numero, durata in servizio, modalità di specializzazione e ruolo (vengono parificati nel­le funzioni ai giudici professionali, potendo pro­cedere all'istruzione di procedimenti: art. 3; alla pronunzia di provvedimenti monocratici d'urgen­za: art. 25; a seguire l'esecuzione dei provvedi­menti: art. 57, oltre a far parte del collegio giudicante); prevede corsi di aggiornamento per ma­gistrati e giudici-esperti (art. 10 e 14).

 

Socializzazione e autonomia della magistratura minorile nei progetti di riforma

Per cogliere la filosofia dell'organizzazione che ispira il disegno governativo è bene partire da una delle ragioni indicate in precedenza e addot­ta a giustificazione della necessità di riforma, quella dell'insufficiente specializzazione e dell'at­tuale parziale autonomia della magistratura mi­norile, perché questo punto di partenza mi sem­bra il più significativo per comprendere alcune delle soluzioni proposte.

È noto che, pur essendo tribunali e procura minorili istituiti sin dal 1934, essi - che già usufruivano di una sede per lo più distinta da quella dei tribunali ordinari - non sono stati dotati di organici autonomi sia di magistrati che di personale fino al 1971 (la legge relativa è la n. 35/1971, varata sull'onda dell'entrata in vi­gore della legge sull'adozione speciale del 1967): in precedenza il tribunale minorile era di fatto una sezione del tribunale ordinario con magistra­ti che vi svolgevano attività a tempo parziale e spesso per brevi periodi. Con la legge del 1971 i t.m. e le procure minorili hanno raggiunto la piena autonomia amministrativo-burocratica e quella dell'organico dei magistrati: ciò, insieme ad altri fattori preesistenti, ma divenuti sempre più incisivi (il contributo dei servizi locali, la continuità ed il tempo pieno nell'attività mino­rile, l'impegno dei giudici laici, l'azione dell'As­sociazione Giudici Minorili) ha favorito il formar­si di un ruolo specializzato di giudici minorili, pur se questa specializzazione è ritenuta da al­cuni ancora insufficiente.

Tuttavia, il progetto di una magistratura mino­rile specializzata è rimasto a metà, perché ha riguardato solo il t.m. e le procure minorili, la­sciando tutti gli altri uffici che si occupano di mi­nori nelle stesse condizioni in cui tutta la magi­stratura minorile era prima del 1971: pertanto, sia gli organi giudiziari che gestiscono le impu­gnazioni contro i provvedimenti del t.m. (sezioni minorili di corte di appello e procure generali), sia le prime sezioni dei tribunali civili, che si occupano di separazioni e divorzi e affidamento di figli minori, sia il giudice tutelare - compito affidato sempre al pretore - sia i giudici penali per reati contro i minori (maltrattamenti, violen­ze sessuali, inosservanza di obblighi di assisten­za familiare, ecc.) hanno continuato a svolgere queste competenze insieme a moltissime altre e come le altre: sono, cioè, rimasti giudici non specializzati. L'effetto è stato che ai problemi derivanti dalle difficoltà interpretative della leg­ge (significativa quella relativa ai figli di separati ed i conflitti di competenza tra tribunali ordinari e t.m.) si sono aggiunti quelli relativi al diverso livello di specializzazione dei giudici. Si sono venuti, quindi, manifestando radicali conflitti tra i t.m., sezioni minorili di corti d'appello e procu­re generali sia in materia civile (con revoca di decreti di adottabilità o autorizzazioni all'adozio­ne internazionale concesse dalle corti d'appello a coniugi, non ritenuti idonei dal t.m.), sia in ma­teria penale (con sanzioni talora severissime a minori imputati, trattati con indulgenza dai t.m.), contrasti di cui si sono talora fatti interpreti í capi degli uffici ordinari (in particolare, i procu­ratori generali nelle relazioni annuali, ma anche i presidenti delle corti d'appello) con pesanti at­tacchi alle linee di politica giudiziaria dei t.m., accusati in genere di lassismo nel settore penale.

Questo importante problema è affrontato in modo implicito dal progetto governativo ed espli­citamente da quello Marinucci, ma con valuta­zioni differenti: l'individuazione di queste diffe­renti valutazioni è la chiave di volta per spiegare alcune importanti soluzioni organizzative che ne derivano. La questione risulta invece meno luci­damente presente negli altri progetti.

Il progetto governativo non tratta nella rela­zione l'argomento, ma le valutazioni implicite in proposito si desumono dalle soluzioni adottate nell'articolato. Esso presuppone che la completa tutela giudiziaria del minore possa realizzarsi solo con la piena specializzazione di tutti i ma­gistrati, che si occupano di minori, e con la com­pleta autonomia della magistratura minorile ri­spetto a quella ordinaria.

In sostanza, si attribuiscono i guasti indicati in precedenza alla mancata specializzazione di una parte dei giudici, che si occupano di minori; si guarda con diffidenza ogni potere che il magi­strato ordinario non specializzato possa avere sul minore direttamente o indirettamente (cioè anche mediante il potere di sorveglianza sul giu­dice minorile); si ritiene che solo la completa autonomia sia nell'organico dei magistrati che nel personale degli uffici possa consentire la completa tutela del minore. Quindi, il disegno parzialmente realizzato con la legge 35/1971 viene completato, attribuendo la piena autono­mia (oltre che ai t.m. e alle procure minorili, che già ne usufruiscono) anche ai giudici dell'impu­gnazione: a tale fine si creano ex novo 1a corte per i minorenni (in sostituzione della sezione minorile della corte di appello) e la procura ge­nerale per i minorenni (che prende il posto dell'attuale procura generale) e si attribuisce ai capi di questi uffici il potere di sorveglianza sulla ma­gistratura minorile. Vengono per la stessa ragio­ne assorbite nei t.m. sia le competenze attuali dei tribunali ordinari in tema di separazioni, di­vorzio, nullità di matrimoni in presenza di figli (con la sola esclusione delle questioni patrimo­niali), sia quelle del giudice tutelare minorile, che viene soppresso.

Il progetto Marinucci parte da una analisi espressa e più articolata del problema: attribui­sce l'attuale deterioramento della situazione non solo alla mancata specializzazione di una parte dei giudici, ma anche alla mancata osmosi di esperienze e informazioni tra giudici ordinari e giudici minorili e, quindi, alla separatezza tra giudice ordinario e giudice minorile. Guarda cri­ticamente all'attività svolta dalla magistratura minorile, considerando come conseguenza nega­tiva della sua separatezza e del suo isolamento culturale il crearsi dell'ideologia del giudice minorile promotore dei diritti del minore con il conseguente ruolo di supplenza svolto nell'ul­timo decennio rispetto alle strutture della so­cietà civile; con il pericolo di confusione di ruoli e di conflitti tra giudice minorile e autorità am­ministrativa; con il rischio di protagonismo pa­ternalista del giudice minorile.

In coerenza con quest'analisi, il progetto Ma­rinucci propone l'abolizione dei t.m. e delle pro­cure minorili e la loro sostituzione con sezioni specializzate dei tribunali ordinari (o distrettuali) e delle corti d'appello. Ritiene valido l'attuale in­tervento del giudice tutelare e lo conferma nei suoi compiti. Lascia i poteri di sorveglianza ai capi degli uffici ordinari.

Il problema non è affrontato in modo adegua­to negli altri progetti: quelli Gozzini e Martini, favorevoli ad una ampia specializzazione del giu­dice minorile, non propongono soluzioni sul pro­blema dell'autonomia, ma si limitano - come il progetto Marinucci - a confermare la situazione attuale con una sezione di corte di appello (che dovrà essere specializzata) per le impugnazioni ed a lasciare la sorveglianza sugli uffici minorili ai capi della corte ordinaria.

Il progetto Pedrazzi-Cipolla risolve il problema indirettamente e parzialmente: infatti, articolan­do quattro diversi livelli della struttura giudizia­ria minorile (giudice conciliatore, giudice per i minorenni, tribunale per i minorenni, sezione mi­norile di Corte di Appello) fa in modo che tutti i provvedimenti relativi alle non modeste compe­tenze del giudice per i minorenni siano decise, in caso di impugnazione, dal tribunale per i mino­renni, cioè da un giudice specializzato. Ma i prov­vedimenti relativi alle competenze, pur significa­tive, attribuite In primo grado al t.m. (adozione e reati più gravi commessi da minori) dovrebbe­ro continuare ad essere vagliati in grado d'ap­pello dalla sezione minorile della Corte d'appel­lo, che non sarebbe neppure una sezione specia­lizzata.

Nulla si dice poi per la sorveglianza sugli uf­fici minorili, per cui implicitamente si deve rite­nere che venga seguita la via dei progetti Goz­zini e Martini. Infine, è previsto che il giudice per i minorenni (nel caso in cui non operi in una sede in cui esiste anche il t.m.) operi presso un tribunale ordinario, producendo - quanto alla sede - lo stesso negativo effetto che viene con­testato al progetto Marinucci con riguardo a mi­nori (imputati o no) costretti ad entrare nei tri­bunali ordinari a contatto con adulti imputati e con l'apparato giudiziario specifico (si pensi ai minori che debbono presenziare ad udienze nei giorni in cui nello stesso tribunale si celebri un maxiprocesso, con spiegamento di polizia, mitra, controlli ecc.).

Mi sono limitato ad esporre le linee di fondo seguite dai progetti su questo importante punto senza osservazioni critiche perché ritengo che le loro valutazioni di partenza abbiano tutte qual­cosa di valido: certamente la mancata specializ­zazione di una parte dei giudici minorili è causa delle maggiori frizioni rilevate; raggiungendo, quindi, lo scopo della specializzazione di tutti i giudici minorili si farebbe già un grande passo avanti. Ritengo importante anche il conseguimen­to della piena autonomia burocratico-amministra­tiva del giudice minorile per la difesa della sua specializzazione: l'esperienza insegna che un uf­ficio che dipende anche solo per il personale amministrativo dalla complessiva gestione di un tribunale o di altra ufficio ordinario, può facil­mente - in caso di conflitti - essere messo in condizioni di operare poco e male.

Ma sono anche esatte, a mio avviso, molte delle osservazioni critiche avanzate dal proget­to Marinucci a proposito del giudice minorile. Forse però, in questa progetto, vi è una discrasia tra le valutazioni contenute nella relazione e le linee operative proposte. E infatti, l'accusa di pericolo di protagonismo non può essere limi­tata al giudice minorile, ma è problema di tutta la magistratura: partì proprio da questa accusa la proposta poi rientrata di abrogazione del pre­tore (era l'epoca dei c.d. pretori d'assalto); la necessità di osmosi tra giudici minorili ed ordi­nari esiste, ma non è certo ponendo i giudici ne­gli stessi uffici giudiziari che si realizza (come dimostra la separatezza anche di altri giudici specializzati); l'ideologia del giudice promotore di diritti ed i rapporti con le autorità amministra­tive meritano un discorso più attento sul ruolo del giudice, che riserviamo alla parte conclusiva del nostro discorso.

 

Il territorio

Mentre, quindi, sul problema della specializza­zione dell'autonomia il progetto governativo se­gue una linea di orientamento radicale, sotto altri profili esso tende a perseguire linee per così dire di mediazione.

Così, per quanto riguarda l'individuazione della competenza territoriale ed il riferimento ai nuovi referenti istituzionali, che sono richiamati nella relazione.

Attualmente la competenza dei t.m. si indivi­dua sulla base della tradizionale ripartizione ter­ritoriale giudiziaria ed è per lo più estesa quanto la corte d'appello da cui dipende: si dice tecni­camente che ha una competenza territoriale di­strettuale (comprende più province o spessa la intera regione); il giudice tutelare ha competen­za mandamentale, identica cioè a quelle della pretura, in cui è incardinato; il tribunale ordi­nario ha un territorio (il circondario), che è nor­malmente più ridotto della provincia.

Accorpando le competenze (almeno in parte) di questi giudici il disegno individua come ter­ritorio dei t.m. e delle procure la provincia: fa, quindi, riferimento non alla ripartizione territoria­le giudiziaria, ma a quella amministrativa, senza tuttavia richiamarsi ai referenti istituzionali più recenti e significativi in materia di servizi (quali le USSL e le Regioni), in quanta privilegia un re­ferente ormai superato, la provincia: una media­zione, quindi, sia sotto il profilo dell'estensione del territorio dei vari giudici, le cui competenze vengono inglobate dal nuovo t.m., sia sotto quel­lo dei referenti istituzionali. Infatti la scelta del referente «provincia» è indubbiamente a scapito delle USSL che comprendono comuni di province diverse (così, ad esempio, in Piemonte) e che dovranno, quindi, fare capo a più t.m.

Nella stessa prospettiva si muovono i progetti Gozzini e Martini mentre alla tradizionale ripar­tizione territoriale giudiziaria si rifà il progetto Martinucci. Più adeguato alla nuova realtà isti­tuzionale risulta indubbiamente il progetto Pe­drazzi-Cipolla, che attribuisce al giudice per i minorenni una competenza territoriale ricollega­ta alle USSL (un giudice per i minorenni ogni 400.000 abitanti e comunque operante nell'ambi­to territoriale di uno o più servizi sociali) ed alla regione (i t.m. e le sezioni minorili di corte di appello).

 

La composizione del collegio giudicante. Il p.m. - Il presidente del t.m. - I t.m. nei grandi centri

Una linea di mediazione sembra guidare il di­segno governativo anche in altre scelte di orga­nizzazione giudiziaria: in particolare nella com­posizione del collegio giudicante, nell'organizza­zione del p.m. minorile, nell'attribuzione del ruo­lo di presidente, nella previsione di più t.m. nel­le città di Milano, Torino, Roma e Napoli.

Per quanto riguarda la composizione del col­legio giudicante, il disegno governativo mantie­ne l'attuale composizione (quattro giudici: due professionali e due laici) con alcuni correttivi per superare i problemi che la composizione stessa ha determinato. Non ritiene ancora matura sul piano culturale la composizione collegiale a tre con prevalenza dei giudici esperti che altri pro­getti (Gozzini, Marinucci, Pedrazzi-Cipolla) pre­vedono. In contrapposto, il progetto Martini pre­vede un collegio a tre con prevalenza di giudici professionali.

Anche per quanto riguarda gli uffici della pro­cura, il disegno Martinazzoli sembra seguire una linea di mediazione: tra la scelta del progetto Pedrazzi-Cipolla, che esclude la presenza del p.m. in materia civile, riducendola notevolmente nel­la materia penale, e quelle degli altri, che lascia­no intatta la presenza ed il ruolo del p.m., esso si orienta - anche per evitare la sottoutilizzazio­ne di magistrati - per un sistema (illustrato dagli artt. 5 e T) che crea il p.m. «itinerante» secondo quanto già detto. Sistema che suscita le perples­sità già indicate e che sembra - sia pure alla lontana e sola sotto il profilo della mobilità del giudice - riecheggiare il criterio applicato dal progetto Pedrazzi nel rapporto tra giudice per i minorenni e t.m.

Qualche osservazione va poi fatta in ordine al ruolo del p.m. minorile. A mio avviso, non ha senso lasciare, anche dopo la riforma, il p.m. nel ruolo tradizionale del pubblico accusatore «buono» per il ragazzo «cattivo», soprattutto quando dovesse venir meno - con l'istituzione di procure generali per minorenni - l'esigenza di una mediazione tra le attuali procure generali non specializzate ed i tribunali minorili.

Perciò, o si ha il coraggio di proporre una linea di organizzazione giudiziaria, come quella del pro­getto comunista, che a mio avviso è opportuna; oppure è indispensabile riempire anche di altri contenuti il ruolo del p.m., al quale si deve at­tribuire un maggiore spazio. E chi segue questa seconda via non può orientarsi se non nella dire­zione indicata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 222/1983, secondo cui il tribunale per i minorenni è uno degli istituti posti a protezione della gioventù e, quindi, il p.m. non può essere che un attivo cooperatore in questa funzione. In questa prospettiva - che è quello del disegno governativo e di altri - sarebbe, quindi, auspi­cabile l'espressa previsione di un ruolo non sta­tica del p.m., di un suo attivo contributo, ad esempio nell'apertura di procedimenti civili ad iniziativa di parte con l'assunzione a verbale dell'istanza orale (art. 48); ad esempio, nella predi­sposizione di provvedimenti di prescrizioni e di programmi di trattamento civili e penali sia in caso di difficoltà di socializzazione che per altri tipi di disagio; proposte di provvedimenti che verrebbero poi sottoposte all'esame del tribunale per la decisione.

In tal modo si otterrebbe anche un maggiore equilibrio tra impegni del p.m. minorile e del t:m.; inoltre un intervento di questo genere del p.m. potrebbe avere, in questo settore, il vantag­gio di una maggiore tempestività e completezza, in quanto a lui per primo pervengono le segnala­zioni di giovani anche non imputabili alle prime manifestazioni di devianza; il p.m. è anche il giu­dice che più di altri può essere in grado di co­gliere l'effettiva entità del disagio (sulla base del numero di denunzie pervenute per lo stesso mi­nore in un certo arco di tempo; del concreto com­portamento del medesimo nei fatti denunziati; della gravità dei fatti stessi); di tener conto an­che di altre implicazioni o circostanze utili (qual è il gruppo deviante in cui è inserito; se i fatti sono commessi insieme con maggiorenni, ecc.); di valutare l'urgenza dell'intervento e le moda­lità di svolgimento senza inutili duplicazioni con il t.m.

Ancora, per quanto riguarda i t.m. (e le pro­cure minorili), scompare nel disegno governativo la tradizionale composizione che distingue tra presidente e giudici (e tra procuratore e sosti­tuti procuratori), composizione prevista invece dai progetti Pedrazzi-Cipolla (art. 4) e da quello Martini (art. 2): il progetto governativo attribui­sce il ruolo di presidente al giudice più anziano (art. 3) tra i giudici professionali.

Il problema dei capi degli uffici giudiziari e del­la loro nomina è ormai da tempo dibattuto: da tempo esiste la proposta di rendere eleggibili i capi degli uffici giudiziari (come avviene nelle università per l'elezione dei rettori). Ma tale pro­posta non è stata finora attuata.

La soluzione indicata dal disegno governativo costituisce, quindi, una novità assoluta nel pa­norama giudiziario ed è suggestiva, perché rende quello di presidente del t.m. (e di procuratore) un ruolo funzionale solo al servizio, non più uno dei primi gradini del cursus honorum del magi­strato. Essa però presenta - a mio avviso - il limite di essere una soluzione «separata»: non si tratta, cioè, del frutto di una riflessione globale sul ruolo dei capi degli uffici in tutta la magistra­tura e, quindi, di una scelta valida per tutti; ma di un orientamento applicato (e non poteva esse­re diversamente in un progetto di riforma mino­rile) solo agli uffici giudiziari minorili. Salvo che non si sia voluto, in tal modo, creare un prece­dente da utilizzare poi in sede di riforma dell'or­dinamento giudiziario: ma è forse una ipotesi di fantapolitica, tanto più che singolarmente una so­luzione di tanto rilievo non è accompagnata nep­pure da un rigo di illustrazione nella relazione, sì da apparire non certo il frutto di una riflessione globale sul ruolo dei capi degli uffici giudiziari in genere, ma neppure il frutto di una riflessione specifica sui ruolo dei capi uffici minorili. Così proposta, tale scelta rischia di far perdere peso ai t.m. e di renderli eventualmente più vulnera­bili rispetto ad altri uffici giudiziari.

Anche frutto di mediazione è la soluzione di prevedere in quattro città italiane la presenza di più tribunali minorili nel rapporto di uno ogni mi­lione di abitanti. Questa proposta non trova ri­scontro negli altri progetti: essa è giustificata nella relazione (pag. 5) con la necessità di tener conto delle esigenze di snellezza e tempestività dell'intervento giudiziario. Si tratta, quindi, di un tentativo di mediazione tra l'entità delle compe­tenze attribuite, l'estensione territoriale e le esi­genze di duttilità dell'intervento. Motivi di per­plessità nascono oltre che dalla singolarità della proposta per il nostro sistema anche dal timore che - sia pure su base territoriale e non più fun­zionale - si riproduca in quelle sedi quella mol­teplicità di uffici giudiziari che la stesso disegno tende ad eliminare. Vi è, cioè, il timore che la ricorrente mobilità dell'utenza (conseguenza an­che di noti problemi abitativi e di sfratti), mobi­lità molto più frequente nell'ambito dei grandi centri, produca l'effetto di un costante «passag­gio» del minore da un ufficio all'altro con nega­tive conseguenze per il servizio giustizia.

Attenzione merita anche il discorso sul giudice tutelare.

Anche nella valutazione sul ruolo svolto dal g.t., il disegno governativo che lo elimina «per­ché non ha mai effettivamente funzionato per ca­renza di specializzazione» (rel. pag. 6) si scontra con il progetto Marinucci (rel. pag. 5), per il quale esso deve continuare ad esistere «perché ha so­stanzialmente operato bene in questi anni».

Il disegno Martinazzoli ha certamente ragione nella stragrande maggioranza dei casi, perché basta accertare in quante preture d'Italia i com­piti del g.t. siano affidati ad un vice-pretore (in quanto considerati meno importanti da pretori gravati da impegni di lavoro sempre più onerosi) per avere una conferma della correttezza della sua considerazione.

Ma è vero anche che nelle preture di alcune sedi importanti si è costituito negli ultimi decen­ni un ufficio autonomo del giudice tutelare con magistrati a tempo pieno; ed è certamente vero che questi uffici hanno dato buona prova, secon­do l'assunto del progetto Marinucci.

Ma le perplessità più rilevanti derivano - a mio avviso - dal fatto che il disegno Mar­tinazzoli che attribuisce - come detto - i compiti minorili ad un giudice del t.m. non sopprime affatto il giudice tutelare, come pure sostiene nella relazione, ma sopprime solo il giudice tutelare minorile, abbandonando ad un giudice non specializzato, il quale spesso si limita a meri adempimenti burocratici, proprio quelle categorie (di maggiorenni interdetti o inabilitati; adulti sottoposti a trattamenti sani­tari obbligatori, ecc.), che per l'assenza ricorren­te di genitori (spesso deceduti, quando si tratti di persona anziana) e di familiari, che di loro si occupino avrebbero bisogno di una effettiva tu­tela. Il limite di una soluzione «separata» è qui evidente: qui non si tratta di distinguere la tu­tela della personalità dai problemi patrimoniali (come è per la soluzione adottata nei giudizi di separazione, divorzi, ecc.), qui si tratta di sepa­rare minori da maggiorenni emarginati e sostan­zialmente abbandonati a se stessi, proponendo una soluzione per i primi e non per i secondi. Un tale sdoppiamento zoppo non si spiega, per­ché quelle categorie di persone emarginate han­no anch'esse bisogno di un giudice specializzato e non è pensabile che si crei un altro giudice spe­cializzato solo per loro. Il problema del giudice tutelare è, quindi, tutta da ridiscutere, forse piut­tosto in una prospettiva di riforma con autonomia e specializzazione che non di soppressione: pro­prio nell'esempio degli uffici del giudice tutelare delle grandi città.

 

Conclusioni

II disegno governativo delinea un'organizzazio­ne giudiziaria coerente nelle sue linee e con le premesse, privilegiando specializzazione ed auto­nomia degli uffici ad un maggiore decentramen­to. Certamente più aderente ad esigenze di snel­lezza e duttilità è il progetto Pedrazzi, che tutta­via lascia insoluti i problemi di specializzazione della corte d'appello con il pericolo di perpetua­re gli attuali conflitti manifestatisi soprattutto in materia penale.

 

PARTE II: GLI INTERVENTI

 

L'esame delle competenze comporta l'osserva­zione preliminare che la prospettiva del disegno governativo è unitaria e finalizzata all'attuazione del diritto all'educazione. Questa prospettiva di globalità ha prodotto un riavvicinamento delle competenze, che ricorre in tutti i progetti; dai quali scompare la competenza amministrativa, as­sorbita in quella civile. Inoltre gli interventi pe­nali - con l'ampio spazio attribuito alle misure alternative e la previsione di un costante colle­gamento tra servizi ministeriali e locali - si pon­gono in connessione stretta con quelli civili nella prospettiva di una programmazione personalizza­ta e diretta al recupero del minore in difficoltà.

Esaminiamo tuttavia in modo rapido ciascuna delle tradizionali tre competenze del t.m.

 

La competenza penale

A seguito della sentenza 222/1983 della Corte costituzionale, che ha attribuito al t.m. ogni com­petenza per i reati commessi dai minori, anche se coimputati con maggiorenni, è venuto meno il problema più significativo in questa materia.

A di là di una ripartizione degli interventi pe­nali, operata dal progetto Pedrazzi tra giudice per i minorenni e t.m. con esclusione per i pri­mi della presenza del p.m., e dell'ampliamento - previsto da quello Martini - anche a determi­nati reati commessi da maggiorenni contro mino­ri, ai quali faremo cenno tra breve, vi è una so­stanziale sintonia tra i progetti.

Quello Martinazzoli prevede, in particolare, in­terventi diretti ad escludere al più presto il mi­nore deviante dal circuito penale con la previ­sione di archiviazione per non rilevanza sociale nelle situazioni previste dall'art. 65; di rinuncia alla condanna, che sostituisce l'attuale perdona giudiziale (art. 66); con la previsione di sospen­sione del procedimento e successiva improcedi­bilità dell'azione penale per esito positivo della prova a cui il minore è stato sottoposto (art. 76); con l'abrogazione delle misure di sicurezza attua­li e fissazione del termine minimo di dodici anni di età per 1'applicazione delle nuove misure (art. 67): scompare, quindi, il riformatorio sostituito dalla possibilità di internamento in idoneo istitu­to e si dà spazio alla libertà vigilata.

A differenza di quanto prevede il progetto Pe­drazzi che distingue ai fini della misura della pena tra imputati infrasedicenni e minori ultrasedicen­ni, il disegno governativo si limita a prevedere una riduzione di pena, peraltro inferiore, per tut­ti i minori condannati (da un terzo alla metà: art. 63).

Si prevede, a protezione del minore, il divieto di pubblicazioni di notizie o immagini idonee a consentire l'identificazione del minore indiziato, ma non è stabilita alcuna sanzione in caso di vio­lazione (art. 81). Sul piano processuale è signi­ficativa l'esclusione per i minori della cattura ob­bligatoria, e facoltativo è anche l'arresto in fla­granza (art: 72); viene meno là possibilità di co­stituzione di parte civile; vi è una ampia possibi­lità di applicare misure sostitutive (art. 88).

 

La competenza civile

Il disegno governativo dedica agli interventi ci­vili maggiore attenzione che ad ogni altro argo­mento: ben quarantacinque articoli, cioè l'intero titolo secondo.

Capovolgendo il principio ora vigente, esso (art. 16) attribuisce ai t.m. una competenza ge­nerale «per tutti i procedimenti che coinvolgono questioni attinenti alla tutela e alla protezione della persona del minore» e assegna espressa­mente oltre ai procedimenti indicati dall'art. 19 tra cui i più significativi sono quelli ora spettanti al g.t., quelli contenziosi riguardanti lo stato del­le persone (disconoscimento di paternità, ecc.) gli atti dello stato civile che riguardano minori (art. 16) e quelli di separazione, divorzio e di­chiarazione di nullità di matrimonio con figli mi­nori, escludendo le sole questioni patrimoniali (art. 17).

Si produce, quindi, uno sdoppiamento di que­sti procedimenti tra t.m. e tribunale ordinario. Vengono apportati correttivi in tema di potestà genitoriale con possibilità di pronunziare provve­dimenti di carattere patrimoniale a carico dei ge­nitori nel caso di allontanamento dei minori da casa (art. 24 e 26); sono abrogate alcune norme ormai superate (art. 21 e 39) e modificata quel­la relativa all'intervento della Pubblica ammini­strazione in casi urgenti. È anche prevista la possibilità di riconoscimento prima del sedicesi­mo anno di età; norme specifiche disciplinano concessione e ritiro di passaporti. Sul piano pro­cessuale è prevista la presenza del p.m., così co­me in tutti gli altri progetti, escluso quello comu­nista, che lo elimina del tutto.

Vengono assicurate maggiori garanzie per i ge­nitori interessati nei procedimenti, in quanto il ricorso introduttivo o il decreto d'apertura del procedimento dovrà essere comunicato agli in­teressati; il minore è espressamente tutelato in circostanze processuali: nel caso di audizione da parte del giudice (art. 46); in caso di con­sulenza tecnica sulla sua personalità (art. 51); per assicurargli la difesa (art. 54) e in caso di conflitto d'interessi anche non patrimoniali (ar­ticolo 55).

Il rito da seguire è quello camerale, salvo che la legge non preveda diversamente (art. 56).

 

La competenza amministrativa

Il discorso della competenza amministrativa si potrebbe sinteticamente chiudere con la conside­razione che i cinque progetti di riforma della giu­stizia minorile la eliminano tutti, riducendo le competenze del t.m. ai soli interventi civili e penali: È questa una delle novità apparentemen­te più clamorose dei progetti e certamente una

di quelle sui cui convergono i consensi di tutti i proponenti.

Ma, scomparendo la competenza amministrati­va, non scompare, ovviamente, il problema che vi sottende, problema che viene tuttavia modi­ficato nei termini di proposizione e risposta. Il giovane in difficoltà di socializzazione - secon­do la formula usata dal disegno governativo - non ha bisogno di controllo, ma di protezione, perché il suo disagio è di carattere sociale ed - al pari di altre manifestazioni di disagio gio­vanile - è il frutto di una condizione di emargi­nazione, della quale la comunità locale deve farsi carico, sforzandosi di eliminarne le cause ed in­tervenendo in favore di ciascun giovane per aiu­tarlo a superare il suo disagio. In sostanza, è la stessa ottica che porta ad affermare il diritto all'educazione, la necessità di realizzare l'armoni­co sviluppo della personalità del minore: essa si propone in questa sede così come si pone a fon­damento di ogni altro problema e intervento a favore di minori. Ed è questa la prospettiva se­condo cui i progetti di riforma hanno affrontato la questione. Il corollario è stato quello della pos­sibile risposta da dare e le vie seguite sono tre:

1) essendo uguali le cause del disagio minori­le, di cui la difficoltà di socializzazione è solo una delle tante manifestazioni possibili, uguale deve essere la risposta sempre in termini protettivi. La difficoltà di socializzazione va vista come una situazione di pregiudizio del giovane che esige gli stessi interventi civili previsti per ogni forma di pregiudizio minorile e non interventi civili spe­cifici;

2) pur essendo uguali le situazioni base del di­sagio, tuttavia le connotazioni particolari secondo cui esso si manifesta in questa sede (con l'inse­rimento del giovane nel gruppo deviante vissuto anche come gruppo di appartenenza; con il con­seguente rifiuto - o almeno la diffidenza - ver­so gli interventi diretti alla sua protezione, che sono quindi più difficili a proporsi o a essere ac­cettati), esigono che nell'ambito degli interventi civili, questo tipo di disagio abbia una connota­zione specifica e un certo collegamento con gli interventi penali;

3) queste stesse ragioni rendono necessarie una puntuale previsione non solo di interventi rientranti nella competenza civile, ma anche di interventi risocializzanti di carattere penale, al­ternativi alla carcerazione.

Secondo la prima prospettiva si muovono i pro­getti Martini, Gozzini e Marinucci; la seconda è scelta dal progetto Pedrazzi, che tra i provvedi­menti civili prevede (art. 34 pen. co.) la possi­bilità di misure di protezione per «un più ade­guato e ordinato sviluppo della personalità» del minore e stabilisce esplicitamente, all'art. 25, un collegamento tra intervento penale e inter­vento civile; nella terza direzione è il disegno governativo, che dedica un capo autonomo (il 4°) agli interventi civili a protezione del minore in difficoltà; parifica a quelli per i minori in difficoltà di socializzazione (artt. 37-38) quelli in favore di minori tossicodipendenti (art. 43); articola una serie di interventi specifici e prevede come già detto in sede penale la possibilità di sospensio­ne del procedimento con l'affidamento in prova del minore al servizio sociale minorile e conse­guente sentenza penale di rinuncia alla condanna per risposta positiva al trattamento (art. 76), ol­tre a un largo uso della libertà vigilata e delle misure alternative alla carcerazione (artt. 88-90) e alla previsione di misure di sicurezza diverse da quelle vigenti, che vengono abrogate (art. 67).

In sostanza, le misure rieducative, formalmente abrogate con la scomparsa della competenza am­ministrativa, sembrano essere riproposte nel di­segno Martinazzoli sia pure in modo diverso e più articolato. Al di là di ogni valutazione di me­rito, mi pare che una tale riproposizione sia inu­tile e superflua, perché la ormai accertata resi­stenza degli enti locali all'attuazione di inter­venti di questo genere per una idiosincrasia, che ha già di fatto svuotato di contenuto le misure rieducative dell'attuale legge minorile, produrrà un risultato analogo anche per questa normativa.

 

Conclusioni

Come si è detto in precedenza le linee com­plessive delineate dal progetto governativo sono coerenti alle premesse ed offrono una risposta completa in rapporto ai problemi affrontati. È uti­le tuttavia, qualche osservazione di fondo anche in questa sede - traendola dal confronto con gli altri progetti - con riguardo all'estensione dell'intervento civile, al rito civile e al p.m. sia in materia civile che penale.

Non si tratta di un discorso puramente tecnico, perché questi rilievi - in sintonia con quelli svolti in precedenza a proposito della organizza­zione giudiziaria - consentono di fare meglio il punto sulle scelte operate e di valutarle criti­camente.

L'estensione della competenza civile è più am­pia - come già si è rilevato - nel progetto Ma­rinucci rispetto a quello governativo in coerenza con le premesse di evitare per quanto possibile separatezza di interventi; essa è massima nel progetto Martini che puntualizza invece il ri­schio della settori alizzazione degli interventi, partendo dal principio che il problema del minore non può essere avulso da quello del nucleo a cui appartiene in quanto come si legge testualmente nella relazione (pag. 2-3): «staccare l'intervento giudiziario sul minore dall'intervento giudiziario sulla famiglia - attribuendo la competenza a due organi giudiziari diversi - significa ignorare que­sta realtà e attuare una politica settoriale degli interventi gravemente dannosa per il nucleo tut­to e per le singole personalità che lo compon­gono». Perciò le competenze vengono estese il più possibile non solo nella materia civile (anche alle questioni patrimoniali familiari, ad interdizio­ni e inabilitazioni anche di maggiorenni, ecc.), ma anche in quella penale (oltre ai reati commessi da minori, anche i delitti commessi da maggio­renni contro la famiglia, i delitti contro il buon costume commessi in danno di minori, ecc.: ar­ticolo 16).

Per quanto riguarda il rito, il disegno governa­tivo prevede che sia seguito quello camerale per gli attuali procedimenti di g.t. e t.m. e quello con­tenzioso per gli altri (ciò, al pari dei progetti Ma­rinucci e Martini).

In senso opposto, il progetto Pedrazzi, limita il più possibile le competenze del giudice mino­rile, estendendole di poco rispetto a quelle attua­li, senza attribuire alla magistratura minorile una competenza generale in tema di minori e preve­dendo l'utilizzazione del rito camerale anche per il procedimento relativo alla dichiarazione giudi­ziale di paternità (art. 269 c.c.), che tuttora, è invece ora gestito come procedimento conten­zioso. Le ragioni di tali scelte sono principalmen­te due: da un lato l'esigenza di consentire inter­venti snelli e rapidi, non appesantendo le compe­tenze del giudice minorile, né sotto il profilo del­la loro estensione né con l'uso di un rito (quello contenzioso) che per le sue caratteristiche com­porta il rischio di procedimenti che durano molti anni e che possono più facilmente portare a deci­sioni inadeguate; dall'altro quella che la scelta di far decidere problematiche minorili e anche fami­liari da un giudice specializzato e composto an­che da giudici non esperti in materia tecnico-giu­ridica si comprende ed accetta - come giusta­mente rilevato - quando si debba decidere su questioni che attengono alle persone, alle dina­miche dei loro rapporti, all'interesse per una loro corretta protezione. Essa non trova nessuna giu­stificazione, invece, quando riguardi vicende, che pur attenendo a minori, sono prettamente tecni­che e devono essere decise sulla base esclusiva di parametri giuridici (così le questioni patrimo­niali, quelle per la dichiarazione di morte presun­ta, ecc., ma anche quelle riguardanti lo stato delle persone e gli atti dello stato civile).

Queste ragioni a me sembrano fondate e devo­no indurre a riflessione.

Alla luce di esse non si spiega che il disegno governativo attribuisca al t.m. la competenza nelle questioni di stato e in quelle sugli atti dello stato civile, che sono questioni da risolvere sul piano tecnico-giuridico e per le quali non si giustifica l'impiego di un collegio specializzato, quale quello del t.m. Ma non si spiega neppure l'estensione della competenza all'intero procedi­mento di separazione, divorzio, nullità di matri­monio in presenza di figli con la conseguente scelta del doppio rito (camerale per certi proce­dimenti, contenzioso per altri), scelta che è de­stinata a rallentare ed appesantire l'attività del futuro giudice minorile.

In realtà, la linea di mediazione tra progetto Martini e progetto Pedrazzi seguita dal disegno Martinazzoli con riguardo sia all'estensione del­la competenza civile che al rito non consentono di raggiungere né l'obiettivo dell'unificazione di tutte (o quasi) le competenze relative alle pro­blematiche familiari in un unico giudice (obietti­vo che invece coerentemente tentano di perse­guire i progetti Martini e Marinucci), né quello di tener ferme le caratteristiche di procedimen­to snello e duttile (che il progetto Pedrazzi con­segue).

Le ragioni esposte mi inducono a ritenere pre­feribili le linee di fondo del progetto Pedrazzi-­Cipolla e ad auspicare, quindi, una riduzione delle competenze civili del futuro t.m. nei limiti indi­cati da quel progetto con la previsione del solo rito camerale.

Ritengo anche da condividere le scelte del progetto Pedrazzi a proposito del p.m. Continuare a prevedere l'intervento del p.m. nei procedimen­ti civili, come fanno tutti i progetti, escluso ap­punto quello comunista, mi sembra solo voler fare concessioni al procedimento attualmente in vigore, procedimento che ha abbondantemente dimostrato l'inconsistenza o almeno la scarsa si­gnificatività dell'intervento del p.m. in materia ci­vile. Ridurre poi l'intervento del p.m. in materia penale significa solo adeguare il sistema mino­rile a quello della giustizia ordinaria, che attri­buisce i reati minori alla competenza di un giu­dice monocratico (il pretore).

 

PARTE III: I SERVIZI

 

Rilievi generali sulla situazione dei servizi e dei t.m. in rapporto alla popolazione

Mi pare importante, prima ancora di proporre osservazioni sul modo in cui i servizi vengono visti nei progetti e anzi, proprio per poter svol­gere osservazioni più efficaci sui progetti, partire da un dato di realtà: quale è la situazione dei ser­vizi sociali e degli uffici giudiziari minorili nel rapporto con la popolazione minorile italiana e con i bisogni della popolazione minorile.

Mi sembra scontato sottolineare che almeno per quanto riguarda i servizi la situazione sia tut­t'altro che simile nelle varie regioni d'Italia e che, purtroppo, nelle zone di sottosviluppo maggiore è il bisogno, le risorse sono inferiori, meno ade­guate le risposte e l'attenzione politico-culturale: maggiori; in una parola, i ritardi.

Un interessante spunto per la conferma indi­retta di ciò si trae - a mio avviso - da un ac­curato prospetto che accompagna il progetto Goz­zini: questo prospetto (ali. B, pag. 25) rileva che il rapporto magistrato minorile - abitanti varia da regione a regione ed è in linea di massima (con­siderandolo nelle sue linee generali) superiore ai 400.000 abitanti per magistrato in molti terri­tori del centro-nord (Brescia, Bologna, Firenze, Milano, Torino, Venezia); inferiore a 250.000 abi­tanti per magistrato in molti territori del sud (Caltanissetta 1/156.000, Campobasso 1/108.000, Reggio Calabria 1/188.000, Potenza 1/200.000, Messina 1/218.000, Catania 1/237.000).

Le spiegazioni di ciò possono essere varie e, quindi, il problema va approfondito. Ma mi sem­bra razionale trarne l'ovvia conclusione che la domanda di interventi giudiziari per i minori è maggiore al sud e nelle aree di sottosviluppo che non al nord. E ciò comporta il corollario che al sud vi sono maggiori situazioni di bisogno, ma anche servizi qualitativamente e quantitativamen­te peggiori, in quanto è pacifico che, dove vi sono interventi sociali più rispondenti al bisogno, lì si attenua la necessità di una risposta giudiziaria; mentre, viceversa, dove i servizi non esistono o rispondono meno, lì la necessità di una risposta giudiziaria (anche per i minori) aumenta.

Se queste considerazioni dovessero risultare vere (ma occorre verificarle con una indagine ap­profondita); si potrebbe giungere ad alcune si­gnificative conclusioni per quanto riguarda i pro­getti: ad esempio, che il rapporto di un giudice ogni 400 mila abitanti previsto dal progetto comu­nista risponde alle esigenze delle aree nelle quali la condizione minorile è generalmente migliore ed i bisogni trovano risposte sociali più adegua­te, ma non a quello delle aree sottosviluppate; forse; sulla base di queste considerazioni, anche le tabelle allegate al progetto governativo an­drebbero discusse, così come quelle del proget­to Gozzini in quanto entrambe sembrano rifarsi al solo rapporto con la popolazione complessiva, non ai bisogni minorili, né alla quantità e qualità dei servizi. Inoltre, stabilire che il giudice mino­rile si avvalga dei soli servizi sociali minorili e servizi sociali territoriali, come in sostanza fan­no il progetto ministeriale (artt. 91-92) e quello comunista (artt. 17 e 34), significa presupporre che i servizi sociali territoriali siano sempre e dovunque in grado di svolgere interventi adeguati ed efficienti: il che è tutto da dimostrare. Ed infine è certo suggestivo sostenere, come fa il pro­getto Marinucci (pag. 10 della relazione) che il costituendo ufficio del pubblico tutore (o ufficio di protezione giuridica) va considerato come «espressione del territorio e dell'ente locale se­condo un orientamento irreversibile dopo il dpr 616/1977»; ma non si deve trascurare, tanto per fare un esempio, che espressione del territorio in Puglia è il fatto che a nove anni dal dpr 616/1977 non sono state ancora istituite le unità lo­cali dei servizi; che a tre anni dalla legge 184/1983 nessun ente locale - nelle province di Bari e Foggia - ha istituito un servizio di affidamento familiare; che, seguendo la stessa... tempestivi­tà, un ufficio di pubblica tutela, già previsto da alcune regioni (come informa la relazione al pro­getto governativo: pag. 17), sarebbe realizzato in Puglia ed in altri territori svantaggiati solo molti anni dopo l'entrata in vigore della relativa legge nazionale. Con l'effetto, ovvio, di perpetuare la situazione attuale per cui le regioni socialmente più avanzate continueranno ad andare sempre più avanti e quelle che sono in ritardo ad accumulare ritardi sempre maggiori.

 

Servizi e nuovi istituti nei progetti

Ai servizi sociali il solo disegno governativo dedica un'autonoma trattazione (tit. IV, capo I), peraltro non esaustiva del discorso che trova in­teressanti motivi di riflessione anche altrove (ad esempio, nell'art. 40); gli altri progetti vi dedi­cano singole norme, oppure offrono spunti che vi si riferiscono affrontando altri temi. Quindi una analisi del modo in cui vengono visti i servizi e il rapporto giudice minorile - servizi, può farsi solo pescando un po' dovunque nei progetti di rifor­ma. Inoltre i progetti prevedono nuovi istituti, nuove figure professionali o aggiornano figure già esistenti cogliendo in sostanza che nell'ambito dell'attuale sistema di protezione dei minori vi sono dei vuoti non coperti né dal giudice mino­rile né dai servizi.

Per offrire un quadro adeguato delle prospetti­ve, si deve quindi trattare non solo dei servizi, ma anche dei nuovi istituti ed in generale di ogni intervento previsto dai progetti ed esterno alla organizzazione giudiziaria.

 

I servizi

I progetti di riforma sono concordi nell'indivi­duare nei servizi dipendenti dall'ufficio per la giustizia minorile del ministero quelli dei quali il giudice minorile deve avvalersi nell'ambito degli interventi penali e nei servizi sociali terri­toriali quelli che deve utilizzare nell'ambito degli interventi civili. È previsto anche un collegamen­to ed un'integrazione dei due servizi tra loro e con l'ufficio del pubblico tutore (così il disegno governativo); è prevista la possibilità che il ser­vizio giudiziario affidi il minore a persona, comu­nità o servizio in grado di provvedere alla sua educazione ed assistenza (art. 89).

Il disegno, in sostanza, è completo e permet­te una piena partecipazione della comunità lo­cale al progetto educativo del minore sia in caso di interventi civili che di misure penali alternati­ve. L'unico problema rilevabile è quello che può presentarsi - come già detto - nel caso in cui per proprie carenze i servizi territoriali non sia­no in grado di fornire una risposta o anche solo una tempestiva risposta alle richieste per inter­venti civili. Proprio per ovviare a tale difficoltà ritengo opportuno seguire la proposta dei proget­ti Gozzini (art. 17) e Martini (art. 6), i quali pre­vedono che il giudice minorile si avvalga, oltre che dei servizi suindicati, anche di organismi pri­vati o persone idonee a cooperare. Credo che per limitare il ricorso a questi interventi di supplen­za si possa integrare la formula dei due progetti indicati, stabilendo che possa farsi uso di tali collaborazioni solo nel caso in cui manchi il ser­vizio sociale territoriale (anche solo specialisti­co) oppure nel caso in cui esso non provveda ad adempiere la richiesta rivolta dal giudice nel ter­mine di un mese o in quello eventualmente in­feriore indicato per casi di urgenza. In questa linea è la previsione di consulenza non solo a scopo conoscitivo, ma anche di trattamento, con­tenuta nel disegno governativo (art. 5), ma forse l'argomento meriterebbe una più chiara norma­tiva in linea con quanto prevedono gli altri due progetti citati.

 

I nuovi istituti:

a) il fondo di mantenimento

Il più importante, a mio avviso, tra gli istituti nuovi - previsto peraltro dal solo disegno gover­nativo - è quello del fondo di mantenimento (ar­ticoli 58-59), che viene costituito «per assicura­re le prestazioni e gli assegni di mantenimento in favore degli aventi diritto». È stabilito che i sog­getti tenuti alla corresponsione degli assegni di mantenimento versino entro la fine del mese la somma dovuta a un istituto di credito di diritto pubblico convenzionato col ministero di grazia e giustizia. L'istituto di credito verserà nei primi giorni del mese successivo la somma all'avente diritto. In caso d'inadempimento, l'istituto di cre­dito preleverà la somma stessa dal fondo di man­tenimento ed avrà diritto di rivalsa nei confronti dell'inadempiente, che verrà anche denunziato penalmente a norma dell'art. 570 cd. pn:

Bisogna tener presente che i progetti attribui­scono al tribunale per i minorenni - nei casi di separazione tra coniugi, divorzio, nullità del matrimonio - la competenza in ordine ai provvedi­menti di affidamento dei figli minori e quella di determinare il contributo di mantenimento. Il di­segno governativo va oltre e attribuisce al t.m. (art. 26) la facoltà di determinare il contributo di mantenimento in favore del minore ed a carico del genitore non convivente anche per il figlio naturale; e nei casi di decadenza o esclusione dalla potestà, di allontanamento del minore ex art. 333 cd. cv., o di allontanamento del minore con difficoltà di socializzazione.

Si tratta di novità di grande rilievo. Più volte è stato rilevato che la effettiva erogazione dell'as­segno di mantenimento, la puntualità nel versa­mento e la sicurezza che esso avvenga ad ogni scadenza, sono condizioni essenziali perché l'af­fidamento sia posto in grado di assolvere in modo adeguato - con un minimo di serenità e sicurez­za - i doveri morali verso i figli e si tratta di condizioni essenziali talora, addirittura perché un provvedimento di affidamento di figli minori pos­sa effettivamente realizzarsi (specialmente nel caso frequentissimo di affidamento di figli alla madre, che per lo più è anche la parte economi­camente più debole, spesso del tutto dipendente dall'erogazione del contributo economico dell'altro genitore).

L'istituzione del fondo di mantenimento con­sentirà di raggiungere questo risultato e garan­tirà anche il minore allontanato da casa. In tal modo avranno quindi termine i condizionamenti, i ricatti del genitore obbligato ed i suoi espe­dienti per eludere o ritardare l'adempimento dell'obbligo al mantenimento.

Il disegno governativo esclude l'applicazione della sanzione dell'art. 570 cd. pn. nel caso in cui l'obbligato dimostri di essere stato nell'im­possibilità di adempiere l'obbligo di manteni­mento.

Mi permetto di rilevare che tale esplicita esclu­sione è inutile e pericolosa. Inutile, perché l'esi­mente dello stato di necessità, prevista dall'art. 54 cd. pn., consente già di evitare la sanzione pe­nale all'obbligato che si sia già trovato nella rea­le impossibilità di adempiervi. Pericolosa, perché la sua specifica previsione potrebbe essere inte­sa dalla giurisprudenza come un modo di amplia­re l'area dell'esclusione da responsabilità penale dell'obbligato. Ritengo, quindi, opportuno che l'ul­tima parte dell'art. 59 del disegno governativo, quella che recita testualmente «a meno che non dimostri di essere stato nell'impossibilità di adempiere l'obbligo di mantenimento» venga eli­minata.

Ma ritengo anche di dover sottolineare che con l'esplicito richiamo fattovi nell'art. 59 citato, la norma dell'art. 570 cd. pn. viene profondamente modificata nella sua sostanza. Infatti, 'applicazio­ne di tale norma, in conseguenza del richiamo dell'art. 59 cit., comporterà la responsabilità pe­nale per chi colpevolmente non provveda alla cor­responsione dell'assegno di mantenimento, men­tre l'attuale formulazione legislativa, che pure resterebbe immutata, punisce solo chi fa manca­re ai discendenti i «mezzi di sussistenza», espressione pacificamente intesa di contenuto più limitato rispetto al mantenimento e riferita solo all'indispensabile per la vita.

É il caso di soffermarsi su questo punto molto significativo. A me sembra che ciò sia chiara ma­nifestazione del confronto fra due modelli nor­mativi di famiglia: quello, emerso dalla legge sull'adozione speciale del 1967 (a proposito del quale si parlò di «rivoluzione copernicana» per­ché metteva al centro della famiglia il figlio e non più il «pater» e che la dottrina indica come «famiglia degli affetti»), che ha in questi 20 anni permeato di sé gran parte della legislazione ci­vile, e quello della legislazione penale, rimasto ancorato al vecchio modello di famiglia chiusa, proprio del tempo della promulgazione del codice Rocco.

Un esempio di ciò è costituito proprio dall'art. 570 cd. pn., il quale punisce la sottrazione agli obblighi morali inerenti alla potestà di genitore con una pena mite (reclusione fino a un anno oppure multa da L. 200.000 a 2.000.000). Per giun­ta tale reato, grazie all'art. 90 legge 24.11.1981, n. 689, è divenuto punibile solo a querela di parte, il che vuol dire, in sostanza, che la rela­tiva pena, già mite, si applica molto relativa­mente.

La stessa norma punisce l'inosservanza dell'obbligo di mantenimento limitatamente ai soli «mezzi di sussistenza», come già si è detto in precedenza.

Quando si consideri che l'inosservanza dell'ob­bligo dell'istruzione elementare è punito dall'art. 731 cd. pn. con la sola sanzione amministrativa e che la stessa pena è prevista dall'art. 8 legge 31.12.1962, n. 1859 per l'inosservanza dell'obbli­go scolastico per la scuola media inferiore, se ne deduce agevolmente che i doveri di educazione, mantenimento ed istruzione dei minori ricevono tuttora nella legislazione penale una tutela molto modesta: in realtà la normativa penale è tuttora ispirata all'ormai superata concezione familiare per la quale il minore non è soggetto di diritti, ma solo «speranza di uomo». Perciò sono con­vinto che i ritocchi a leggi sostanziali di diritto penale che il disegno governativo ritiene indi­spensabili «per consentire risposte sempre più adeguate ai reali bisogni dei soggetti deboli della nostra società» (pag. 3), non possono ignorare né l'art. 570, né l'art. 731 e che tali ritocchi deb­bano estendersi anche agli altri soggetti corresponsabili con i genitori del dovere di istruire i minori. Propongo, pertanto di inserire nel dise­gno governativo l'art. 59 bis del seguente te­nore:

L'art. 570 cd. pn. è sostituito dal seguente:

«Chiunque si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà di genitore o alla qualità di coniuge è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da L. 200.000 a due milioni.

La stessa pena si applica a chi non adempie l'obbligo di mantenimento nei riguardi dei figli minori e del coniuge, anche separato, nonché a chi fa mancare i mezzi di sussistenza agli altri discendenti di età minore o inabili al lavoro ed agli ascendenti e infine, per le violazioni dell'art. 731 cd. pn. e 8 legge 31.12.1962, n. 1859, anche nei confronti di insegnanti, presidi e provvedito­ri che, nell'esercizio delle funzioni, inducano mi­nori all'inadempienza scolastica.

Chiunque, mediante falsa rappresentazione del­la sua condizione economica, facendo apparire una situazione d'impossibilità ad adempiere l'ob­bligo di mantenimento, che contrasti con il suo tenore di vita o che risulti anche in altro modo non veritiera, si sottrae all'obbligo di manteni­mento nei riguardi dei figli minori o del coniuge è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da L. 500.000 a 2.000.000».

In tal modo il minore sarebbe tutelato nei suoi diritti elementari più efficacemente di quanto non accada ora. Certo non si è ancora giunti a di­sporre che nei casi più gravi (maltrattamenti o violenze sessuali a figli minori) sia il genitore col­pevole e non il figlio (spesso la figlia) incolpe­vole ad essere allontanato dalla casa familiare, mentre una disposizione analoga all'art. 155, 4° comma cd. cv. sarebbe stata utile (ad es., in caso di figli naturali, i quali potrebbero rimanere in casa con l'altro genitore), ma si è comunque realizzato un sistema di tutela dei bisogni del minore sufficientemente adeguato.

 

b) L'ufficio del pubblico tutore. L'assistente per la protezione del minore

L'ufficio del pubblico tutore è un'altra novità prevista dai progetti, e precisamente da quello governativo (artt. 93-96), da quello Marinucci (col nome di ufficio di protezione giuridica: art. 17) e da quello Gozzini (ufficio di pubblica tutela: ar­ticolo 9). Si tratta di un organismo che i tre pro­getti intendono come espressione di enti locali (rispettivamente di Regione, Usl e Consiglio pro­vinciale), con sede nei capoluoghi di provincia o nei comuni sedi di Usl, composto da una o più persone aventi requisiti simili a quelli necessari per l'ufficio di tutore e con compiti diversi in ciascuno dei tre progetti. In quelli Gozzini e Ma­rinucci tali compiti sono molto simili e consi­stono nell'esercizio delle funzioni di tutore e cu­ratore, quando esse non siano attribuite ai pros­simi congiunti (ciò per entrambi i progetti), in quelli attualmente spettanti agli istituti assisten­ziali sui minori ricoverati e nella legittimazione ad intervenire in procedimenti civili e penali con i poteri spettanti ai genitori (nel solo progetto Marinucci). Si tratta quindi di compiti limitati e assunti direttamente dall'ufficio.

Nel progetto governativo, le competenze sono più ampie e anche di carattere promozionale: re­perimento, preparazione e sostegno dei volon­tari che accettino il ruolo di tutore, curatore spe­ciale o assistente per la protezione del minore; segnalazione ai consigli comunali e provinciali di carenze di intervento per minori in difficoltà; tutela giudiziaria di diritti collettivi di minori non­ché di diritti di singoli minori in procedimenti ci­vili e penali; protezione giudiziaria di minori con­tro comportamenti di servizi, della pubblica am­ministrazione e provvedimenti del t.m. che siano per loro pregiudizievoli.

L'esigenza di proporre l'istituzione di tale uffi­cio nasce dalla diffusa consapevolezza che esi­stono carenze nella protezione dei diritti del mi­nore, per la cui eliminazione vengono scelte vie diverse. I progetti Gozzini e Marinucci si muo­vono nella prospettiva di affrontare il problema in chiave di protezione giuridica; per eliminare, cioè, quelle situazioni più gravi nelle quali è no­torio che la nomina di tutore e curatore (non at­tribuita a prossimi congiunti o affidata a istituti) è ora intesa come un mero ed inevitabile adem­pimento burocratico.

Il progetto governativo si muove invece nella prospettiva più penetrante di assicurare un'ampia protezione del diritto all'educazione del minore non solo a livello giuridico, ma sotto un più am­pio profilo sociale. A tale scopo non può ba­stare l'assunzione diretta dell'ufficio da parte del pubblico tutore, ma è necessario il coinvolgi­mento della comunità locale, rappresentata nel progetto dal volontariato; né è sufficiente il ruolo tradizionale del tutore, che anzi costui deve svolgere interventi personalizzati (un tutore per non più di tre minori: art. 30; il tutore provvede direttamente all'assistenza personale, all'educa­zione, al mantenimento del minore: art. 31). A tale scopo è necessario non solo colmare con la presenza del tutore le carenze totali dei geni­tori; ma anche proteggere il minore nei casi di parziali carenze di costoro con l'istituzione della figura dell'assistente per la protezione del mino­re (art. 29). Si tratta, per dirla in breve, di una forma parziale di affidamento familiare, in quanto il minore resta in famiglia, ma riceve dall'assi­stente una protezione integrativa, diretta ad evi­tare i danni prodotti da parziali incapacità dei ge­nitori o a mediare situazioni di difficoltà di altro genere (ad es., conflitti) che possano compro­mettere lo sviluppo psichico del giovane. Tutore, curatore speciale, assistente per la protezione del minore devono essere adeguatamente prepa­rati e sostenuti.

Il compito del pubblico tutore non si ferma qui. Egli vigila per proteggere il minore anche dalle carenze pubbliche, dai pregiudizi che gli possano derivare sia dalla pubblica amministra­zione che dai provvedimenti del tribunale per i minorenni.

Una figura per qualche verso simile all'assi­stente per la protezione del minore è prevista dal progetto comunista limitatamente al caso di allontanamento del minore dalla famiglia (art. 37). Essa prende il nome di «curatore speciale del minorenne» ed è istituita per proteggere i suoi interessi morali e materiali sia nei confron­ti degli enti locati che dei servizi, che degli af­fidatari.

 

Fine dell'ideologia del giudice minorile promotore dei diritti del minore

Al di là delle perplessità sulle capacità che questo nuovo organismo potrà avere di far fron­te ai compiti attribuitigli, credo che il disegno governativo abbia un merito indiscutibile sotto il profilo ideologico: quello di prendere atto del­la fine dell'ideologia del giudice minorile promo­tore dei diritti del minore, del giudice in grado di tutelare il diritto all'educazione del minore in ogni settore d'intervento.

Prevedere esplicitamente che vi possano es­sere provvedimenti del «suo» giudice, i quali risultino pregiudizievoli per il minore; individua­re un altro organismo che tuteli il minore anche contro il «suo» giudice, significa riconoscere che non sempre il giudice minorile è il più valido interprete dei bisogni del minore, né il suo inter­locutore privilegiato. Attribuire al pubblico tuto­re compiti promozionali ed interventi giudiziari di così ampio rilievo significa sottolineare i consistenti vuoti che esistono nella protezione del minore; significa ammettere che l'attuale si­stema giudice minorile - servizi non riesce, nep­pure potenzialmente, a coprire tutte le aree del bisogno del giovane; che è necessario qualcosa d'altro.

A me sembra che la fine di quella ideologia sia inevitabile. Superati con i progetti di riforma i problemi connessi con la pluralità di competen­ze di giudici diversi in materia minorile e alle ca­renze di specializzazione del giudice, viene meno anche nella legge civile - anche grazie ai ritoc­chi contenuti nei progetti - la duplicazione di modelli normativi di famiglia. Proprio la coesi­stenza del modello tradizionale di famiglia «de­gli affetti» delineata dalla legge sull'adozione speciale del 1967, aveva prodotto l'ideologia del giudice minorile promotore dei diritti del minore. Ora, dopo la riforma del diritto di famiglia, che ha notevolmente ravvicinato i due modelli nor­mativi; dopo la legge n. 184/1983, che ha sancito il «diritto» del minore ad essere educato nell'ambito della sua famiglia e, grazie anche al pro­getto in esame, che, oltre a rivedere la formula­zione delle norme in tema di limitazione della potestà, abroga anche l'art. 318 cd. cv. (art. 21), i due modelli normativi di famiglia vengono pra­ticamente ad unificarsi nel diritto civile (mentre restano ancora consistenti espressioni dell'anti­co modo di guardare al minore nella materia pe­nale). Viene meno quindi la necessità ideologica che aveva portato il giudice minorile ad allargare con la giurisprudenza i suoi spazi per adeguare il vecchio modello normativo di famiglia al nuo­vo. Tali spazi vengono colmati dalla legge, che anzi pone in guardia il minore anche verso il giudice, oltre che verso i servizi.

I limiti di questa costruzione sono di duplice ordine. Sotto il profilo politico e sociale v'è cer­tamente il rischio di una settorializzazione dell'istituto del pubblico tutore, visto solo come ser­vizio per i minori e non per tutta la comunità. Certo, i progetti di riforma della giustizia mino­rile non potevano giungere a prevedere un isti­tuto che andasse oltre il settore di specifica com­petenza: dovrà essere il Parlamento a decidere che è necessaria una diversa - più ampia e anche autonoma - normativa per il pubblico tutore.

Sotto il profilo operativo vi sono dubbi sulla reale possibilità che il pubblico tutore possa es­sere in grado di svolgere efficacemente i compiti attribuitigli. Ho già in precedenza riferito i mo­tivi di perplessità che nascono dalla situazione socio-culturale italiana e in particolare dai ri­tardi di molte regioni ed enti locali: ho espresso il timore che gli uffici di pubblica tutela si pos­sano creare con difficoltà nelle regioni svantag­giate. A ciò si aggiungono i timori che il numero limitatissimo di componenti tale ufficio non per­metta di far fronte ai compiti attribuiti, se intesi nella loro pienezza: le perplessità si accentuano quando si noti che tutto si fonda sul volontariato e sulla gratuità. Ed infatti, tanto per fare un esem­pio, il ruolo dell'assistente per la protezione del minore (che sarà probabilmente quello più ne­cessario e richiesto), per essere svolto seria­mente e prevenire molti allontanamenti di minori dalla famiglia, non può essere inteso che come ruolo professionale, svolto per varie ore al giorno con gestione stretta o comunque in collegamento con i servizi e con adeguata retribuzione. In tal modo esso risulta già sperimentato con un certo successo.

In conclusione, per l'ufficio del pubblico tutore il pericolo è che, prima ancora di nascere, esso risulti un organismo evanescente e velleitario, almeno nei termini in cui è proposto nel disegno Martinazzoli.

 

La polizia giudiziaria

I progetti Martini (art. 7) e Gozzini (art. 18) prevedono infine la costituzione presso ogni uf­ficio giudiziario minorile di un nucleo di polizia giudiziaria. Le esigenze di specializzazione evi­denziatesi nel discorso precedente si estendono alla polizia sia per l'espletamento di indagini che per ogni altro suo compito. Questo problema di specializzazione si pone in modo particolare oggi, perché la scomparsa della «polizia femminile» ha posto ancor più in evidenza le carenze derivan­ti dalla mancanza di interventi qualificati e la ne­cessità di una specializzazione. Troppo spesso oggi sono svolti a livello di «routine» interventi sui minori dalla polizia che, assorbita da gravi e pesanti compiti, è costretta ad occuparsi solo marginalmente di minori. Il problema della col­locazione della polizia presso gli uffici giudiziari minorili non è una questione di sistemazione am­bientale, ma l'unico mezzo reale per attenere la concreta disponibilità della polizia per compiti minorili ed una specifica e graduale specializza­zione.

 

Il rapporto giudice-servizi: interventi pregiudizievoli per minori dei tt.mm. e dei servizi

I tradizionali rapporti giudice minorile - servizi, ai quali tutti i progetti sostanzialmente si ripor­tano (rapporti consistenti nel contributo fornito dai servizi per la decisione giudiziaria, nella col­laborazione per la predisposizione di piani d'in­tervento, nel fornire informazioni, ecc.), trovano - come già rilevato - nel disegno governativo una variante particolarmente significativa. Per la prima volta la legge fa uso dell'espressione «pre­giudizievole per il minore» non con riferimento al genitore, ma con riguardo alla pubblica ammini­strazione, ai servizi ed al tribunale minorile. In­fatti, l'art. 41 stabilisce che quando un provvedi­mento o comportamento dei servizi locali o di altro organo della pubblica amministrazione si riveli gravemente pregiudizievole per lo sviluppo psicofisico del minore, il tribunale lo dichiara con decreto. In tal caso i servizi o la pubblica ammi­nistrazione sono tenuti a riesaminare la situa­zione e ad adottare i più idonei provvedimenti. L'art. 94 legittima l'ufficio del pubblico tutore ad impugnare provvedimenti giudiziari che siano pregiudizievoli per il minore anche se l'ufficio stesso non è stato parte nei precedenti gradi del giudizio.

Queste disposizioni traducono in norme giuri­diche il portato culturale di movimenti di opinio­ne pubblica (quale l'associazione per la preven­zione dell'abuso all'infanzia) che da tempo han­no posto l'accento sul problema degli abusi delle istituzioni sui minori e hanno rilevato che esi­stono moltissime situazioni nelle quali i genitori non hanno alcun potere di gestire in concreto i problemi dei figli (il diritto alla salute, tante volte trascurato non solo in famiglia, ma anche dalle comunità e persino negli ospedali; il diritto alla istruzione precluso da troppi interventi scolastici che sono vere e proprie espulsioni dalla scuola; il diritto agli affetti, leso dalla deportazione assi­stenziale e dal sistema di ripartizione per sesso e per età che gli istituti assistenziali operano sui minori, ecc.), problemi che sono invece gestiti dalle istituzioni pubbliche, rispetto alle quali i minori sono del tutto indifesi.

A questo portato culturale ha fatto riscontro la sostanziale trasformazione del modo d'inten­dere il rapporto educativo, in quanto alla tradi­zionale concezione privatistica che intendeva la educazione come un fatto privato tra genitori e figli si è gradualmente ma decisamente venuta sostituendo - a partire dall'entrata in vigore dell'adozione speciale (1967) e quindi negli ultimi vent'anni - una concezione pubblicistica e aper­ta* la quale ha allargato l'area dei soggetti coin­volti. L'educazione è ormai da tempo intesa come un valore sociale che, se impegna in prima linea i genitori, vede anche protagonisti altri soggetti i quali volta per volta realizzano con lui un rap­porto educativo e rispetto ai quali il minore avan­za il diritto ad essere educato: tra questi sog­getti vi sono anche i servizi, vi sono istituzioni pubbliche anche giudiziarie, vi è la comunità lo­cale rappresentata dagli enti a cui fa capo. Anche la giurisprudenza si è mossa da tempo in questa direzione, disponendo la deistituzionalizzazione di minori o il loro trasferimento da un istituto all'altro, ma ha sempre svolto interventi di por­tata limitata per non intaccare il principio della separazione dei poteri.

Ora il disegno governativo prende atto a livel­lo normativo di questa realtà, del fatto che inter­venti di istituzioni pubbliche possano essere di pregiudizio per il minore, e compie un'operazio­ne di mediazione molto delicata tra tutela del di­ritto del minore e autonomia dei pubblici poteri: dispone che siano la Pubblica amministrazione o i servizi stessi - dopo un decreto del t.m. di­chiarativo del carattere pregiudizievole del loro intervento per un minore - a riesaminare i propri comportamenti e provvedimenti; consente inoltre al pubblico tutore di impugnare provvedi­menti pregiudizievoli.

Io sono convinto che l'elaborazione di un tale più alto livello di protezione del minore segni un notevole progresso e che sia indice di un'impor­tante presa di coscienza il superare l'ormai an­gusto limite del diritto all'educazione limitato al solo rapporto genitore-figlio per proporlo, invece, nei suoi termini più realistici, che ne comporta­no l'allargamento ai soggetti anche pubblici og­gettivamente coinvolti nel rapporto educativo, compreso anche il tribunale per i minorenni. Ma sono anche convinto che si tratti di strumenti da usare con cautela per evitare pericoli di conflit­tualità perché la percezione da parte di servizi ed enti che questi impegni siano da gestire come doveri simili a quelli dei genitori è ancora lonta­na ed il rapporto istituzione-minore è vissuto in termini di potere non di dovere.

 

Rifiuto dell'equiparazione dei tribunali minorili ai servizi sociali. Conclusioni

Il discorso sui rapporti giudice - servizi sociali non può chiudersi senza un riferimento agli orien­tamenti dottrinari (vedi Sacchetti in Giust. Civ. 1986, pagg. 40-44), che vedono nelle scelte di alcuni progetti (come quello Gozzini) la teorizza­zione del «giudice-operatore sociale», di un giu­dice minorile essenzialmente educatore, espres­sione di un'ideologia assistenzialistica e di una linea amministrativistica che sarebbe alla ricer­ca «di un organo che sia tribunale più di nome che di fatt ». La tendenza insomma ad un «giu­dice-non giudice» creerebbe confusione di ruoli tra giudice e operatore sociale, trasformando in sostanza il tribunale per i minorenni in un ser­vizio sociale. Espressione di questa tendenza sa­rebbero la composizione del collegio a maggio­ranza laica prevista da tre progetti, la tendenza a diffondere i poteri d'intervento ufficioso del tri­bunale, ad emarginare il p.m., a trascurare il va­lore della terzietà del giudice. Questa tendenza, che risponderebbe anche al bisogno operativo di avvicinare il giudice al mondo dei servizi sociali, contrasterebbe il ruolo essenziale del giudice, anche minorile, che è di garanzia e deprimerebbe la giurisdizionalità del t.m.

Anche il progetto Marinucci (relazione intro­duttiva: pag. 3) vede il rischio di una «peri­colosa confusione di ruoli» tra giudici ed auto­rità amministrative e ne attribuisce la responsa­bilità come già detto alla separatezza della giu­stizia minorile dalla giustizia ordinaria oltre che all'ideologia del giudice minorile promotore dei diritti del minore.

Quando si consideri che sostanzialmente su queste stesse motivazioni e sulla stessa «cul­tura» si fondano le accuse di lassismo talora rivolte ai tribunali per i minorenni da procuratori generali e le pesanti condanne a minori inflitte sia dalle corti d'appello minorili che dai tribunali ordinari, questi ultimi a giovani appena maggio­renni accompagnati da certificati penali con pro­scioglimenti ex art. 98 cd. pn. o per concessione del perdono giudiziale (come dà atto corretta­mente e criticamente il progetto Marinucci: pg. 3 della relazione), ci si rende conto della ragione per cui il giudice minorile si senta isolato dal resto della magistratura e ne diffidi. Ed allora si spiega l'atteggiamento difensivo della giustizia minorile, di arroccamento a sua difesa e si giu­stifica la proposta d'istruire, oltre a corti per í minorenni, anche procure generali per i minoren­ni (così il disegno governativo); una specie di struttura giudiziaria completa per minorenni e parallela a quella ordinaria che suscita franca­mente perplessità perché ne risulta un disegno complessivo pletorico e forse ingiustificato.

Io credo necessarie alcune osservazioni in proposito.

A me sembra anzitutto che alcuni degli argo­menti addotti non giustifichino le conseguenze che se ne traggono. Così, ad esempio, non si comprende perché ridurre ruoli e spazi del p.m. deprimerebbe la giurisdizionalità del tribunale minorile. Al contrario, resta inspiegabile la ragio­ne per cui un ragazzo che ha guidato una moto senza patente abbia bisogno di tanti giudici pe­nali (il p.m., un collegio giudicante composto di tante persone), quando lo stesso ragazzo - di­venuto maggiorenne - risponderà al pretore, cioè a un giudice monocratico, di reati anche più gravi. Qui non si tratta di emarginare il p.m., ma di riportarlo alla dimensione naturale. E, quanto alla materia civile, l'esclusione eventuale del p.m. non farebbe altro che riprodurre per il giu­dice minorile le modalità attuali d'intervento del giudice tutelare, che non ha mai avuto al suo fianco un p.m. e la cui giurisdizionalità non è cer­to per questo messa in discussione.

Quanto alla composizione del collegio giudi­cante, mentre sono da condividere le riserve in ordine al fatto che i giudici onorari siano in qualche modo collegati ai poteri amministrativi locali, non mi pare che un'eventuale prevalenza di giudici laici rispetto ai togati debba essere inteso come un fatto catastrofico. È significativo che proprio il progetto Marinucci che, pur paven­ta il pericolo di confusione tra t.m. ed autorità amministrativa, proponga senza difficoltà un col­legio a maggioranza laica. È anche bene ricordare che vi sono nel nostro ordinamento altri giudici con maggioranza non togata, la cui funzionalità e capacità di jusdicere non è stata mai discussa. In ogni caso, quest'ultimo punto è superato dal disegno governativo, che ripropone un collegio paritario di giudici togati e laici.

Ancora, il problema di avvicinare il giudice mi­norile al mondo dei servizi sociali è un falso pro­blema o, almeno, è secondario rispetto a quel­lo principale che spesso si finisce anche invo­lontariamente per trascurare. Il punto reale è quello di avvicinare il giudice al minore; di su­perare la grave contraddizione di un giudice che, sotto il profilo della sua cultura e del modo di essere giudice, tende ad essere il più vicino possibile alle istanze del suo utente, men­tre territorialmente gli è più lontano di ogni altro. Che poi per raggiungere organizzativamen­te nel modo migliore questo risultato si propon­ga di far riferimento alle aree territoriali già costituite per i servizi sociali, mi pare una scelta logica e funzionale, perché una tale distribuzione territoriale del giudice minorile renderebbe certo più agevole il suo intervento; più semplice il suo coordinamento con i servizi territoriali che sono tra i più importanti collaboratori. Diverso è, in­vece, il discorso relativo al modo d'interpretare il suo ruolo da parte del giudice minorile. Ma anche qui, se per affinità con i servizi, s'intende il modus operandi del giudice, il tipo di approc­cio al colloquio, il suo utilizzare parametri psi­cologici per riempire di contenuto formule nor­mative che gli lasciano ampia discrezionalità (quali: condotta pregiudizievole; situazione di ab­bandono morale; maturità del minore ai fini dell'art. 84 cd. cv.; capacità d'intendere e di volere ecc.), la sua attenzione più generale ai problemi psicologici del minore, non c'è dubbio che si trat­ti solo di manifestazioni della specializzazione del giudice, che vanno accettate ed apprezzate.

Peraltro non c'è dubbio che proprio per questa sua caratteristica il giudice minorile non è sepa­rato dalla comunità a cui presta il servizio giu­stizia. Una conferma di ciò si trae propria dai progetti, dall'attenzione che viene rivolta a nuovi fermenti della nostra realtà sociale, quale il vo­lontariato, dalla sensibilità con cui sono accolte istanze che provengono da qualificati movimenti di opinione pubblica, come, ad esempio, quella. relativa agli abusi sui minori commessi da istitu­zioni. Ed allora il problema vero è capire se è più dannosa la separatezza del giudice minorile dagli altri giudici o la separatezza troppo frequente degli altri giudici dalla comunità; cercare di spie­garsi perché nel corso di separazioni giudiziali pendenti dinanzi ai tribunali civili, tante, trop­pe persone continuino a proporre istanze o a presentarsi spontaneamente ai tribunali minorili; perché i tribunali minorili - pur ridotti talora a organici dimezzati - continuino tutto sommato a funzionare, mentre la magistratura ordinaria cor­re il rischio della paralisi. Il problema vero è quello di ribaltare le critiche e verificare in quale misura e come il modo di essere e di operare della giustizia ordinaria possa divenire più si­mile a quello della giustizia minorile. Perché, ad esempio, in materia penale i tribunali ordinari non possano usufruire d'inchieste sociali per una migliore conoscenza della personalità dell'imputato, anziché far riferimento al solo certi­ficato penale. Perché una norma come quella con­tenuta nel disegno governativo, che prevede la possibilità di sospensione del procedimento pe­nale per un anno con affidamento in prova al ser­vizio sociale e successiva assoluzione per po­sitivo esito della prova non possa esser prevista anche per l'imputato adulto, atteso che per lo più trascorre ben più di un anno per l'espleta­mento del processo penale. E così via.

Ma a me sembra che, quando si parla di ten­denza all'amministrativizzazione, alla diffusione dei poteri d'intervento ufficioso del tribunale, di voler trascurare il valore della terzietà del giu­dice, di pericolo di confusione tra giudice ed au­torità amministrativa, si voglia proporre un di­scorso ancor più approfondito, una tematica di fondo sul concetto di giurisdizione e sul modo d'intendere la giurisdizione ordinaria da parte del giudice minorile. In sostanza, all'orientamento di questo giudice, che intende la giurisdizione come il modo per realizzare la tutela del minore, si on­pane che il giudice, e in particolare il giudice or­dinario, anche minorile, non può essere che giu­dice dei conflitti di diritti sia sul piano formale che sostanziale e che chi non interpreta în tal modo la giurisdizione sbaglia, non parla ed ope­ra da giudice, ma da operatore sociale.

Ma è proprio ineccepibile questa critica e deve, per conseguenza, ritenersi nella stessa prospet­tiva errato anche l'orientamento della Corte co­stituzionale, quando nella nota sentenza 222/83 ha inteso in modo apparentemente non ortodosso il ruolo giurisdizionale del t.m. ed ha precisato che «il tribunale per i minorenni... considerato nelle sue complessive attribuzioni oltre che pe­nali, civili ed amministrative ben può essere an­noverato tra quegli "istituti" dei quali la Repub­blica deve favorire lo sviluppo ed il funzionamen­to, così adempiendo il precetto costituzionale che la impegna alla "protezione della gioventù"»?

Io sono convinto che la Corte costituzionale non abbia errato, ma abbia colto un aspetto so­stanziale della modificazione e dell'ampliamento che il concetto di giurisdizione sta subendo negli ultimi anni. Mi sembra, infatti, che sotto il pro­filo formale il giudice resta sempre giudice di conflitti (ed un conflitto formale effettivo o po­tenziale è sempre ravvisabile in ogni intervento giudiziario, anche minorile), sotto il profilo so­stanziale stia lentamente emergendo - accanto al giudice della conflittualità - la figura di un giudice ordinario diverso, che assume il ruolo di protezione di alcune categorie di soggetti emar­ginati. Questa protezione è stata accordata dalla legge, perché lo Stato ha ritenuto degno di tu­tela anche a livello giurisdizionale un sottostante interesse pubblico, che è volta per volta diverso: da quello del recupero sociale di taluni soggetti, alla protezione della salute di altri, alla tutela di altri.

Così, ad esempio, l'interesse pubblico dello Stato alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.), assicurato fino a qualche anno fa solo in via amministrativa, è stato ritenuto in seguito meritevole di tutela giurisdizionale. Per questo è stato istituito il giudice di sorveglianza, che è certo formalmente giudice di conflitti, ma in so­stanza è il giudice che applica la legge allo scopo di realizzare l'interesse pubblico al positivo rein­serimento sociale, al recupero del condannato mediante l'apprezzamento della sua condotta (li­berazione condizionale, ecc.). Quindi, un interes­se di carattere pubblicistico ha trovato protezio­ne giurisdizionale.

Ciò vale anche per le sezioni specializzate per tossicodipendenze: anche qui l'interesse dello Stato alla salute del cittadino tossicodipendente ha assunto rilevanza giurisdizionale. Lo stesso discorso va fatto in materia minorile, dove l'in­teresse pubblicistico alla tutela della persona del minore ha acquisito sempre maggiore rile­vanza nella stessa prospettiva suindicata.

È questo aspetto sostanziale che la Corte co­stituzionale ha voluto cogliere, quando ha inteso il t.m. come istituto teso alla protezione della gioventù. È questo aspetto che viene colto dai giudici minorili che propugnano gli orientamenti contestati. Non c'è dubbio che il ruolo del giu­dice, anche minorile, è e dev'essere un ruolo di garanzia; non c'è dubbio che il giudice non è un educatore; ma è anche vero che tendere alla rea­lizzazione del proprio ruolo di garanzia in manie­ra più penetrante e sostanziale non è un modo di degiurisdizionalizzare; è anzi un modo di co­gliere le linee nuove di tendenza, di essere aperti a nuove prospettive. Non è un caso che, proprio quei giudici ai quali più si rivolgono le critiche di tendenze amministrativistiche, siano quelli che per primi hanno parlato di «diritti» del minore, non più di interesse del minore.

Mi pare anche che il disegno governativo non solo si muova secondo queste linee, ma si sforzi anche di andare oltre. Mi pare, cioè, che il rin­novato riferimento ai diritti del minore (il capo V del titolo II è appunto «di altre disposizioni a garanzia dei diritti dei minori») e la formulazione dell'art. 40 del disegno, per cui il giudice può ritenere pregiudizievoli non solo i comportamenti dei genitori, ma anche quelli della pubblica am­ministrazione e dei servizi, facciano emergere un quadro di notevole evoluzione della giustizia mi­norile che risulta orientata in una duplice dire­zione: da un lato, verso l'accentuazione della prospettiva pubblicistica, secondo cui viene vista dall'ordinamento la famiglia, il rapporto educati­vo, con l'allargamento dei soggetti - anche pub­blici - obbligati ad assicurarlo; dall'altro verso una privatizzazione (peraltro ancora in una fase embrionale) delle responsabilità relative; priva­tizzazione coerente con la graduale trasforma­zione dell'interesse normativo all'educazione del minore in diritto del minore stesso ad essere educato.

Una tendenza, quindi, a rivedere il rapporto complesso pubblico-privato in materia minorile, ad allargarne la prospettiva di privatizzazione, a mettere in luce la necessità di una maggiore re­sponsabilizzazione degli enti pubblici. Un discor­so, pur appena iniziato, che sembra muoversi nel­la stessa ottica di quello, molto attuale, relativo alla responsabilità del giudice. Si potrà non con­dividere la scelta del disegno governativo, ma non si può liquidarla con superficialità conside­randola come un'ulteriore espansione del giudi­ce minorile, una forma di protagonismo.

In conclusione, l'equiparazione «giudice mino­rile = operatore sociale» e quella conseguente «tribunale minorile = servizio sociale» è sem­plicistica e non veritiera. Il problema esige un ben più ampio approfondimento. In questa sede, l'unico vero problema da affrontare e risolvere adeguatamente è quello di pervenire al risultato di una effettiva specializzazione di tutti i magi­strati che si occupano di minori: il nodo da scio­gliere è quello di tradurre questa aspirazione - che incontra i pacifici consensi di tutti - in un disegno normativo che non risulti pletorico ma che soprattutto non significhi per il giudice minorile fare il passo indietro del ritorno all'ovile del giudice ordinario non specializzato ed ostile ai suoi orientamenti e per la comunità la perdita di un punto di riferimento valido e generalmente apprezzato.

 

 

(*) Giudice presso il Tribunale per i minorenni di Bari.

 

 

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